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Bologna 2007

Bologna 2007. Life Learning Center.

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Presentation Transcript


  1. Bologna 2007 Life Learning Center

  2. Il Life Learning Center, il primo Centro italiano di formazione permanente e ricerca sulle scienze della vita, nasce a Bologna nel novembre 2000 da un’associazione tra la Fondazione Marino Golinelli (onlus) e l’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, con la collaborazione del Ministero Istruzione università Ricerca/Centro servizi amministrativi di Bologna. Ispirato alla tradizione del Dolan DNA Learning Center di Cold Spring Harbour, creato dal premio nobel Watson, ha lo scopo di diffondere la cultura scientifica sulle scienze della vita, contribuendo al miglioramento dell’insegnamento delle bioscienze nella scuola. Il Centro è un punto di riferimento ed un supporto insostituibile per la didattica sulle scienze della vita, in cui la pratica sperimentale di laboratorio è tanto importante quanto la teoria fornita dai testi e dall’insegnamento in aula.

  3. Individuazione della specie carnea Obiettivo Identificare la specie animale utilizzata nella produzione di alimenti carnei, evidenziando la presenza di sequenze nucleotidiche specie-specifiche.

  4. Introduzione Nella sua universalità, il DNA presenta differenze che consentono di associare specifiche sequenze nucleotidiche ad una singola specie. Per rilevare questi polimorfismi occorre analizzare geni rintracciabili in tutti gli eucarioti. Un esempio tipico è il gene del citocromo b (cyt b) appartenente al genoma mitocondriale. Questo gene, molto conservato a livello interspecifico, presenta comunque delle differenze che permettono di risalire alla specie di appartenenza. L'esperimento prevede prima di tutto l'estrazione e la purificazione del DNA dei campioni in esame; quindi, tramite PCR, l'amplificazione di un frammento del gene cyt b ( è una sequenza nucleotidica di 359 bp particolarmente ricca di mutazioni puntiformi); infine digestione del frammento con enzimi di restrizione specifici ed elettroforesi del DNA digerito. Le bande di DNA, individuabili nel gel elettroforetico, vengono messe a confronto con quadri di bande note, che indicano per ciascuna specie i tipi di frammenti prodotti dagli enzimi di restrizione utilizzati. A questo punto è possibile identificare la/le specie/i animale/i presente/i nel campione alimentare.

  5. Procedimento • Estrazione e purificazione del DNA • PCR • Digestione enzimatica dei campioni di carne • Elettroforesi post digestione enzimatica dei campioni di carne • Analisi dei risultati • Applicazioni pratiche • Protocollo

  6. Estrazione e purificazione del DNA Questa fase è essenziale per estrarre e purificare il DNA da analizzare da tutte le sostanze che lo avvolgono e lo proteggono dalla materia extracellulare. Viene utilizzata una soluzione tampone costituita da : > TRIS, tampone che serve a mantenere il Ph della soluzione costante intorno all’8; > EDTA, conservante che protegge il DNA estretto dall’azione delle nucleasi che tenderebbero e metabolizzarlo; > NaCl, cloruro di sodio, che si lega a proteine portandole in soluzione e inibendo la loro azione (soprattutto degli istoni); > SDS, sodiododecilsolfato, che serve per rendere solubili i fosfolipidi delle membrane nucleari dei campioni precedentemente omogeneizzati.

  7. Estrazione e purificazione del DNA In questo modo abbiamo impedito alla proteine di attaccare il DNA appena estratto. Per degradare definitivamente le proteine che si trovavano nel citoplasma si aggiunge: > Guanidinacloroidrato, che rompe i legami idrogeno e denatura la struttura proteica; > Proteinasi K, che agisce anch’essa sul legame peptidico. Per purificare il DNA si utilizzano particolari resine che interagiscono con questo creando legami dipolo-dipolo che variano per la loro efficacia e la successiva facilità di dissociazione che avviene solitamente tramite isopropanolo.

