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Acquedotto antico a Salerno. Gli Archi del diavolo. La parola ACQUEDOTTO deriva da quella latina aquaeductus, composta da aqua = acqua e ductus = condotto
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Acquedotto antico a Salerno Gli Archi del diavolo
La parola ACQUEDOTTO deriva da quella latina aquaeductus, composta da aqua = acqua e ductus = condotto L’acquedotto è un canale sotterraneo o foraneo o sopraelevato, mediante il quale l'acqua è condotta dalla sorgente al luogo di consumo, sfruttando le pendenze del terreno. L'Acquedotto sopraelevato, il più comune, è poggiato su di una struttura in muratura che, in molti casi, assume il caratteristico aspetto della costruzione ad archi, già nota fin dall'antichità. A Salerno in via Velia si possono ammirare i resti dell’acquedotto longobardo “Gli Archi del diavolo”
Resti dell’acquedotto medioevale longobardo salernitano a via Velia
L’acquedotto medioevale longobardo salernitano 1. Nella prima metà o nel primo decennio della seconda metà del IX sec.d..C. uno dei prìncipi longobardi che governava Salerno decise di far cingere di mura la zona elevata presso l’attuale via Velia per farne un complesso fortificato contro eventuali attacchi nemici alla città provenienti da Sud. La zona si era elevata per i rialzi del terreno causati dal prosciugamento del torrente Faustino o Rafastia ( corrisponde all’attuale Rione Mutilati cui si accede salendo via San Gregorio VII). Costruita la cinta muraria, alla fine del IX sec.d.C. monaci benedettini giunti a Salerno ottennero il permesso di erigere a ridosso di essa il monastero di san Benedetto con una splendida chiesa annessa.
2. Il monastero oggi non esiste più ( o meglio è stato trasformato nella sede di un Distretto militare), la Chiesa invece esiste ancora ma non ha più, per i danni del tempo, quello splendore che dovette avere. In alcuni locali dell’atrio è stato ricavato l’attuale Museo Archeologico Provinciale. Per dare acqua al monastero fu iniziata la costruzione di un maestoso acquedotto con arcate a più piani che partiva dalle colline intorno alla città per giungere fino al monastero stesso. Oggi se ne ammirano i resti soprattutto in via Arce. Dodici archi sono a tutto sesto, undici a sesto ribassato. Questo acquedotto era già in funzione nel sec. X ( lo attesta un documento del codice diplomatico Salernitano del 965) ma si lavorò per il suo perfezionamento fino ad epoca normanna ( XII sec.).
La leggenda Archi del diavolo è lo strano nome che tutt'oggi i Salernitani attribuiscono all'antico acquedotto che, secondo la leggenda fu costruito in una notte del XIII secolo da un mago Pietro Barliario con l'aiuto del "Principe delle tenebre", salvando dalla sete i Salernitani. L'acquedotto di Salerno era alimentato dalle sorgenti del torrente Rafastia ad est del monte Bonadies e raggiungeva Salerno attraverso l'orto Agrario. Con la costruzione dei quartieri di via Vernieri fu abbattuto il ponte canale e sostituito con due sifoni, attraverso i quali era possibile portare l'acqua all'Orto Agrario.
