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Codice Debi 2009. (donne-moi un cadeau). APPROVED. READY TO GO!. eccoci qua. Kathe. Vass. Debs. Ho scritto queste pagine soprattutto per me, per non lasciare che la memoria evaporasse.
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Codice Debi 2009 (donne-moi un cadeau)
APPROVED READY TO GO! eccoci qua... Kathe Vass Debs
Ho scritto queste pagine soprattutto per me, per non lasciare che la memoria evaporasse. Di rientro dal viaggio, io Vass e Katherina cercavamo di ricordare i diversi momenti più significativi e ci siamo presto accorti di avere una gran confusione in testa tra nomi visi e luoghi. E’ normale, due settimane cambiando destinazione ogni sera non sono facili da tenere a mente…però la sensazione di aver perso il filo non ci piaceva affatto. Scrivendo sono stata costretta a mettere ordine nella mia testa associando le foto ai luoghi ed è stato come rivivere il viaggio una seconda volta, apprezzando nuovamente ogni passaggio nel cercare le parole per descriverlo. Ripensare a qualcosa che si è vissuto ci rende coscienti del vero valore di quel momento; nell’istante in cui viviamo le cose siamo spesso troppo distratti per apprezzarle fino in fondo. Sono sicura che questa sorta di diario di viaggio sia un bel ricordo soprattutto per noi tre che l’abbiamo vissuto, ma spero possa essere una lettura divertente anche per chi come noi è un amante dell’Africa, dei viaggi alternativi, dell’avventura, della vita. ALHAMDOULILLAHI Debora, 22 dicembre 2009
27/11/2009 giorno zero E’ il fatidico momento: dopo aver tanto parlato, pensato, sognato e preparato, finalmente si parte davvero. O almeno così dovrebbe essere, ma abbiamo l’aereo alle 19.35 e alle 18.30 io e Vass siamo ancora in macchina, imbottigliati in un traffico mai visto da quando hanno costruito l’aeroporto, roba da matti! Cerchiamo di farci coraggio ma non ci muoviamo di un passo, siamo proprio bloccati, perderemo il volo non ce la possiamo fare, panico panico panico, cominciamo bene. Katherina (che io non ho mai visto) è già arrivata e ci chiama al cellulare preoccupata “dove siete??? qua fra poco chiudono!” Finalmente riusciamo a raggiungere il terminal, è tardissimo, io e Kathe facciamo il check-in all’ultimo secondo implorando le impiegate con una lacrimuccia finta già pronta a scendere e trasciniamo le biciclette da un capo all’altro dell’aeroporto in una corsa forsennata, è sicuramente la disperazione a darci la forza, sembra troppo assurdo per essere vero. Nel frattempo Vass si precipita al primo parcheggio disponibile abbandonando la sua fedele Xantia a un destino incerto, torna in aeroporto a velocità inspiegabile, salta la coda chilometrica al metal detector e si materializza sull’aereo in tempo record…ce l’abbiamo fatta, incredibile. Siamo già un team, sudati, affannati e felici: dopo un inizio del genere, ora non può che essere tutto più semplice
Arriviamo a Dakar in piena notte, sono quasi le 4 e siamo un po’ stanchi e assonnati. Ma ci sono 24 gradi e scendendo le scale del Boeing non posso fare a meno di respirare a pieni polmoni e sorridere fra me e me: che bello, mi sento a casa. E’ sempre stato così, quando metto il naso fuori da un aereo atterrato in Africa o in America Latina, il vento caldo che mi arriva in faccia mi dice sempre la stessa cosa: bentornata, staremo bene insieme qui. E poi l’Africa ci travolge immediatamente senza più lasciarci il tempo di pensare a niente di europeo. La coda infinita per i passaporti, le valigie sperse nella mischia, i tassisti impazziti che litigano per portarci in centro, i nostri mille bagagli ingombranti stipati in un’unica auto che corre nel buio. E’ già un altro mondo, e io che manco da così tanto tempo mi sento come se non l’avessi mai lasciato un istante; non è il mio mondo, non potrei mai essere così, ma qualcosa quando ero più giovane e più malleabile mi si è appiccicato addosso, qualcosa è rimasto, una finestra socchiusa pronta a spalancarsi al primo soffio di vento. Certe cose è come se dormissero dentro di noi e basta un suono, un odore, una voce a farle risvegliare. Scusa Katherina se scrivo in italiano, so che non potrei dire le stesse cose in inglese. Il nostro “capo gita” - and body guard! - tradurrà per te direttamente in greco, ne sono certa…è così bravo, spesso mi traduce il Tao dal greco all’italiano, figuriamoci se non può tradurre le quattro parole che sto scrivendo io (merci Vass, in anticipo). Quando arriviamo dai padri Mariani che ci ospiteranno a Dakar penso che la sistemazione sia davvero spartana e inizio subito a colpevolizzarmi per la mia vita agiata e piena di sprechi. Ancora non so che, due settimane più tardi, l’alloggio dei preti mi sembrerà un’ oasi nel deserto, un miraggio, un tuffo nel lusso. Tutto è così relativo e noi così poco attenti per rendercene conto.
28/11/2009 giorno uno Due ore di sonno possono bastare, la voglia di iniziare questa avventura ci tira giù dal letto alle 8 per una veloce colazione con padre Xavier (francese da 30 anni in Senegal, lui sì che la vive davvero quella cosa che io tengo addormentata dentro di me). Montiamo le bici, io in realtà non sono nemmeno capace, mi sento la “donna inutile” del gruppo. Katherina mi aiuta, lei è una vera ciclista; vedo subito che andremo d’accordo e ne sono felice. In genere io non litigo con nessuno, non sono geneticamente programmata per il litigio, ma un conto è fare buon viso a cattivo gioco e un conto è avere di fianco una persona adorabile come lei. L’altro compagno di viaggio invece già lo conosco bene bene; mentre noi montiamo le nostre bici Vass è lì nel sottoscala tutto intento a revisionare la sua bicicletta senegalese verde fiammante con il manubrio da corsa girato al contrario e ha negli occhi quella luce che hanno i bambini quando aprono i regali…très joli!
Siamo pronti. Elmetto, giubbino catarifrangente, si parte per una prima perlustrazione di Dakar: oggi è la festa del montone – leTabaskì - e non c’è in giro nessuno, “negozi” chiusi…insomma è un po’ inutile restare in città, meglio approfittare del poco traffico per iniziare subito il nostro tour. Fuori la mappa: si va al nord. Era quello che volevo perché il nord non l’ho mai visto, anche se so che il sud mi piace di più. Io sono una da vegetazione, animali, acqua e stregoni. Il nord è più fatto di terra, vento e tetti di paglia, ma non mi importa perché voglio vedere S.Louis e voglio sfidare il caldo, le strade sterrate, le spine delle acacie e le zanzare. Andiamo: lasciamo Dakar e ci dirigiamo verso Keur Massar. Ho 33 anni e non ho mai dormito in tenda, che vergogna. Sembra assurdo, ma quello che più mi spaventa di questo viaggio è proprio lei, la tenda. Vass fa sempre tutto facile, per quel suo strano principio secondo il quale se una cosa è normale per lui allora è normale per tutti e quindi anche per me. Ma io non sono tanto convinta e mentre pedalo col naso al vento nelle mie prime ore africane, penso alla notte che presto arriverà e penso “chissà come si monta una tenda? già non sapevo montare la bici, ora nemmeno la tenda, sono proprio la classica donna inutile”
Candela – attrezzo improvvisato per aprire la catena E intanto che io penso alla tenda, la mia bici pensa bene di rompersi, subito, arrivati a Niakul Rap il cambio posteriore si sfascia completamente entrando nei raggi e facendo cadere la catena…CRACK! Ecco, e adesso? Ci guardiamo in faccia tutti e tre un po’ spaesati (io), stupiti (Katherina) e preoccupati (Vass, l’unico in grado di stimare le conseguenze del danno sulla nostra tabella di marcia). Tempo 4 secondi e si materializza un omino in motorino, sedicente “mécanicien”, che si mette di buona lena a ripararmi il podilato (bici in greco). Tira e molla, non è così semplice, ci impieghiamo quasi 2 ore per mettere una pezza al velocipede e quando ripartiamo io non posso più cambiare la marcia…orrore! Lasciamo un po’ di mancia al meccanico che rilancia subito offrendoci di passare la notte a casa sua; sono esterrefatta, ero così preoccupata dal problema di trovare ospitalità per la notte e invece sono le persone stesse a offrircela spontaneamente. Per fortuna che lo chiamiamo terzo mondo…
La prima notte comunque decidiamo di passarla al camping del Lac Rose dove nel frattempo siamo riusciti a arrivare; per me è un buon inizio visto che almeno esistono dei servizi in comune e una doccia con la corrente elettrica. Trascorriamo la serata cenando a scrocco da tre allegri pensionati spagnoli che hanno attraversato il deserto con un camion pieno di vino tinto e jamon serrano; che belle queste cose, dividono il cibo con noi e ci raccontiamo le reciproche esperienze. Comincio a far confusione con le lingue: parliamo in francese con i senegalesi, io e Vass comunichiamo in italiano ma con Katherina parlo in inglese mentre lei e Vass ovviamente usano il greco. Ci mancava proprio solo lo spagnolo, già che Vass si diletta anche con il wolof quando proprio non c’è altro modo per comunicare! Più tardi prendiamo le bici e pedaliamo al buio fino al villaggio di Niaga, dove Modou (il receptionista del camping) ci ha invitati per conoscere la sua famiglia e assaggiare il Tabaskì. Stuoia per terra, stelle in cielo, bambini intorno. Un unico piatto e tante mani; sei mani bianche e molte mani nere mangiano insieme senza essersi mai viste prima. A casa mia non potrebbe succedere, eppure io sono sempre io. Questo è il miracolo dell’Africa, ti trasforma in te stesso, un te stesso che non sapevi di avere.