  8. PCR La PCR amplifica un frammento codificante del cyt b di 359 bp, che contiene polimorfismi specie-specifici. Questa macchina esegue cicli termici volti alla creazione di una quantità di frammenti identici a quelli iniziali secondo una funzione esponenziale in base 2 a partire dal terzo ciclo. Prima di inserire la provetta nel termociclaotre si aggiunge il Master Mix, formato da: > i primer oligonucleotidi, che permettono di riconoscere l’inizio e la fine della sequenza da amplificare > basi azotate che serviranno per creare la nuove sequenze di DNA > Taq – DNA polimarasi > MaCl2 poiché lo ione Ma2+ è indispensabile per attivazione polimerasi N° cicli 45 Denaturazione 94°C per 5” Annealing 50°C per 30” Estensione 72°C per 40”

  9. Digestione enzimatica dei campioni di carne La digestione enzimatica del frammento del cit b evidenzia un certo numero di RFLP (cDNA) diversi per specie animale: è possibile, quindi, riconoscere la specie di appartenenza di ciascun campione analizzato. L'utilizzo di 2 enzimi di restrizioneAluI e HaeIII offre maggiori garanzie per il riconoscimento, poiché l’utilizzo di un solo enzima non permetterebbe di distinguere univocamente due specie diverse poiché in entrambe è presente la stessa sezione di taglio nella stessa sede: pertanto l’utilizzo di un secondo enzima di restrizione permette la differenziazione specifica. Infatti, confrontando gli schemi di confronto notiamo come sottoposti al solo enzima HAEIII le carni di pollo e suino risultino molto simili per scomposizione, mentre caso inverso si ha tra pollo e tacchino, entrambi non influenzati dal taglio dell’enzima ALUI.

  10. Elettroforesi post digestione enzimatica dei campioni di carne I campioni di carne vengono inseriti nei pozzetti del gel e la cella elettroforetica in cui i diversi frammenti di DNA si muovono più o meno in lunghezza a causa del diverso peso atomico e quindi diversa capacità di solubilita.

  11. Applicazioni pratiche • Certificazione di accompagnamento ai prodotti in commercio • Introduzione di specie alternative • Controllo dei semilavorati alimentari Le principali applicazioni pratiche di questo procedimento sono:

  12. Protocollo • Omogeneizzazione dei campioni incogniti; • Aggiungere 860 µl di tampone di estrazione composto di: > TRIS > EDTA > NaCl > SDS • Aggiungere 100 µl di guanidina cloridrato e 40 µl di proteinasi K; • Lasciare riposare per 1h a 65°C; • Si centrifuga il campione e si prelevano 25 µl della fase liquida contenente il DNA • Si aggiungono 250 µl di resina per fissare il DNA tramite i legami dipolo-dipolo.

  13. Protocollo • Utilizzando una siringa si dissocia la fase solida che contiene il DNA e la resina dalla restante fase liquida • Si addizionano 1000 µl di isopropanolo 80% per dissociare il DNA dalla resina • Si esegue nuovamente l’operazione del punto precedente quindi si centrifuga il campione • La fase liquida viene eluita con acqua distillata (50 µl) e soluzione tampone (50 µl) e quindi si centrifuga

  14. Protocollo • Aggiungo 3µl del DNA da amplificare insieme a 22 µl di Master Mix, formato da: > i primer oligonucleotidi che variano a seconda degli esperimenti in base alla fase che si vuole amplificare > basi azotate > Taq – DNA polimerasi > MaCl2 poiché il Ma2+ è indispensabile per l’attivazione della Taq – DNA polimerasi • Inserisco la provetta in PCR per 45 cicli • Inserire 10 µl di DNA in provette insieme a 2,5 µl di soluzione tampone (buffer per creare ambiente ideale per permettere la digestione degli enzimi) e 2,5 µl di enzima di restrizione ALU • Ripetere l’operazione precedente aggiungendo l’enzima di restrizione Hae3 al posto dell’ALU • Inserire in una provetta soltanto 10 µl di DNA amplificato • Incubare i campioni a 37°C per 60’