L'acquedotto era già in funzione nel X secolo, infatti un documento del Codice Diplomatico Salernitano del 965 testimonia la presenza di acquedotti in Salerno e quindi l'uso di acque potabili. La mancanza di blocchi di pietra geometrica squadrati fa escludere che la costruzione sia romana, ma ne riprende i modelli in un periodo in cui le tecniche di costruzione erano elementari. Infatti il modello idrico dell'acquedotto salernitano si rifà a quello romano. La struttura è costituita da pietre calcaree miste a ciottoli alluvionali, con frammenti di mattone, arenaria e travertino, il tutto legato con buona malta
Resti dell’acquedotto medioevale longobardo salernitano a via Velia
Arcate superiori dell’ acquedotto medioevale longobardo salernitano visto da via Arce
. Nella Roma repubblicana i canali degli acquedotti correvano alla sommità di enormi archi di pietra. Esperti geometri e topografi, detti gromatici, dirigevano la costruzione di queste massicce opere murarie utilizzando strumenti molto precisi, come la groma, che consentiva di tracciare linee dritte e determinare angoli retti. Gli operai erano in grado di sollevare pesanti pietre grazie a imponenti gru mosse da ingranaggi rotanti azionati da schiavi. Una volta raggiunta la città, l’acqua veniva raccolta in bacini e vasche e quindi distribuita attraverso un elaborato sistema di tubi sotterranei, che alimentavano fontane, bagni pubblici e lavatoi. Roma imperiale era servita da ben 24 acquedotti, che portavano 984 milioni di litri d’acqua al giorno
Una volta scelta la sorgente adeguata, si stabiliva il percorso che l'aqueductus avrebbe compiuto per arrivare in città, per fare ciò si tracciava un profilo della geografia del terreno segnando coline e avvallamenti, pianure e corsi d'acqua. Per questo lavoro i tecnici adoperavano uno strumento di legno simile all'attuale livella, ma di dimensioni assai più grandi: il coròbate. Unendo tutti i segni presi con una linea si otteneva il vero profilo del terreno e gli ingegneri stabilivano se appoggiare le condotte al livello del suolo, se farle passare sotto, oppure elevarle di alcuni metri. Costruita la prima arcata si procedeva all'edificazione delle altre arcate che poggiavano sempre sugli stessi pilastri, all'ultimo piano sorgeva in laterizio la vera e propria condotta dell'acquedotto.
Arco a tutto sesto. Molto impiegato nella costruzione degli acquedotti romani
Nonostante già nel I secolo a.C. l'architetto Marco Vitruvio avesse indicato i pericoli che il piombo, a contatto con l'acqua, rappresentava per la salute,la rete idrica romana passò sempre attraverso tubazioni (fistulae) e serbatoi in piombo. L'alternativa era quella di usare condotti di terracotta divisi in sezioni unite con giunti sigillati da un impasto di calce viva e olio, ma i Romani continuarono a far uso deciso di piombo per le condotte d’acqua fino alla fine dell’Impero. L’uso del piombo non si limitò alle condotte. Tutte le stoviglie di cucina di rame o di ferro venivano da loro rivestite da un sottile foglio di piombo. Il vino conservato prima nelle anfore di terracotta fu da loro poi conservato in recipienti di piombo o di bronzo (che lo teneva piu' fresco) la cui superficie interna era ricoperta da una sottile lamina di piombo.
2. Il piombo dava un particolare sapore al vino, apprezzato dai buongustai, ma dato che bisognava aspettare molto tempo perchè il vino assumesse quel sapore, alcuni acceleravano questo processo, mettendo dentro al vino giovane finissima polvere dipiombo, o lo stesso ossido di piombo (quella di patina che chiamiamo verderame) ancora più micidiale, perchè non viene espulso dall'organismo umano ma continuamente accumulato.
3. Recipienti di piombo servivano per conservare le olive di cui i romani facevano ampio consumo. Le decorazioni con pitture al piombo coprivano i piatti di ceramica; pitture che venivano lentamente dissolte dagli acidi dei cibi, intossicando molto di più e tanto più in fretta il buongustaio quanto più questo era ricco, vale a dire quanto più le sue stoviglie erano riccamente decorate. Più quest’uomo infine rinnovava le sue stoviglie più tossico ingurgitava.
4. In questo modo le famiglie ricche, imperatori e uomini della classe dirigente romana, secondo alcuni studiosi sono state decimate dalle intossicazioni di piombo. Gli scrittori romani che ci hanno lasciato dettagliate biografie di personaggi ragguardevoli, quando descrivono le sintomatologie dei mali che soffrivano, ci descrivono spesso sintomi riferibili alla intossicazione tipica cronica da piombo o saturnismo.
5. Il saturnismo, intossicazione cronica da piombo, che porta ad un lento disfacimento dell’organismo umano colpiva il popolo, l’abbiamo visto, soprattutto per l’uso di acqua attraversante fistulae plumbee. Nelle ossa di un uomo, ricco o povero non si sa, rinvenute negli scavi archeologici di Pompei gli scienziati avrebbero trovato altissime concentrazioni di piombo tali da far intossicare anche un elefante.
I denti di un uomo sepolto dall’eruzione a Pompei recano macchie di colore bruno ( fluorosi ) dovute ad un eccesso di fluoro nell'acqua. Queste macchie sono state ritrovate anche sui denti di molti individui di Ercolano.