29/11/2009 giorno due La signora sorride…ma vuole dei soldi in cambio …quando ha visto che non le davamo nulla…non sorrideva più!! La notte in tenda passa senza problemi, ce la posso benissimo fare. Ora l’unica paura che mi resta per le notti a venire è l’assenza di gabinetto perché l’idea di acquattarmi dietro un arbusto in mezzo ai campi ancora non mi alletta proprio tantissimo.Vass ronfa come un ghiro, beato lui; non è nemmeno lontanamente disturbato dai rumori del campeggio, dai venditori che urlano e dalle onde del mare che ci chiamano. Già, perché il mare è proprio lì dietro e appena riusciamo a svegliare l’uomo del gruppo andiamo a fare una passeggiata in spiaggia. Katherina non ha mai visto l’oceano e anche per me è un po’ come se fosse sempre la prima volta; sono affascinata dagli orizzonti sconfinati, poco importa che si tratti di distese d’acqua, di sabbia o di prato. E’ il senso di infinito che mi piace, mi ricorda quanto siamo piccoli e presuntuosi nella nostra illusione di onnipotenza.
La pedalata mattutina è piuttosto dura; lasciando il Lago Rosa ci troviamo su una strada sabbiosa senza più riserve d’acqua e io con il cambio rotto faccio davvero fatica. Quando finalmente ci imbattiamo in un caseificio che vende latte e yogurt ci precipitiamo al baracchino assetati come non mai. Poi il viaggio procede più agevolmente, ci immettiamo sulla strada asfaltata e puntiamo verso nord; le uniche soste sono per fare la pipì e per mangiare una papaya o un po’ di pane dolce (farcito con le mosche, che riescono non si sa come a entrare nel sacchetto!) Nel pomeriggio arriviamo in un villaggio di pescatori pieno di barche e di pesce (credo sia Kayar) ed è lì che ci accorgiamo di aver sbagliato strada. Non c’è niente da fare, abbiamo pedalato per un’ora inutilmente, dobbiamo tornare indietro e poi pedalare per almeno altre due ore nella direzione giusta. Si sta facendo tardi, non arriveremo mai prima che faccia notte: infatti alle 18.45 è improvvisamente buio pesto e noi siamo ancora per strada. Il primo villaggio che raggiungiamo non ha la corrente elettrica quindi tutte le trattative per chiedere ospitalità (primo tentativo fallito - troppo esosi!), montare la tenda, lavarsi e cenare avvengono nella semi oscurità. Per me tutto ciò è nuovo e meraviglioso: ora l’avventura è iniziata davvero.
Passiamo la notte a casa del capo villaggio, il che ci mette ancora una volta in una posizione privilegiata. Il cortile è infatti circondato da un muro, c’è il bagno, il locale per la doccia e acqua in abbondanza. Io non ho mai fatto la doccia con un secchio e mi stupisco di quanto sia effettivamente facile lavarsi con poca acqua, al buio, in mezzo alla sabbia e alle galline. Spesso le cose sono più impressionanti a raccontarle che a farle; laviamo i nostri vestiti in un catino e li stendiamo di fianco al cavallo che bruca e ci osserva un po’ stupito. E’ buio, ma si riesce a vedere abbastanza bene perché la luna lascia filtrare un po’ di luce dalle nuvole. Stasera niente stelle, ma la torcia elettrica non è necessaria. La moglie del capo villaggio ci prepara un pollo con cipolle e patate che ci pare buonissimo, mangiato rigorosamente con le mani. Nel frattempo il figlio ci mostra con orgoglio la sua stanza. Probabilmente è una stanza molto lussuosa rispetto a quella degli altri suoi coetanei, ma per noi sono solo quattro mura scrostate con un materasso per terra e qualche libro gettato qua e là. Ancora non ho fatto l’occhio allo standard locale; alla fine del viaggio quella stanza l’avrei apprezzata assai di più! Dopo cena le donne del villaggio si riuniscono in mezzo alle case e ballano al suono di una musica suonata da loro stesse; ci accorgiamo con stupore che gli strumenti non sono altro che padelle, mestoli e catini di plastica. E’ impressionante come si possa creare una bella atmosfera con niente. Andiamo a letto presto, stanchi ma soddisfatti. Ci sembra incredibile che siano passate solo 48 ore dal nostro arrivo, abbiamo l’impressione di essere in viaggio da molto più tempo.
30/11/2009 giorno tre Di tutto avevo pensato prima di partire, ma l’eventualità di non riuscire a dormire a causa di “rumori esterni” non l’avevo proprio considerata. Siamo in mezzo al niente, che rumore ci potrà mai essere? E invece alle 4 del mattino il gallo inizia a cantare (un pochino in anticipo, a mio modesto avviso) e l’asino raglia e la pecora bela e il cane abbaia. Ho sentito anche un verso non ben identificato, che secondo me poteva benissimo essere una iena, ma meglio non indagare troppo prima che mi venga paura. Insomma, alle 7 Katherina e io ci alziamo per la disperazione. Emergiamo dalle reciproche tende e scuotiamo la testa con rassegnazione. Neanche a dirlo Vass dorme come un ghiro, felice e beato. GRRR. I bambini ci circondano in men che non si dica “donne-moi un cadeau, donne-moi de l’argent, donne-moi ton velo, donne-moi donne-moi..” e inizia una nuova giornata. La mattinata passa dal vulcanisateur, dove facciamo mettere il rinforzo alle ruote delle bici per proteggerci dalle malefiche spine delle acacie. Ne approfittiamo anche per far riparare il cambio della mia bici, che non può decisamente restare così per tutto il viaggio…e l’intera procedura richiede ovviamente un po’ di tempo (oltretutto il vero meccanico – che è un ragazzino – non c’è e ci tocca aspettarlo scortati dai poliziotti! Meccanico teen ager POLIZIOTTI
Mentre aspettiamo cogliamo l’occasione per prenderci un caffè Touba al “bar” del villaggio (in realtà qualcuno si mangia anche un mega panino con la frittata) e notiamo che c’è in giro un sacco di immondizia; peccato, dovrebbero raccoglierla in qualche modo e invece non esistono assolutamente cestini di nessun genere. Io odio buttare i rifiuti in terra, è proprio contro la mia natura, ma qui sono costretta a farci l’abitudine: quando devi buttare qualcosa non c’è alternativa, la devi lasciare per strada assieme a tutta l’altra spazzatura. Un tempo almeno era tutta organica, ora con l’invasione della “civilizzazione” si sono create montagne di plastica destinate a restare lì per sempre. Il paese è piccolo ma la gente è tanta e sono tutti in giro a passeggio per la via centrale. La percentuale di popolazione che lavora sembra davvero esigua, mi chiedo cosa facciano tutti gli altri ma probabilmente la risposta è semplice: semplicemente esistono. il cliente (con la maglia della nazionale senegalese) il cuoco Cucina a vista… stile sushi! Giornale italiano (vecchio)
Quando riprendiamo a pedalare sono ormai quasi le due del pomeriggio, non ci restano moltissime ore di luce.Arrivati a Mboropotremmo dormiredalle monache che ci hanno consigliato i padri Mariani, ma preferiamo continuare per un altro tratto visto che è ancora relativamente presto; così ci fermiamo solo per mangiare della frutta e del cous-cous che ci offre la fruttivendola e poi via di nuovo. Arriviamo a Tivaoune verso il tramonto e Vass chiama la moglie di Jordan (che vive a Milano) per annunciarle la nostra visita - con autoinvito sottinteso. Stasera infatti staremo da lei, ha una bella casa e due figli, un maschio e una femmina di pochi mesi: facciamo subito delle foto da inviare a Jordan che non ha ancora visto la bambina! Qui è tutto facile, abbiamo il bagno, la doccia, l’acqua corrente e lo stendibiancheria. Mettiamo le tende nel patio e ceniamo assieme a loro (nella casa abitano tante persone ed è difficile stabilire le parentele). Anche se ci troviamo in città, nel retro della casa c’è una capra. E’ una sola, ma capisco subito che anche stanotte non riuscirò a dormire; ormai ogni sera all’arrivo nel luogo in cui passeremo la notte ci sarà il rituale per “individuare la fonte di disturbo del mio sonno”. Una volta il gallo, una volta l’asino, un’altra volta la capra. Ora ci rido sopra, ma per tutto il viaggio non ho avuto nemmeno una notte di sonno continuato. MAI!!