  15. Protocollo • Durante l’attesa preparare un gel al 2% di agarosio e TBE (TRIS, acido borico e EDTA) che si riscalda per ricavarne soluzione omogenea • Attraverso l’ausilio di pettini si creano i gel per la successiva elettroforesi • Aggiungere ai 25 µl di DNA digerito 5 µl di Loading Dye • Aggiungere ai 10 µl di DNA non digerito rimasti 2 µl di Loading Dye

  16. Protocollo • Caricare nei pozzetti, nell’ordine, 10l di DNA non digerito, 20 µl di digerito con AluI e 20 µl di digerito con HaeIII. Ricordarsi di annotare lo schema di caricamento • Avviare la corsa elettroforetica a 90 V per 30-40' • Colorare il gel con etidio bromuro per 1 h circa • Fotografare il risultato e confrontare con schemi di raffronto

  17. Enzimi di restrizione Nei batteri sono presenti degli enzimi che tagliano le molecole estranee di DNA in piccoli segmenti che vengono duplicato o trascritti (in tal modo dei batteri risultano immuni a particolari virus). Questi enzimi vengono chiamati enzimi di restrizione. Differenti enzimi di restrizione tagliano il DNA in differenti sequenze nucleotidiche specifiche. Invece di tagliare le molecole in maniera netta, alcuni enzimi di restrizione lasciano delle estremità coesive. Un qualsiasi DNA tagliato con questi enzimi può essere facilmente attaccato ad un’altra molecola di DNA tagliata dallo stesso enzima. La scoperta degli enzimi di restrizione ha reso possibile lo sviluppo della tecnologia del DNA ricombinante. In sostanza gli enzimi di restrizione, che si trovano in molti procarioti dove hanno il ruolo di spezzare molecole di DNA estraneo, sono delle endonucleasi che catalizzano la scissione di entrambi i filamenti di DNA in corrispondenza di una specifica sequenza nucleotidica. Molti enzimi di restrizione riconoscono sequenze di lunghezza compresa tra le quattro e le otto basi . La reazione di rottura del legame fosfodiesterico richiede la presenza di uno ione bivalente ma non richiede l’impiego dell’ATP. A seconda del tipo di enzima, la scissione del doppio filamento di DNA produce estremità piatte (blunt ends) o protrusive (steaky ends).

  18. Nel caso dell’esperimento della identificazione della specie carnea, gli enzimi di restrizione vengono utilizzati per tagliare il DNA in diversi frammenti che, avendo lunghezza diversa e pertanto diverso peso molare, “correranno” in maniera diversa nella cella elettroforetica dando origine alla varie bande. Nel caso della trasformazione batterica, gli enzimi di restrizione e la tecnica del DNA ricombinante sono stati usati dal laboratorio che ci ha fornito i pGLO (plasmide Green Light Organism), nella creazione dei plasmidi stessi. In questo caso il processo è stato realizzato tre volte per permettere la seguenti modifiche: > introduzione del gene per la resistenza all’ampicillina > il gene regolatore che sintetizza il repressore nell’operone che regola l’espressione della GFP > l’immissione dei geni strutturali che sintetizzano la GFP al posto di quelli che sarebbero attivati dall’operatore che viene attivato a causa della presenza dell’inibitore, l’arabinosio

  19. Trasformazione batterica Obiettivo Inserire in una cellula batterica di Escherichia coli una piccola molecola di DNA (plasmide) recante geni che verranno poi espressi nel fenotipo del batterio.

  20. Introduzione La trasformazione batterica è una tecnica di biologia molecolare messa a punto per facilitare l'introduzione di plasmidi nei batteri, processo che in natura avviene in misura minima. Ciò si ottiene modificando alcune proprietà chimico-fisiche delle pareti e delle membrane cellulari con l'impiego di sostanze chimiche (CaCl2), associate a rapidi sbalzi di temperatura o di scariche elettriche ad alto voltaggio (elettroporazione); ne deriva così una temporanea permeabilizzazione delle cellule al DNA esogeno. I batteri fatti poi crescere in piastre contenenti substrati selettivi danno origine a cloni di cellule trasformate, che esprimono i geni portati dal plasmide incorporato. L'aspetto fenotipico delle cellule risulta così alterato rispetto al ceppo selvatico (wild type). Il plasmide pGLO, con cui viene condotto il nostro esperimento, possiede un gene per la resistenza all'antibiotico ampicillina (ampr), uno per il controllo del metabolismo dello zucchero arabinosio (ara C) ed uno per la sintesi della proteina GFP, il cui gene proviene dalla medusa tropicale Aequorea victoria. Le colonie dei batteri trasformati, quando vengono esposte a radiazioni UV, emettono una fluorescenza verde, prova dell'avvenuta espressione fenotipica della GFP.

  21. Lisi membrana cellulare ed introduzione dei plasmidi Shock termico Incubatura Piastrazione Analisi dei risultati Applicazioni pratiche Protocollo Procedimento

  22. Lisi membrana cellulare ed introduzione plasmidi Il campione di batteri viene trattato con CaCl2 che rovina la parete cellulare e neutralizza le cariche negative della membrana cellulare e del DNA. Il posizionamento del campione in un bagno di ghiaccio permette di diminuire la mobilità della molecole della membrana e attiva le porine su di essa facilitando l’ingresso dei plasmidi che termina grazie al passaggio successivo. I plasmidi sono stati ottenuti grazie alla tecnica del DNA ricombinante e degli enzimi di restrizione.

  23. Shock termico Lo shock termico o “heat shock” serve per permettere il passaggio dei plasmidi all’interno dello strato lipidico della membrana. Avviene per 90’ in un bagno termostatico a 42°C, durante i quali il DNA viene eccitato dalla temperature e penetra all’interno della membrana i cui lipidi sono bloccati dagli ioni Ca2+ .

  24. Incubatura Dopo le varie operazioni compiute, volte a degradare la membrana cellulare ed all’ingresso di sostanze estranee tramite lo shock termico, si incubano i batteri per permettergli di recuperare la loro funzionalità e per favorirne la sviluppo e la riproduzione. In questo modo dalle due provette contenenti una modesta quantità di batteri è possibile farne nascere una vera e propria colonia.

  25. Piastrazione Dopo l’incubatura si piastrano i batteri in una capsula divisa in quattro settori o in quattro piastre differenti (foto di sfondo). Nell’eseguire questo processo si tiene conto della diversa composizione del terreno nei quattro settori/piastre: • Settore 1: LB, agar. • Settore 2: LB, agar e ampicillina. • Settore 3: LB, agar e ampicillina. • Settore 4: LB, agar, ampicillina e arabinosio. I primi due devono essere riempiti con i batteri senza plasmidi, mentre la altre con quelli geneticamente modiicati. Per osservare il risultato dopo una notte di ulteriore incubatura è necessaria una sorgente di raggi UV.

  26. Analisi dei risultati I risultati ottenuti dovrebbero essere i seguenti: • Settore 1: i batteri non trasformati sono proliferati creando una colonia (nelle piastre di sfondo questo risultato è la seconda piastra da destra): serve da controllo negativo per verificare che i batteri di partenza fossero vivi. • Settore 2: i batteri non trasformati sono morti per la presenza dell’antibiotico (piastra più a destra): è un controllo negativo per verificare che i batteri non avessero già la resistenza all’antibiotico. • Settore 3: in questo caso i batteri trasformati dovrebbero resistere all’antibiotico (seconda piastra da sinistra): controllo negativo poiché sono cresciuti solo i batteri OGM. • Settore 4: la presenza di arabinosio attiva gli operoni che sintetizzano i geni strutturali che trascrivono la GFP: controllo negativo perché se non vi è luminescenza significa che la tecnica del DNA ricombinante non è stata efficace.