1/12/2009 giorno quattro La mattina ci svegliamo con delle brutte nuvole e qualche goccia di pioggia; ancora non si è visto il sole africano e un po’ mi dispiace, anche se so che per il momento è meglio così. In questi primi giorni non sono per niente in forma, parto già stanca alla mattina e pedalo più piano rispetto al mio solito. In più il sedere mi fa un male cane e spesso Vass e Katherina devono aspettarmi perché rimango indietro. Probabilmente sono un po’ debilitata, nelle ultime settimane ho viaggiato tanto per lavoro e mi sono stancata parecchio, fisicamente ma soprattutto mentalmente. Mi scoccia però, perché di solito non sono una che si fa aspettare e detesto l’idea di essere il fanalino di coda del gruppo, oltre che la donna inutile Oggi comunque è una giornata piuttosto riposante perché da Tivaoune decidiamo di prendere l’autobus fino a S.Louis. Le nostre bici vengono caricate sul tetto del pullman senza troppi complimenti e noi prendiamo posto al fondo del veicolo, schiacciati tra uomini, donne, bambini e oggetti. Inoltre a ogni fermata l’autobus viene accerchiato da venditori che mostrano sacchettini di frutta e snack vari; Vass non può fare a meno di comprare frittelle e noccioline che sgranocchia come un criceto mentre mi dice “guarda che bello il paesaggio, hai visto come siamo allontanati da tutto, lo immaginavi così?” Sì, lo immaginavo così, ma viverlo di persona va senza dubbio al di là di qualsiasi immaginazione.
Quando arriviamo alla gare routière a S.Louis sono davvero felice di scendere dall’autobus; le nostre bici sono sopravvissute allo sballottamento e non vedono l’ora di riprendere il viaggio. Facciamo un bel giro per la città, attraversiamo il ponte di ferro facendo attenzione a non incastrarci nelle fessure che si sono create tra le travi. Ricordo che Cecilia si fece molto male proprio su questo ponte, vorrei evitare di fare la stessa fine. S.Louis è piuttosto turistica ma vale la pena vederla perché è diversa dalle altre città senegalesi; è molto coloniale e ha il fiume, il mare, l’isola collegata alla terraferma, insomma è una città originale. E’ anche senza dubbio un luogo romantico, ma questo non è un viaggio romantico, meglio non pensarci e pedalare. Di fronte a un vulcanisateur (uno dei luoghi da noi più frequentati) incontriamo tre ragazzi francesi con un tandem e una bici; sono in viaggio da tre mesi e hanno attraversato il deserto su due ruote. Loro sì che sono davvero matti, noi siamo solo un pochino originali, nulla di più. Vass insiste per fermarci a prendere una cioccolata nel bar dell’Hotel de la Poste – altro posto romantico, coloniale, col cameriere in giacca bianca e foto d’epoca alle pareti - prima di riprendere la pedalata verso nord; dice che sarà l’ultimo lusso del nostro viaggio e ancora non mi rendo conto di quanto abbia ragione!
Siamo diretti al parco degli uccelli di Djoudj ma è troppo lontano e dopo aver pedalato tutto il pomeriggio ci fermiamo per la notte nell’ultimo villaggio prima del bivio dove inizia la strada sterrata che conduce al parco. In questo villaggio Vass è già stato nel 2005, così va a cercare le persone che l’avevano ospitato per vedere se si ricordano ancora di lui. Effettivamente non credo capiti tutti i giorni che passino dei Toubab in bicicletta, quindi sì, si ricordavano benissimo sia di lui, sia di Enrico Laila e Cecilia; ma non è tutto, nella boutique del villaggio hanno conservato una foto con Enrico, Laila e un po’ di ragazzini e ce la mostrano con orgoglio. Sono senza parole, che bello. Siamo dunque tra amici, montiamo le nostre tende mentre tutti ci seguono, ci osservano, vogliono parlare con noi. Vass inizia subito le consuete trattative “dove sorge il sole?” per posizionare la tenda e per ottenere l’acqua per la doccia e il pollo per la cena. L’acqua arriva subito (pochissima, il pozzo è lontano) e ci laviamo dietro a un muro con l’asino che ci guarda perché il locale doccia qui non c’è. Per la cena invece bisogna aspettare e quindi partiamo per quello che poi diventerà un rituale ma ancora non lo so: giro del villaggio, visita al capo villaggio, omaggi alla moglie, assaggio del the o di chissà cos’altro, eccetera eccetera.
Nel frattempo mi si appiccica addosso uno dei ragazzi imparentati con Sokna (che ci ospita) e comincia a raccontarmi del suo lavoro – fa l’insegnante a Matam – vuole il mio indirizzo, mi insegna qualche passo di danza senegalese, ci invita a passare da lui a Matam nel caso decidessimo di spingerci fino a lì. E’ simpatico e ci parlo volentieri, così resta a intrattenerci fino a quando è finalmente pronta la nostra cena (due ore per preparare pollo e patate, non ci vediamo più dalla fame). IL DIVORATORE DI POLLI!!! La sorpresa arriva nel momento in cui ci apprestiamo a mangiare. La cena è scarsina, il pollo ha una gamba sola e anche le ali non sembrano essere due, probabilmente ne hanno approfittato per mangiarsi parte della nostra cena mentre la preparavano. Fin qui poco male, il peggio deve ancora venire. Pape (così si chiama l’insegnante di Matam) si accomoda assieme a noi e decide di “insegnarci” come si mangia alla senegalese. Per mangiare con le mani non credo servano grandi insegnamenti, ma il caro ragazzo si lancia con avidità nel nostro cibo e in pochi minuti sbrana più della metà del pollo che era già stato dimezzato durante la cottura Siamo sbigottiti, alla fine mangiamo solo patate e cipolle, ma cosa possiamo dire? Siamo pur sempre accampati in casa sua. Meno male che abbiamo avanzato un po’ di pane e dei datteri, che divoriamo non appena il mangiatore a tradimento si allontana per digerire la nostra cena. Rideremo di questo episodio per il resto del viaggio, stando però ben attenti perché non si ripeta mai più nulla di simile!
2/12/2009 giorno cinque La strada che conduce a Djoudj è di terra battuta - a tratti in sabbia – ma tutto sommato procediamo senza troppa fatica; ci aspettano 30 km per giungere al parco degli uccelli, ma non fa caldo e pedaliamo spediti e spensierati, finalmente liberi dal traffico delle auto. Il paesaggio è decisamente gradevole, piante, arbusti, fiumi e lagune si alternano lasciando già intravedere una numerosa fauna. Ogni tanto incontriamo qualche micro paesello e la prima cosa che accompagna la presenza dell’uomo è la presenza dei rifiuti per strada, come sempre, che peccato. E’ qui che buco per la prima volta, proprio davanti a un villaggio con i bambini che subito accorrono incuriositi. Proviamo a tamponare la situazione con lo spray ma dopo pochi minuti sono di nuovo da capo, dobbiamo cambiare la camera d’aria. Eccoci qua, figuriamoci se sono capace,anche oggi imparerò qualcosa di nuovo! Ancora non so che questa è solo la prima di una lunghissima serie di forature; la mia bici ha vinto il premio di peggior podilato dell’anno, un giorno ho raggiunto il record di 4 forature e ho rischiato il linciaggio.
Quando finalmente arriviamo al parco di Djoudj siamo tutti sporchi di grasso di catena e abbiamo una fame spaventosa. Decidiamo dunque di approfittare del resort turistico (unica fonte di cibo disponibile) per farci una mangiata pantagruelica a base di pesce e recuperare abbastanza energie da poter continuare la nostra perlustrazione (Vass “corrompe” il cameriere con una bella mancia e otteniamo addirittura due pesci a testa invece di uno!!!) Ripartiamo a pancia piena e pedaliamo tra facoceri, pitoni, pellicani e uccelli di ogni tipo. Alla nostra sinistra una distesa di cannette verdi che sembra un mare verde frusciante delimita il confine con la Mauritania. Chissà perché io sto dalla parte più pericolosa? Ogni tanto incrociamo un cartello con scritto “attenzione passaggio coccodrilli”…ci hanno assicurato che di solito escono solo di notte però Vass continua a dirci di non avvicinarci troppo alla sponda della pista. Purtroppo nessun coccodrillo ci degna della sua presenza: peccato perché facevamo finta di aver paura ma tutti avremmo voluto vederne almeno uno.