  27. Settore 4 Settore 3 Settore 1 Settore 2

  28. Applicazioni pratiche L’organismo così modificato e fatto riprodurre costituisce una vera e propria fabbrica di: • copie di geni introducibili nel genoma di altri organismi (v. gene resistenza negli OGM e creazione di batteri decompositori di sostanze altrimenti non facilmente decomponibili) • copie di proteine di vario utilizzo (insulina, somatostatina, somatotropo, interferone )

  29. Applicazioni pratiche In campo medico possiamo distinguere quattro tipologie di applicazione: • ricerca: utilizzazione di animali geneticamente modificati come cavie (oncotopi: topi modificati che sviluppano determinati tumori, fungono da cavie per le sperimentazione dei farmaci) • industria farmaceutica: produzione di vaccini e farmaci • prevenzione: analisi del cariotipo, analisi prenatali, analisi dei frammenti di restrizione (RFLP) • terapia genica: introduzione di alleli sani nel DNA di individui portatori di alleli patologici

  30. Applicazioni pratiche In campo agricolo la biotecnologie si configurano principalmente come creazione, per la coltivazione, di OGM portatori di caratteristiche vantaggiose quali resistenza ai parassiti e maggiore capacità di assimilare azoto. Questo uso delle scienze della Natura ha recentemente sollevato polemiche da parte delle associazioni dei consumatori che si battono per maggiori accertamenti sulla sicurezza di questi nuovi organismi come ad esempio il mais transgenico resistente agli attacchi del lepidottero piralide, dannoso alle colture.

  31. Bioetica La bioetica è una disciplina recente che si propone la valutazione dei limiti morali al di là dei quali l'intervento in campo genetico diviene illecito, e definisce norme comportamentali al riguardo. Il rapidissimo e continuo sviluppo in un settore tanto delicato della ricerca e della sperimentazione ha imposto una scrupolosa considerazione di questa problematica. Attualmente l'attenzione comune è rivolta in modo particolare al dibattito sulla liceità o meno della clonazione di cellule umane, ma vi sono numerose altre questioni di cui questa disciplina si occupa e tutte ci coinvolgono direttamente: per esempio nel campo dell'alimentazione ogni giorno sorgono problematiche sul piano etico per via del continuo progredire della scienza.

  32. Enzimi di restrizione Nei batteri sono presenti degli enzimi che tagliano le molecole estranee di DNA in piccoli segmenti che vengono duplicato o trascritti (in tal modo dei batteri risultano immuni a particolari virus). Questi enzimi vengono chiamati enzimi di restrizione. Differenti enzimi di restrizione tagliano il DNA in differenti sequenze nucleotidiche specifiche. Invece di tagliare le molecole in maniera netta, alcuni enzimi di restrizione lasciano delle estremità coesive. Un qualsiasi DNA tagliato con questi enzimi può essere facilmente attaccato ad un’altra molecola di DNA tagliata dallo stesso enzima. La scoperta degli enzimi di restrizione ha reso possibile lo sviluppo della tecnologia del DNA ricombinante. In sostanza gli enzimi di restrizione, che si trovano in molti procarioti dove hanno il ruolo di spezzare molecole di DNA estraneo, sono delle endonucleasi che catalizzano la scissione di entrambi i filamenti di DNA in corrispondenza di una specifica sequenza nucleotidica. Molti enzimi di restrizione riconoscono sequenze di lunghezza compresa tra le quattro e le otto basi . La reazione di rottura del legame fosfodiesterico richiede la presenza di uno ione bivalente ma non richiede l’impiego dell’ATP. A seconda del tipo di enzima, la scissione del doppio filamento di DNA produce estremità piatte (blunt ends) o protrusive (steaky ends).

  33. Nel caso dell’esperimento della identificazione della specie carnea, gli enzimi di restrizione vengono utilizzati per tagliare il DNA in diversi frammenti che, avendo lunghezza diversa e pertanto diverso peso molare, “correranno” in maniera diversa nella cella elettroforetica dando origine alla varie bande. Nel caso della trasformazione batterica, gli enzimi di restrizione e la tecnica del DNA ricombinante sono stati usati dal laboratorio che ci ha fornito i pGLO (plasmide Green Light Organism), nella creazione dei plasmidi stessi. In questo caso il processo è stato realizzato tre volte per permettere la seguenti modifiche: > introduzione del gene per la resistenza all’ampicillina > il gene regolatore che sintetizza il repressore nell’operone che regola l’espressione della GFP > l’immissione dei geni strutturali che sintetizzano la GFP al posto di quelli che sarebbero attivati dall’operatore che viene attivato a causa della presenza dell’inibitore, l’arabinosio

  34. Protocollo Lisi membrana cellulare > Marca su una Eppendorf + e su un'altra -. > Apri le provette e trasferisci 100 µl della soluzione di CaCl2 in ciascuna provetta. > Poni le provette in ghiaccio. > Usa un'ansa sterile per prendere una singola colonia battericadalla tua piastra di partenza e stemperane il contenuto nella provetta. Ripeti l’operazione per entrambi le Eppendorf. > Lasciare a riposo per 5’ in ghiaccio. > Preleva con una pipetta un volume di 1 µl di pGLO nella Eppendorf + e lasciare riposare nuovamente. Shock termico > Usando il porta provette, trasferisci entrambe le provette, la (+) e la (-) nel bagno termostatico a 42 °C per esattamente 90 secondi. Incuba le provette in ghiaccio per 5 minuti.

  35. Incubatura > Preleva 100 µl di LB e aggiungili alla provetta poi richiudila. Ripeti la stessa cosa per l'altra provetta. > Incuba le provette per 30’ a 37°C. > Trascorso il tempo richiesto apri la provetta e, usando un nuovo puntale per ogni provetta, poni 100 µl delle sospensioni batteriche di trasformazione (+) e di controllo (-) per ciascun settore secondo la disposizione che segue. > Usa un'ansa sterile per ogni piastra. Distribuisci le sospensioni uniformemente sulla superficie dell'agar con un'ansa sterile nuova. > Incubare per la notte a 37°C. Metodo di piastrazione Le piastre utilizzate sono divise in quattro settori che contengono le seguenti sostanze: • Settore 1: LB, agar. • Settore 2: LB, agar e ampicillina. • Settore 3: LB, agar e ampicillina. • Settore 4: LB, agar, ampicillina e arabinosio. I primi due settori saranno riempiti con il contenuto della provetta -, il terzo ed il quarto settore invece con il contenuto dell’Eppendorf +.

  36. Regno:AnimaliaPhylum:CnidariaClasse:HydrozoaOrdine:HydroidaFamiglia:AequoreidaeGenere:AequoreaSpecie:A. Victoria Aequorea victoria Aequorea Victoria, anche denominata la gelatina di cristallo, è una medusa bioluminescente che è trovata fuori del litorale ad ovest dell'America del Nord. Questa medusa è oggi conosciuta per la sintesi proteina verde fluorescente (GFP) è un attrezzo importante utilizzato nella ricerca biologica. Aequorea Victoria è una medusa stagionale. Spariscono completamente dall'acqua in autunno. Soltanto piccole colonie rimangono in vita sul fondale marino. In primavera, riappaiono nuovamente in grande numero ed iniziano il ciclo. Nel 1955, Davenport e Nicol dimostravano che le cellule di questa medusa producevano una brillante luce fosforescente di colore verde quando essa veniva irradiata con luce ultravioletta ad onda lunga. Nel 1962, Shimomura descriveva un estratto proteico della medusa che poteva produrre questa fluorescenza. Morin e Hastings, individuarono la stessa proteina nove anni dopo.