Questo tratto di strada è forse tra i più duri di tutto il viaggio, una pista dritta e infinita, dove sembra non si debba arrivare mai. Io a un certo punto mi sento così stanca che penso di non poter più continuare; ma è impossibile fermarsi perché non c’è niente di niente, bisogna per forza andare avanti fino al prossimo villaggio che ci hanno detto chiamarsi Debi, quasi come me. A tratti mi fermo e ho la sensazione di avere le allucinazioni, la vista mi si accavalla, ci vedo doppio, sono proprio stanchissima. Quando raggiungiamo Debi sono così contenta di essere arrivata viva che in un primo momento non mi rendo conto dello squallore del luogo. E’ un villaggio costruito in mezzo alla terra, non un albero, non una strada, niente, solo immondizia, capre e bambini che giocano nella polvere. Le case sono cadenti e in rovina, la sporcizia regna ovunque. Mi chiedo dove diavolo metteremo le tende stanotte, mi sento un po’ inquieta al pensiero di dormire tra i ruderi e i rifiuti, senza né muri di cinta né protezione alcuna. Il ragazzo che ci corre incontro per fornirci una sistemazione ci fa strada in una delle case più “eleganti” del villaggio e ci conduce sulla terrazza. Ora capisco, fortunatamente alloggeremo sul tetto della casa in modo da essere più protetti. Montiamo le tende e ci facciamo la doccia nel bagno della casa, che altro non è che uno stanzino con un water. Le case qui non sono finite, costruiscono solo i muri e poi ci abitano senza mettere nè tetto né pavimenti né intonaco né niente. Accampati è un termine già troppo generoso. Deb in Debi
Andiamo a letto presto, stanchi morti e senza cena (il pranzo al resort di Djoudj ci tiene a pasto benissimo); sulla terrazza c’è vento e mi viene il mal di gola, ma cerco di non lamentarmi visto che ho dormito lì una sola notte della mia vita, mentre due ragazzi del villaggio hanno come stanza da letto un materasso proprio su quella terrazza. Ancora una volta, mi accorgo di quanto tutto sia così tremendamente relativo e oggi, mentre scrivo comodamente seduta nel mio accogliente soggiorno, penso che loro sono ancora là, sulla terrazza della casa di Debi, senza tetto e senza riparo per le notti in cui piove. Si svegliano ogni mattina dopo aver dormito per terra e sono felici di essere lì. Dopotutto è già indicativo il saluto senegalese NANGA DEF (come stai?) al quale si usa rispondere con MANGHI FI REK (semplicemente esisto). Chi tra noi si sente mai felice per il semplice fatto di essere vivo? Riflettiamoci, potrebbe valerne la pena.
3/12/2009 giorno sei La partenza da Debi è faticosa, ho le ossa rotte, mi fa male la gola e mi sento piuttosto debole; eppure la giornata che ci aspetta è la più pesante di tutte, 80 km di strada sterrata saltellante e polverosa con sporadici villaggi lungo il percorso in cui fermarsi a bere. Entro sera dobbiamo assolutamente raggiungere Rosso Senegal, la città di frontiera con la Mauritania; la vediamo all’orizzonte ma le ore passano e sembra sempre lontanissima. Mentre pedalo mi rendo conto che questo ritmo è un po’ troppo serrato per i miei gusti, in effetti avevo immaginato una tabella di marcia un pochino più rilassata con qualche sosta qua e là per visitare i luoghi. Invece la giornata passa pedalando forsennatamente da un punto all’altro con soste veloci solo in caso di sete, pipì o gomma a terra (quasi sempre la mia) per poi la sera crollare addormentati alle 20.30 dopo una rapida cena. Sono un po’ delusa e preoccupata, non credo di poter reggere per altri 12 giorni così. Invece poi il ritmo rallenterà per fortuna; il tratto Djoudj – Rosso è stato così duro perché nel mezzo non esistono posti in cui fermarsi, solo poche tappe obbligate da raggiungere a tutti i costi. Di questo tratto di pista non ricordo molto, a parte la stanchezza. Pedalo zitta cercando di risparmiare le energie; non ho voglia di parlare e ho molto tempo per pensare, forse troppo…avere 7 ore al giorno per rimuginare sulla propria vita può essere un utile esame introspettivo, ma alla fine risulta logorante. All’arrivo a Rosso sembriamo dei reduci di guerra, sbraniamo un’anguria per cercare di reidratarci e poi ci dirigiamo in cerca di una dibiterie dove mangiare della carne. Abbiamo decisamente bisogno di qualcosa di sostanzioso e l’agnello alla griglia servito in un cartoccio accomodati per terra in mezzo alle mosche ci sembra il migliore di tutta la vita.
Una volta rifocillati riprendiamo la marcia; sono ormai le 17.30 passate e io vorrei dormire a Rosso, ma Vass dice che è troppo caotica e sarebbe pericoloso, meglio optare per un piccolo villaggio. Ha sicuramente ragione ma a breve sarà buio e cercare ospitalità di notte non mi piace molto. Pochi minuti dopo ci imbattiamo in una jeep con a bordo 4 ragazzi bianchi e due cani, la loro targa è spagnola. Se fossimo in Italia questi 4 ragazzotti sfattoni con la canna in mano non li avremmo forse nemmeno notati, invece dopo 6 giorni senza vedere nemmeno una faccia bianca qualsiasi toubab diventa un amicone prima ancora di salutarlo. Iniziamo a urlare “Holà, que tal…bla bla” e loro saltano giù al volo dalla jeep chiedendoci consigli su cosa visitare in Senegal visto che arrivano dal deserto della Mauritania e hanno appena varcato il confine. Diamo loro un po’ di dritte - incluso il contatto per dormire sulla “terrazza panoramica” a Debi - e poi Vass comincia a raccontare che anch’io sono un po’ spagnola d’adozione; spiego che mio papà si è da poco trasferito a Minorca e TA-DAAA guarda caso loro quattro sono proprio di Minorca! Ci scambiamo i numeri, a Natale andrò a trovare mio padre e magari ci berremo una birra raccontandoci come sono andati i reciproci viaggi. Piccolo il mondo, piccolissimo…però così abbiamo perso una preziosissima mezzora di luce e ora il tempo rimasto per trovare un riparo per la notte è proprio poco. Chiediamo informazioni a un poliziotto: siamo diretti verso il Lac de Guiers e il primo villaggio che dovremmo incontrare in quella direzione si chiama Pah, o qualcosa di simile. Seguiamo le indicazioni dateci e ci addentriamo in una stradina sterrata che costeggia un fiume; il cielo è ormai viola, brutto segno, fra poco sarà buio pesto e siamo circondati dalle zanzare.
A questo punto del viaggio ho l’impressione di aver già visto di tutto, invece imparo che ogni giorno troviamo sul piatto delle esperienze qualcosa di nuovo, qualcosa di inaspettato e a volte quel qualcosa che all’inizio ci sembrava orribile, in un secondo momento si rivela essere un’esperienza positiva. Per farla breve, siamo finiti in una piantagione di riso e del villaggio di nome Pah nemmeno l’ombra. Chiediamo informazioni a dei braccianti che sostano lungo il fiume, a quanto pare dobbiamo percorrere ancora un paio di chilometri ma con il buio non sembra davvero fattibile. I braccianti vivono in un rudere a pochi metri dal fiume, quattro mura diroccate senza tetto all’interno delle quali vi è solo una stuoia, un braciere e qualche coperta. Eppure abitano lì con la famiglia, donne e bambini, è la loro casa. Ci fanno parlare con il responsabile della risaia - una specie di “capo contadino” di nome Assane – per vedere cosa possiamo fare. In effetti però c’è proprio ben poco da fare, l’unica opzione plausibile è dormire lì con loro tra le rovine. Ormai siamo abituati alla tenda, alla poca pulizia, alla mancanza di confort, eppure la prima cosa che penso mentre mi accingo a scaricare la bici è “non è possibile, non mi sta succedendo davvero”. E invece sì, sta proprio succedendo, anzi, stasera non faremo nemmeno la doccia perché le zanzare ci assalirebbero e vicino ai corsi d’acqua il rischio di malaria è ancora più elevato.