  37. Questa a lato è la rappresentazione in 3D della GFP (Green Fluorescent Protein) che abbiamo utilizzato nell’esperimento della trasformazione batterica: l’immagine è stata elaborata grazie ad un particolare programma che permette appunto di riprodurre graficamente non solo proteine ma anche altre strutture organiche. Evidenziato in verde si denota il cromoforo che è il responsabile delle luminescenza verde. In giallo ( α- eliche) e magenta (foglietti-β) sono visibili le parti che creano la struttura secondaria della proteina.

  38. GFP La GFP (green fluorescent protein) è un polipeptide di 238 amminoacidi, tipico di alghe marine e meduse, quali la Aequorea victoria, che rende fluorescente l’organismo che la possiede. L’operone che codifica per tale proteina deve essere necessariamente presente nel plasmide. La sequenza ORI è costituita da alcuni nucleotidi il cui compito è quello di dare il segnale d’inizio per la sintesi della GFP. L’AraC è un gene di regolazione; esso codifica, cioè, per particolari proteine di regolazione dette repressori, che favoriscono oppure bloccano la trascrizione di RNA messaggero. Quando nel terreno di coltura è presente l’arabinosio (uno zucchero), che funge da induttore, questo si lega al repressore che si trova attaccato ad un particolare sito della molecola di DNA detto operatore, e lo stacca, permettendo all’RNA polimerasi di iniziare il suo lavoro.

  39. GFP La luminescenza di GFP è un fenomeno intrinseco alla stessa proteina e non richiede substrati, quindi questa è molto usata come marcatore nelle indagini di identificazione e localizzazione subcellulare delle proteine. In questi saggi la sequenza nucleotidica della proteina X da identificare viene fusa con la sequenza nucleotidica di GFP in un vettore di espressione che solitamente è un plasmide. Il plasmide ricombinante viene inserito nella cellula eucariotica, solitamente tramite elettroporazione, in modo che, una volta all'interno della cellula, il plasmide si integri nel genoma per ricombinazione sito specifica all'interno del gene per la proteina X. Questo processo porta all'inattivazione del gene selvatico per X e all'espressione del gene ricombinante per X-GFP. L'identificazione e localizzazione subcellulare di X-GFP può allora essere visualizzata tramite la microscopia a fluorescenza che rivela i segnali prodotti da GFP e che quindi identificano anche X. Questa tecnica è molto potente in quanto la localizzazione della proteina studiata viene rivelata in vivo ed è possibile seguirla anche nel tempo. Questo sistema può essere utilizzato anche per marcare i fiori o altri organismi.

  40. GFP La proteina GFP è straordinariamente utile per studiare le cellule viventi, e i ricercatori stanno rendendola ancora più utile. Stanno inserendo con l'ingegneria genetica molecole di proteina GFP che emettono per fluorescenza colori diversi. Si possono ora sintetizzare proteine blu fluorescenti, gialle fluorescenti e molte altre ancora. Il trucco è introdurre piccole mutazioni che alterano la stabilità del cromoforo. Migliaia di varianti diverse sono già stata sperimentate. I ricercatori stanno anche usando la proteina GFP per creare dei biosensori: macchine molecolari che sentono i livelli di ioni o il pH, e che poi trasmettono i risultati diventando fluorescenti in modi caratteristici. La molecola mostrata qui, dall'archivio PDB 1kys, è una proteina blu fluorescente che è stata modificata per sentire il livello di ioni zinco. Quando lo zinco, mostrato qui in rosso, si lega al cromoforo modificato, mostrato qui in blu, la proteina diventa due volte più fluorescente, creando un segnale visibile che può essere facilmente osservato.

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