Così montiamo le tende sporchi e un po’ puzzolenti e ci uniamo ai nostri ospiti per le chiacchiere serali. Ci offrono anche parte della loro cena e l’immancabile the, è decisamente una serata speciale non solo per le condizioni estreme; Assane è infatti una persona di cultura e parliamo di molte cose. Il bello di non avere nulla è che si passa il tempo insieme agli altri parlando e condividendo la vita, invece di rimbecillirsi - in un’inconsapevole solitudine - davanti alla televisione o a internet. Non so come, ma finiamo per parlare del matrimonio (e del divorzio). Per Assane il fatto che alla mia età io non sia sposata è una vera tragedia. Cerco di spiegargli che per noi non è proprio la stessa cosa, ma la verità è che questo argomento brucia su una ferita sempre aperta e non ho molta voglia di stare a raccontargli perché non mi sono ancora sposata e probabilmente mai lo farò. Per lui è tutto molto più elementare, sposi il primo che chiede la tua mano e cominci a fare figli. Sembra non prendere nemmeno in considerazione il fatto che la persona giusta non la si trovi così facilmente e che un rapporto dovrebbe basarsi sul rispetto e sulla fiducia invece che sull’esigenza di sfornare figli finché si è giovani. Katherina mi bisbiglia all’orecchio “do not get angry, it’s their culture, it is completely different, they can’t understand”. Ma io sto pensando alla nostra di cultura, alla mancanza di rispetto alla quale non voglio abituarmi, alla fiducia che ho perso e all’amore che nonostante tutto mi ostino a tenere vivo dentro di me. Decido di andarmene a dormire prima che mi venga il muso lungo davanti a tutti; un po’ di autocommiserazione a volte me la concedo. Pourquoi tu n’es pas mariée? Al diavolo. Questa sera sono così stanca che mi sembra quasi di avere la febbre. Inoltre non riesco più a usare le mani, dopo 7 ore di sobbalzi e buche le dita hanno perso la forza e faccio fatica a allentare i cordoncini delle sacche della bici. Non mi è mai successo nulla di simile, appena poggio la testa sul materassino sprofondo in un sonno senza sogni e non sento nemmeno Vass e Katherina che si svegliano per chiudere le cerniere della tenda che sbattono al vento. Non c’è niente di più bello che dormire quando si è stanchi, così come non c’è niente di più buono dell’acqua quando si ha sete. ….potremmo quasi scrivere uno di quei libriccini “Lo Zen e la sopravvivenza in bicicletta”.
4/12/2009 giorno sette Il risveglio nelle rovine è decisamente “caratteristico”, senza acqua e senza bagno, ma i nostri ospiti ci preparano addirittura il caffè con i biscotti e noi lasciamo un po’ di mancia e qualche pacchetto di Biscrem che per loro è merce rara. I contadini sono già al lavoro, stanno urlando come dei matti per cacciare gli uccelli che danneggiano la piantagione: in pratica sono degli spaventapasseri viventi! Ripartiamo di buon’ora lungo il fiume; ora alla luce del giorno il paesaggio è proprio bello, il fiume è pieno zeppo di ninfee enormi, le risaie sono verdi e il cielo ha un colore indefinito con il sole che cerca di fare capolino tra le nubi. Oggi pedaleremo per 7 ore sempre sullo sterrato facendo pochissime soste solo per gonfiare le gomme e per mangiare un’anguria, unico frutto reperibile in questa zona. Verso le 11 spunta finalmente il sole, è la prima volta da quando siamo arrivati. La temperatura sale improvvisamente e la pelle inizia a bruciare. Katherina soffre il caldo, probabilmente ha anche un lieve colpo di sole. Vass inizia la sua crociata anti sole cercando di convincerci a mettere una maglia con le maniche lunghe, ma io testarda come un mulo terrò la canottiera scollata per tutto il tempo. Se fino a oggi qualche volta mi sono fatta aspettare, da quando è uscito il sole sono risorta a nuova vita…l’energia mi è tornata tutta in una volta e pedalo spedita a mezzogiorno sotto un sole che spezzerebbe le gambe a chiunque. Finalmente un po’ di rivincita.
Il paesaggio dopo un po’ cambia e ci troviamo davanti a orizzonti sconfinati a 360 gradi con dei colori completamente diversi. La terra è rossa ma attorno a noi regna la savana, con una sterpaglia quasi bianca che sembrerebbe preannunciare l’arrivo di un branco di leoni da un momento all’altro. Siamo letteralmente affascinati e continuiamo a ripetere “this is real Africa, isn’t it?” Quando raggiungiamo il primo paese vicino a Keur Momar Sarr sono già quasi le 17, ci troviamo proprio vicini al Lac de Guiers e cominciamo a consultarci sul dove pernottare. Prima di decidere però ci fermiamo in un “ristorantino” dove divoriamo carne e omelette per poi dirigerci dal vulcanisateur a riparare i soliti danni (oggi anche la bici di Vass ha dato forfait). Finisce così che prendiamo due piccioni con una fava e il ciclista si rivelerà essere anche il nostro appoggio per la notte.
La sistemazione presso la famiglia del ciclista ci si presenta come lussuosissima (ovviamente occorre il benestare del capofamiglia, che acconsente in wolof!). Hanno una casa con un giardinetto delimitato da un muro, quindi c’è molta privacy e non siamo assaliti dai bambini. Inoltre ci sono sia il bagno che la doccia, entrambi con la luce! E’ incredibile, io e Katherina ci guardiamo raggianti, quasi quasi saltelliamo dalla gioia nemmeno fossimo arrivate allo Sheraton di New York. Tre secchi d’acqua, un po’ di luce e un fazzoletto di terra dove mettere la tenda sono ormai tutto ciò di cui abbiamo bisogno, anzi è già fin troppo perché abbiamo scoperto di sapercela cavare benissimo con molto meno. La famiglia che ci ospita è di una gentilezza e generosità quasi imbarazzanti. Ci ripetono più volte di non esitare a chiedere perché quello che è loro è anche nostro e saranno felici di condividerlo. Sono letteralmente ammutolita, non so come fare a ringraziare. Credo non si rendano conto che per noi questo comportamento non è normale, per loro è scontato che lo straniero vada accolto e nutrito; già, perché ovviamente ci invitano a unirci a loro per la cena anche se noi in effetti abbiamo già mangiato. Continuo a chiedermi che faccia farebbe mia mamma se un bel giorno le suonassero il citofono tre ciclisti sporchi e sudati (magari africani) e le chiedessero di poter mettere la tenda in giardino. Credo che rimarrebbe senza parole, soprattutto se i tre viandanti chiedessero anche dei secchi d’acqua per lavarsi e le domandassero di cucinar loro qualcosa per la cena. In Europa guarderemmo gli sconosciuti con sospetto, avremmo paura di un furto, di un’aggressione, saremmo sicuramente in difficoltà a aprir loro la nostra porta senza riserve. E invece qui non solo ti aprono la porta, ma ti intrattengono amichevolmente con chiacchiere e discorsi accompagnati da un buon the e qualche cosa da metter sotto i denti. Dopo la bella giornata di sole, per la prima volta si vedono le stelle. Vass ne approfitta subito per illustrarci le costellazioni, uno dei ragazzini della famiglia è decisamente interessato e ripete diligentemente i nomi di stelle e galassie. Dopo la lezione di astronomia crolliamo a letto piuttosto presto, prima di addormentarmi voglio però scrivere le tappe che abbiamo percorso perché so che poi una volta rientrata farò fatica a ricordarle. Sembra incredibile ma scrivere mi è quasi impossibile perché dopo tutte le buche e i sobbalzi della giornata le mani mi tremano e non riesco a tenere la penna con fermezza. Benedico questo genere di stanchezza che nulla ha a che vedere con la stanchezza mentale che mi coglie nelle serate torinesi dopo 9 ore davanti al computer. Buonanotte Africa, a domani.
The Ruins! Ndiol
5/12/2009 giorno otto Dopo un tentativo fallito nella farmacia del villaggio (Katherina si è svegliata con una specie di allergia alle gambe e vorrebbe una pomata ma il medico non c’è e il farmacista non sembra molto competente), riprendiamo la marcia alle 10.15 con una temperatura che si aggira sicuramente attorno ai 40 gradi. Oggi pedaleremo “solo” 5 ore, visto che perdiamo un po’ di tempo per cambiare – neanche a dirlo – la mia camera d’aria dopo un incontro ravvicinato con le spine delle acacie. Togliere la ruota è ormai diventata una consuetudine, quello che ancora non riusciamo a fare molto agilmente è sistemare il cambio con la catena al posto giusto e ogni volta finiamo per riempirci di grasso fino alle orecchie. Ma siamo solo all’ottavo giorno, entro la fine del viaggio sarò diventata un mago dello “smonta e rimonta” la bici in tutte le sue parti. Quando arriviamo a Louga sembriamo davvero scappati di casa: sudati, sporchi, rossi paonazzi per il sole che non ci ha risparmiati un solo istante. Ci precipitiamo nella prima boutique e beviamo tre litri d’acqua in un fiato. La popolazione locale ci fa festa come sempre e vuole fare foto con noi anche se oggi mi sento davvero poco fotogenica.
Estinta la sete ci rendiamo conto di avere anche fame, tanta fame. Sono le 16, ma qui ha poca importanza il concetto di pranzo o di cena. Quando hai fame significa che stai pedalando da tanto senza mangiare niente e se c’è del cibo a disposizione è bene mangiarlo qualsiasi ora sia (il solito concetto de “LO ZEN & PEDALARE SEMPRE!”) Detto e fatto: io curo le bici e Katherina e Vass entrano nel primo “ristorante”(*) che troviamo per vedere cosa c’è da mangiare; siamo stufi di pane e carne, vorremmo qualcosa di diverso. Dopo pochi minuti Vass esce con una mano sporca di sugo quasi fino al gomito (sembra insanguinata, una scena unica) e mi dice allungando la mano verso il mio naso: “da mangiare c’è riso con questa salsa di pesce piccante, è buona vuoi assaggiare?” NO NO Mi FIDO! Entriamo e ne sbraniamo tre piattoni enormi in men che non si dica! (*) metto le virgolette, perché il lettore europeo ha un’idea molto diversa di ciò che si nasconde dietro alle parole. Arrivando in Africa occorre stare attenti a ciò che si intende per “strada”, “acqua” o “casa”: ciò che noi normalmente associamo ad asfalto, rubinetto o mattoni, qui viene invece associato a buchi su terra rossa, secchio sulla testa e muri in paglia. Va da sé che anche “ristorante” non corrisponda affatto ai locali segnalati sul Gambero Rosso! Concetto africano di: AUTOBUS LAVANDERIA CUCINA NEGOZIO
Adesso non ci resta che procurarci delle nuove camere d’aria per me e un nuovo copertone per Vass. Katherina non ha mai problemi alla bici e credo ci maledica in cuor suo per tutto il tempo che le facciamo perdere tra forature, vulcanisateur e riparazioni varie. Ancora una volta però le cose vanno proprio all’africana e la estenuante ricerca della camera d’aria da un negozio all’altro ci porta fino a casa di un meccanico ciclista che non solo ci venderà il prodotto riparandoci il velocipide, ma ci offrirà anche ospitalità per la notte e ci farà accompagare in centro per assistere all’avvenimento di questa sera: la lotta senegalese con frappe (senza esclusione di colpi!). Siamo stati davvero fortunati, oggi addirittura tre piccioni con una fava. Quello di stasera deve essere proprio un grande evento, con tamburi e percussioni dal vivo che suoneranno per tutta la notte (tanto per non dormire mai indisturbati, nrd). Noi arriviamo all’arena che c’è ancora il sole e usciremo alle 21 un po’ storditi: lo spettacolo è senza dubbio caratteristico, ma i loro tempi sono come sempre molto lunghi e i tamburi dopo un po’ diventano quasi ipnotici.
Sulle tribune le donne sono tutte elegantemente vestite per l’occasione, credo che per loro questo evento sia paragonabile a una prima di teatro per noi. Devo dire che la lotta in sé non ci dice nemmeno più di tanto, è tutto il contesto a essere decisamente folcloristico. Di ritorno dall’arena ci perdiamo (il nostro accompagnatore si rifiuta di tornare con noi, non vuole perdersi il suo lottatore favorito, quando mai gli ricapiterà di poter entrare gratis all’esclusivo spettacolo?) e non riusciamo più a orientarci. All’andata con la luce la strada sembrava semplice, ma ora che è buio tutte le vie sembrano uguali. Cominciamo a chiedere informazioni a destra e a manca e per qualche istante ci prende anche un pochino di panico; una guardia seduta fuori da una banca ci indica di procedere per una stradina buia mentre altri tre individui ci seguono a distanza. Probabilmente era davvero la strada giusta, ma abbiamo preferito non fidarci…. (da notare che per “aiutare” noi, la guardia abbandona addirittura la sua postazione di lavoro!) Dopo un po’ di giri riusciamo finalmente a ritrovare la casa del ciclista, ci laviamo velocemente e ci mettiamo a dormire tra decine di biciclette e galline. Stasera c’è anche un gradevole odorino di fogna che avvolge le nostre tende, ma siamo troppo stanchi per pensare che sia davvero fastidioso. La musica e i tamburi provenienti dall’arena sono fortissimi e mi è impossibile prendere sonno…credo piuttosto di scivolare in uno stato comatoso animato da sogni strani e impossibili da raccontare a parole.
6/12/2009 giorno nove Appena svegli troviamo la colazione già servita e le donne della famiglia pronte a salutarci sfoderando sorrisi a denti bianchi. Ormai abbiamo fatto l’abitudine ai vari rituali “Bonjour, ça va? ça va bien? Vous avez bien dormi? Salamaleku, maleku salam, nanga def, manghi fi rek” E avanti così fino alla sera, sono propri gentili su questo non c’è dubbio alcuno. Io invece sono una bestiaccia selvatica e devo ammettere che tutti questi salamelecchi (nel vero senso della parola) cominciano un po’ a stancarmi. Alla sera non ce la faccio proprio più fisicamente a salutare tutti i passanti, tutti i carretti trainati da asini che ci superano, tutti i bambini che urlano TOUBAAAB. Vorrei avere una macchinetta automatica che conta i “bonjour” che dico ogni giorno, secondo me sono più di cento. Ma qui si fa così e te ne devi fare una ragione. Non esiste il concetto di “richiesta diretta”, non puoi fermarti da un passante e chiedergli a bruciapelo “scusi da che parte si va per Darou Mousty?” perché come minimo ti risponderebbe “Bonjour pour commencer, et puis on ne se connait pas!” Insomma, prima di chiedere un bicchier d’acqua devi chiedere come va, come sta la famiglia e preferibilmente anche come vanno gli affari. Per noi è allucinante mentre per loro che hanno più tempo che vita è la cosa più normale del mondo; credo che come sempre il giusto stia nel mezzo, ma io che il mezzo raramente lo posseggo dovrei forse imparare anche a accettare gli estremi opposti ai miei. Dopo la colazione partiamo alla ricerca di una nuova farmacia perché anche oggi Katherina ha l’orticaria e comincia a essere preoccupata. Mai avrei immaginato che una cittadina così piccola avesse 4 farmacie, tutte chiuse tranne una, la più lontana ovviamente. Dopo lunghe ricerche troviamo un antistaminico, Kathe non sembra convinta ma alla fine ingoia la pillola e ripartiamo.
Oggi si pedala poco e male. C’è un sole caldissimo e come se non bastasse la mia bici ha la gomma posteriore sempre a terra. Siamo disperati, non ne possiamo più di sostituire e rattoppare camere d’aria. In questa giornata raggiungiamo il record di 4 forature mie e una di Vass, la situazione è esasperante. Alla mia terza foratura Vass se ne esce con un bel “This is not a cycling tour, it’s a repair tour!” ed è inutile dire che mi sento decisamente in colpa per avere una bici-malaka. Forse dovremmo sostituire i miei copertoni che sono troppo sottili ma qui in mezzo al nulla è impossibile trovarli, dobbiamo sperare in bene e proseguire così. Io ormai procedo terrorizzata, fissando l’asfalto nel tentativo di visualizzare ogni minima dannatissima spina che possa trafiggere le mie delicate ruote...che vita dura. Neanche a dirlo, con un ritmo del genere la nostra tabella di marcia va letteralmente a farsi friggere e il buio ci coglie molto prima di Darou Mousty - dove avremmo dovuto dormire a casa di alcuni libanesi amici di Vass. Optiamo dunque per una sistemazione d’emergenza in un villaggio vicino a Ndiagne senza corrente elettrica, composto da poche capanne e abitato da persone molto semplici. Arriviamo col buio e sono un po’ insospettiti: ci chiedono addirittura di mostrare un documento! Per fortuna siamo due ragazze e un uomo, non sembriamo proprio così pericolosi. Qui quasi nessuno parla francese: ci accoglie il capopaese, alto, magro, maestoso e di poche parole (in ogni caso non le avremmo capite, nemmeno se fossero state tante). La doccia la facciamo dietro al recinto per i cavalli e il gabinetto non esiste (ma ormai nulla mi spaventa più!!). Chiediamo comunque che ci cucinino un pollo col riso visto che non abbiamo ancora mangiato quasi nulla e dopo aver sbrigato le nostre solite faccende –monta la tenda, fatti la doccia, spruzza l’autan, gonfia il materassino – ci sdraiamo sotto le stelle a attendere che la cena sia pronta. Guardiamo il cielo e parliamo tra di noi: ci rendiamo conto con sgomento che è la prima volta da quando siamo partiti che abbiamo un po’ di tempo per stare da soli, senza dover discorrere con i nostri ospiti, senza intrattenere i bambini, niente, noi tre e basta. Che pace, che armonia, che bel momento. Vicino di capanna che russa Nostra tenda Solo mezzo metro!!!
E che fame però, la cena non arriva e cominciamo a divorare le ultime scorte di arachidi e biscotti…poi decidiamo di spedire Vass in perlustrazione per cercare di sveltire la procedura. Niente da fare, hanno impiegato dalle 18.30 alle 22.00 per cucinare un pollo col cous-cous! Per fortuna la porzione è abbondante e il sapore molto buono; ci lanciamo nel piatto come delle belve e spazziamo tutto in cinque minuti. Il fatto di mangiare con le mani ci rende ancora più primitivi, ogni tanto ci guardiamo in faccia e scoppiamo a ridere. Katherina è bravissima, usa la mano come un cucchiaio e mangia senza sporcarsi, mentre io mi ritrovo con chicchi di cous-cous ovunque. Vass non sto nemmeno a descriverlo, basti sapere che a fine pasto ha sempre macchie di unto dappertutto e un aspetto veramente buffo. Però siamo soddisfatti, ce ne andiamo a nanna con la pancia piena e con la speranza di riuscire a dormire -anche se già sento il nostro “vicino di capanna” che russa a tutto volume e temo non sarà poi così semplice nemmeno stasera.
7/12/2009 giorno dieci In mattinata raggiungiamo Darou Mousty e passiamo a salutare gli amici libanesi dai quali avremmo dovuto dormire. Ci rifocilliamo un po’ a casa loro ma rifiutiamo l’invito a pranzo per non perdere troppe ore, già siamo in ritardo. Vass avrebbe voluto restare (proprio lui che di solito ci fa fretta – PAME! PAME! - davanti a un bel piattone di pollo è subito pronto a rivedere il programma della giornata) ma Katherina e io questa volta siamo inflessibili, si va via senza pranzo! Comunque, i libanesi si rivelano accoglienti tanto quanto i senegalesi…la TERANGA è proprio contagiosa! Pedaliamo non senza difficoltà: oggi è Vass a bucare e cambiare la ruota alla vecchia bici da corsa senegalese è assai più complicato che cambiare la mia.Inoltre, quando raggiungiamo Thilmakha per cenare ci rendiamo conto che dalla sacca di Vass è misteriosamente sparita (l’ha persa, ma a lui piace pensare che ce l’hanno rubata) la preziosissima cartina del Senegal che da ben 10 giorni ci guida nella landa deserta. PANICO. E adesso? Trovare una libreria per comprarne una nuova in questa mini cittadina è fuori discussione; Katherina ha però fatto proprio qualche giorno fa una foto alla parte di cartina che stiamo percorrendo (WOW!), così riusciamo a cavarcela un po’ a spanne anche con l’aiuto delle indicazioni - spesso contrastanti - dateci dai locali. Mangiamo due piattoni di carne di agnello alla griglia e decidiamo come muoverci. La strada che pensavamo di prendere in direzione Baba Garage è inagibile, ci dicono essere tutta in sabbia. Optiamo per una deviazione che dovrebbe portarci a un villaggio (Ndiné) dove Vass si è fermato l’anno scorso passando in direzione opposta. Speriamo bene, speriamo di non bucare più, speriamo, insciallah.
Il villaggio che cerchiamo non è lontano e per fortuna Vass ha una buona memoria e lo riconosce facilmente. Comincia a guardarsi intorno per cercare di ritrovare la casa presso la quale aveva alloggiato l’anno scorso ed è proprio in questo istante che accade l’incredibile. Da un muricciolo lungo la strada si alza un ragazzo che urla “VASSILIS!!!” Non ci posso credere, davvero non credo ai miei occhi e alle mie orecchie: l’ha visto e l’ha riconosciuto, è lui, un membro della famiglia dove ha dormito un anno fa. Baci abbracci, carramba che sorpresa, ovviamente tutti a casa sua anche quest’anno. Qui siamo veramente tra amici, si ricordano perfettamente di Vass perché è passato solo un anno, la gente accorre per salutarci e per farci visitare l’intera comunità: insegnante, capo villaggio (che parla italiano!), studenti, amici, parenti e chi più ne ha più ne metta. La sistemazione oltretutto è ottima, luce, ACQUA CORRENTE (una vera rarità, possiamo riempirci il secchio da sole senza dover chiedere “est-ce que je peux avoir encore de l’eau?”), bagno, stendibiancheria, tutto!! Siamo circondati da ragazzi che ci raccontano cosa studiano e ci invitano il giorno seguente a far visita alla loro scuola. Vass tiene una lezione di astronomia all’insegnante del villaggio, poi torniamo a casa e mangiamo del cous-cous che ci viene offerto senza nemmeno chiederlo. Stasera siamo proprio trattati da re. Ci sentiamo molto stanchi ma la compagnia è così piacevole che ci spiace andare a dormire. Katherina è la prima a crollare, io e Vass rimaniamo ancora un po’ per bere l’ultimo bicchierino di the con le arachidi e poi la seguiamo. Il giorno dopo siamo “prenotati” per visitare la cisterna per la raccolta dell’acqua e la scuola. Buonanotte, à demain!
8/12/2009 giorno undici Durante la notte ci svegliamo, chissà perché, sono quasi le due e si sentono i versi degli animali in lontananza. Parliamo per qualche minuto senza svegliarci nemmeno del tutto “allora sei soddisfatta del viaggio? Ti senti un po’ a casa o ti manca Cadrezzate?” “Mh, mi sembra di aver sempre vissuto in una tenda, però a Cadrezzate almeno gli asini non mi ragliano sotto al letto” Risata, e dopo pochi istanti dormiamo già di nuovo. La notte ha qualcosa di magico, a volte quando vado a letto vorrei che durasse molto ma molto di più; mi piace svegliarmi nel buio e sapere che posso stare lì nel letto a pensare per poi dormire di nuovo, fantasticare un po’ in attesa di addormentarmi e sognare davvero. La mattina come promesso facciamo la visita alla pompa/cisterna per la raccolta dell’acqua, che garantisce acqua potabile a ben 28 villaggi. Il custode della centrale è molto orgoglioso di mostrarcela, il suo deve essere un lavoro di prestigio anche se in effetti passa la giornata a guardare un macchinario che fa tutto da solo (finanziato da un progetto dell’Unione Europea). Proseguiamo con le nostre visite e ci dirigiamo verso la scuola dove incontriamo i bambini di tutte le classi. In ogni classe ci presentiamo all’insegnante e poi Vass tiene un discorsetto agli scolari, a alcuni fa persino una specie di breve lezione. Katherina e io lo guardiamo sbigottite, sembra che non abbia fatto altro per tutta la vita, parla di questo e di quello con una naturalezza che non posso fare a meno di invidiare. Poi in una delle ultime classi il maestro chiede anche a noi ragazze di dire qualcosa. Katherina se la svigna perché non sa il francese, io sono obbligata a sforzarmi e cerco di dire quattro frasi, per fortuna che l’aula è buia e probabilmente non vedono che sono tutta rossa in faccia per l’imbarazzo. Infine, l’insegnante di religione rifiuta di darmi la mano mentre la prof. di scienze naturali rifiuta di darla a Vass (sempre la mano). E’ proprio difficile essere pronti e preparati a tutte le differenze culturali.
Finite le visite torniamo al villaggio in bus, così proviamo l’ebbrezza di un viaggio sul tetto dell’autobus (altro che cinture di sicurezza!) Riprendiamo a pedalare a gran velocità, oggi siamo in forma e teniamo i 20 km all’ora senza problemi. Arriviamo a Makhé più presto del previsto, ci rifocilliamo con due piattoni di carne alla griglia e delle arance (che costeranno a Vass un bel taglio sul dito per sbucciarle, ancora adesso non gli è guarito). Da qui dobbiamo arrivare a Thies, ma il tratto di strada è molto trafficato e decidiamo di prendere un autobus sia per guadagnare tempo, sia per evitare il rischio di essere travolti dalle auto. All’arrivo a Thies non ci par vero di essere nuovamente in una vera città. Quando ci siamo passati nei primi giorni ci era apparsa molto diversa (infatti era un’altra –Tivaoune - ma all’inizio sembra tutto uguale!), ora reduci da ogni genere di esperienza questa cittadina sembra offrirci davvero di tutto: compriamo una nuova cartina in una libreria e ci fermiamo a prendere dei dolci in una pasticceria! E’ incredibile, siamo seduti a un tavolino in un locale elegante dove esiste addirittura una toilette con la carta igienica. Bisogna provare per credere, dopo aver vissuto con niente basta poco per sentirsi davvero fortunati. NDiné
La tappa nel lusso dura comunque poco perché la notte ci riserva una nuova avventura: Vass vorrebbe arrivare a Sinndia, ma è decisamente troppo lontano e il tramonto ci coglie nei pressi di Kissane. Questa notte dormiremo assieme a una famiglia che vive in mezzo al niente, solo 4 capanne col tetto in paglia e decine di capre. Non hanno davvero nulla, nemmeno il bagno, ci facciamo la doccia velocemente perché tira un vento gelido che non avremmo mai sospettato di trovare e sistemiamo le tende di fianco alle loro capanne. Sembra assurdo che ci siano persone che vivono così, a pochissima distanza dalla città il contrasto è ancora più forte. La serata scorre piacevolmente parlando con i membri della famiglia. L’ospitalità di queste persone continua a stupirmi giorno dopo giorno; ci offrono anche parte della loro cena, cous-cous con latte, uno dei pasti più spartani che abbiamo visto da quando siamo partiti. Noi assaggiamo il cibo per educazione ma poi diciamo di non aver fame (in effetti abbiamo mangiucchiato a Thies) perché ci rendiamo conto che loro sono in tanti e il cibo è decisamente poco. E’ proprio vero che chi è più povero è più incline a condividere ciò che ha rispetto a chi è ricco. Dovremmo prendere esempio, noi che facciamo fatica a rinunciare a qualsiasi cosa viziati come siamo nella nostra esagerata abbondanza; se penso che a volte al supermercato davanti allo scaffale dei cereali non riesco a scegliere per le troppe alternative, mi vergogno tremendamente. I bambini ci mostrano i loro quaderni di scuola alla luce della torcia e anche qui mi soffermo a pensare a come sia diversa la vita per loro che devono fare i compiti prima che faccia buio, perché poi l’unica cosa che si può fare è parlare o dormire. Niente televisione, niente giornale, niente paese, niente locali, niente di niente di niente. Però hanno il cellulare, ne sono sconvolta, questo oggetto tecnologico stride tantissimo con il resto del contesto e soprattutto mi chiedo dove vadano a ricaricarne la batteria visto che non hanno la corrente elettrica. Ma è solo un mistero in più.
9/12/2009 giorno dodici La notte la passiamo completamente insonne, è impossibile dormire con la tenda adiacente a un recinto stipato di capre urlanti. Mi chiedo due cose. Primo perché le capre belino tutta la notte, dovranno pur dormire anche loro ogni tanto no? E secondo come facciano a dormire i membri della famiglia, ma probabilmente si sono abituati e le capre non le sentono nemmeno più. Dopotutto mia nonna dormiva al quarto piano a Milano in viale Certosa proprio sulla sopraelevata dove il rumore delle auto è assordante…che saranno mai un po’ di innocenti caprette? Comunque mi alzo di pessimo umore e mi avvio per i campi in cerca di un cespuglio dietro al quale appostarmi nel tentativo di espletare alcune funzioni che da parecchi giorni risultano difficoltose. La cosa peggiore in questo genere di operazioni non è l’assenza di bagno, bensì l’idea di essere allo scoperto con qualcuno che potrebbe vederti. Ma qui mi sento abbastanza sicura, ci sono solo le 4 capanne dove abbiamo dormito, chi potrebbe mai passare? Mi acquatto dietro a un arbusto, ci sono due asini poco distanti ma loro non mi imbarazzano, e inizio a concentrarmi sul da farsi. Ci credereste mai? Tempo zero sento starnazzare in lontananza (ma nemmeno poi così lontano), mi giro e vedo due donne con vestiti colorati e panieri in testa che arrivano a gran velocità chiacchierando animatamente, spuntate dal nulla e dirette Dio solo sa dove. Ok, oggi non è giornata. Mi rialzo e rinuncio al mio proposito, ancora più insofferente di prima.
Inizio a pedalare in totale mutismo, oggi ho la luna storta e non solo per le capre. Tengo un bel ritmo sostenuto, di solito lo sforzo fisico aiuta a far passare più in fretta i brutti pensieri nei giorni in cui non riesco a lasciarli fuori da me. Pedalo pedalo, Katherina e Vass sono indietro, arriviamo a Sinndia in tempo record attraverso pianure con baobab giganti che sfiorano la vista e facciamo finalmente colazione; io prendo solo un caffè Touba ma per gli affamati la scelta è davvero originale: oggi il baracchino di turno offre panino con i fagioli e panino con gli spaghetti. Incredibile vero? Io da brava italiana non avrei mai pensato di poter farcire un panino con i fagioli né tantomeno con degli spaghetti, ma a quanto pare tanto cattivi non devono essere perché Vass se ne mangia uno sia di un tipo che dell’altro. A questo punto non ci resta che il tratto finale e poi raggiungeremo finalmente il mare. Il pensiero di arrivare all’oceano e fare un bel bagno mi aiuta a ritrovare il buonumore. Dopo poche ore arriviamo a Popenguine, un villaggio cristiano con una bella chiesetta proprio sul mare. Si vede subito che il posto è turistico, ci sono parecchi alberghetti, campeggi e negozi, ma siamo così contenti di vedere il mare in una bella giornata di sole che non ci facciamo nemmeno caso. Ci fermiamo in un resort proprio sulla spiaggia davvero carino e dotato di tutti i confort pur conservando lo stile africano. L’idea è quella di passare qui la notte concedendoci almeno un giorno nel lusso, ma i prezzi sono più alti del previsto e preferiamo tener fede alle nostre economiche tende. Io però mi impunto per fare comunque una sosta per il bagno. E’ dalla mattina che aspetto di lanciarmi tra le onde e ora non sono disposta a rinunciare, la mia giornata è iniziata male e vorrei che non finisse peggio. Parcheggiamo le bici contro un muretto e ci buttiamo finalmente in mare. Che acqua fresca, che bello, che sogno, in fondo basta così poco per farmi contenta…
Quando ripartiamo siamo rigenerati e spensierati anche se il sale del mare ci brucia un po’ sulla pelle arrossata. In questa regione ci sono centinaia di farfalle, non ho mai visto una cosa del genere, sono così tante che sembrano batuffoli di cotone trascinati dal vento, un po’ come i soffioni in primavera, un turbinio bianco impazzito. Fine dell’idillio, dopo non molti chilometri la mia bici ha di nuovo una gomma a terra e questa volta la situazione è proprio grave perché è addirittura il copertone a essersi bucato. Per fortuna siamo vicinissimi a un vulcanisateur e corriamo immediatamente ai ripari. Mentre aspettiamo Vass va dal sarto a farsi ricucire una sacca della bici e io busso a una casa chiedendo se possiamo avere un po’ d’acqua per lavare un paio di magliette sporche. La signora che mi accoglie è come al solito gentilissima, mi aiuta a lavare i panni (sicuramente ha capito che non sono una gran donna di casa) e mi indica dove stenderli; mentre aspetto che asciughino almeno un pochino mi fa entrare in casa e mi offre il the. La casa è sulla collina con una splendida vista mare, peccato che all’interno sia un po’ diroccata…addirittura una stanza è adibita alle pecore. Ancora non mi era capitato di vedere le pecore dentro casa ma ho ormai imparato a non stupirmi più di nulla.
Per il resto della giornata pedalo letteralmente terrorizzata. Il mio copertone non è stato sostituito, solo rattoppato (il che non mi riempie certo di buone speranze) e sul nostro cammino non esistono più altri centri abitati. Ergo, dobbiamo arrivare a destinazione a tutti i costi, ci attendono una decina di km su strada sterrata e abbiamo solo due ore di luce davanti a noi. MARIAAAAAAA Però la divina provvidenza mi assiste e tra una buca e l’altra riesco a trascinare la mia povera bici fino a Bargny, la cittadina che si trova alle porte di Rufisque. Alloggiamo in un luogo decisamente speciale. Vass per tirarmi su di morale me l’aveva preannunciato: “dai che stasera dormiremo in un posto che ti piacerà tantissimo, è una casa direttamente sul mare, anzi, proprio nel mare, vedrai vedrai” Vedrò vedrò, aveva ragione la casa è letteralmente a mollo nell’oceano! La padrona l’ha trasformata in una specie di affittacamere anche se nelle camere non ci sono i letti (meno male che abbiamo la tenda). In compenso però c’è la doccia con l’acqua corrente – cosa ormai a noi sconosciuta da tempo immemore – e il bagno con addirittura la tazza del water! La struttura è stata costruita troppo vicino all’oceano e le onde pian piano se la stanno portando via; la balaustra del terrazzo si è staccata e dista ormai più di un metro dal terrazzo stesso…insomma tutto sta crollando ed è abbastanza pericoloso, ma confido nel fatto che il crollo finale non avvenga proprio stasera.
E’ ormai il tramonto, scendiamo in spiaggia sotto alla balaustra crollante e ci bagniamo i piedi nel mare. La temperatura è perfetta, c’è una pace assoluta e ci soffermiamo un po’ a parlare mentre il sole sparisce all’orizzonte. Il mare è calmo, una tavola perfettamente piatta sulla quale si stagliano solo le tipiche barche da pesca senegalesi. In lontananza le luci della cittadina iniziano a illuminarsi e Vass mi dice: “guarda lì, il minareto, non sembra un po’ il San Carlone che si vede dal balcone di casa mia?” E’ troppo vero, ridiamo, era da tanto che non nominavamo “casa”, fa strano pensarci e fra poco dovremo tornare. La padrona dell’alloggio ci prepara la cena, un piattone enorme e delizioso di riso con le orate che noi decidiamo di mangiare seduti sul ballatoio pericolante per non perderci la vista del mare e delle stelle che nel frattempo sono apparse, luminosissime e fittissime. Ci sembra di non aver mai mangiato così bene, il mare sciaborda sotto di noi, fortissimo e sempre più vicino. Sarà la nostra ultima notte in tenda e quando ci mettiamo a dormire abbiamo la sensazione di essere su una zattera, è meraviglioso. Ore 2.00 della notte: “Debora svegliati, c’è una zanzara, mi ha già punto 4 volte, sto soffrendo, perché hai lasciato la tenda aperta? Mi ricordo bene che ieri sera l’hai lasciata aperta, ti dico sempre di chiudere subito. Dai, accendi anche la tua luce…almeno aiutami a ucciderla..” Pareva troppo bello, nessuna capra, le onde del mare che ti cullano…chi mai potrà tenermi sveglia stanotte??