1.06k likes | 1.21k Views
A. A. 2012-2013 SP 2013 Prof. Uberto MOTTA Le forme brevi della narrativa tra Ottocento e Novecento. Orario delle lezioni Martedì, 17.00-19.00, AULA MIS 3026. Due date simboliche. 1880 G. Verga, Vita dei campi C. Dossi, Goccie d’inchiostro 1985
E N D
A. A. 2012-2013 SP 2013Prof. Uberto MOTTALe forme brevi della narrativa tra Ottocento e Novecento Orario delle lezioni Martedì, 17.00-19.00, AULA MIS 3026
Due date simboliche • 1880 G. Verga, Vita dei campi C. Dossi, Goccie d’inchiostro 1985 G. Celati, I narratori delle pianure A. Tabucchi, Piccoli equivoci senza importanza
Bibliografia • Storia della letteratura italiana, a c. di E. Malato, Salerno Editrice, voll. VIII e IX • Letteratura italiana Einaudi, vol. Le forme del testo, II (1984): Pieter De Meijer, La prosa narrativa moderna, pp. 759-847 • SLI 79,1-4: Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi (a c. di Brioschi-Di Girolamo) • SLI 88,1-4: Testi nella storia (a c. di Segre-Martignoni) • SLI 112,1-11: Storia della letteratura italiana (a c. di Ferroniet alii) • SLI 18,1-3: Letteratura.it (a c. di Langella et alii).
Quattro libri fondamentali • G. Verga, Vita dei campi (1880) Ed. consigliata: Verga, Tutte le novelle, a c. di G. Zaccaria, Einaudi • L. Pirandello, Dal naso al cielo, vol. VIII di Novelle per un anno(1925) Ed. consigliata: Pirandello, Novelle per un anno, a c. di S. Campailla, Newton Compton 2011 • C.E. Gadda, L'Adalgisa (1944) Ed. consigliata: a cura di C. Vela, Adelphi 2012 • I. Calvino, Ultimo viene il corvo (1949) Ed. consigliata: Mondadori Oscar
C. Baudelaire, Le Salon de 1846 « Le romantisme n’est précisément ni dans le choix des sujets ni dans la vérité exacte, mais dans la manière de sentir. Ils l’ont cherché en dehors, et c’est en dedans qu’il était seulement possible de le trouver. […] Qui dit romantisme dit art moderne, – c’est-à-dire intimité, spiritualité, couleur, aspiration vers l’infini, exprimées par tous les moyens que contiennent les arts ».
Cletto Arrighi, La Scapigliatura Milanese, 1858 In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui di ambo i sessi – v’è chi direbbe: una certa razza di gente –, fra i venti e i trentacinque anni non piú; pieni d’ingegno quasi sempre; piú avanzati del loro secolo; indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati, turbolenti - i quali - e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca - e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere […] meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre. Questa casta o classe - che sarà meglio detto - vero pandemonio del secolo; personificazione della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito di indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese. […] Essa mi rende, quasi a cappello, il concetto di questa della popolazione milanese, tanto diversa dall’altra pei suoi misteri, le sue miserie, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi traviamenti, sconosciuti ai giovani morigerati e dabbene, ed agli adulti gravi e posati, che della vita hanno preso la strada maestra, comoda, ombreggiata, senza emozioni, come senza pericoli. […] La speranza nell’avvenire è la sua religione; la povertà il suo carattere essenziale.
Camillo Boito (1836-1914) • Storielle vane(1876) ► dare voce a quel “demonio muto” che si nasconde nel cuore dell’uomo, come memoria o desiderio inconfessabile di peccato; come “piccola ulcera venefica [che] un po’ alla volta s’allarga, si estende e incancrenisce via via l’anima intera. Ci credevamo giusti, ci troviamo iniqui” • Nuove storielle vane(1883) ► comprende: Vade retro Satana, Macchia grigia, Il collare di Budda, Santuario, Quattr'ore al Lido, Meno di un giorno, Il demonio muto, Senso
Boito, Senso (1) Ho bisogno di mortificare la vanità. Alla inquietudine, che rode la mia anima e che lascia quasi intatto il mio corpo, s'alterna la presunzione della mia bellezza: né trovo altro conforto che questo solo, il mio specchio. Troverò, spero, un altro conforto nello scrivere i miei casi di sedici anni addietro, ai quali vado ripensando con acre voluttà. Lo scartafaccio, chiuso a tre chiavi nel mio scrigno segreto, non potrà essere visto da occhio umano, e, appena compiuto, lo getterò sul fuoco, disperdendone le ceneri; ma il confidare alla carta i vecchi ricordi deve servire a mitigarne l'acerbità e la tenacia. Mi resta scolpita in mente ogni azione, ogni parola e sopra tutto ogni vergogna di quell'affannoso periodo del mio passato; e tento sempre e ricerco le lacerazioni della piaga non rimarginata; né so bene se ciò ch'io provo sia, in fondo, dolore o solletico. O che gioia, confidarsi unicamente a sé, liberi da scrupoli, da ipocrisie, da reticenze, rispettando nella memoria la verità anche in ciò che le stupide affettazioni sociali rendono più difficile a proclamare, le proprie bassezze!
Boito, Senso (2) Era il luglio dell'anno 1865. Maritata da pochi giorni, facevo il viaggio di nozze. Per mio marito, che avrebbe potuto essere mio nonno, sentivo una indifferenza mista di pietà e disprezzo: portava i suoi sessantadue anni e l'ampia pancia con apparente energia; si tingeva i radi capelli e i folti baffi con un unguento puzzolente, il quale lasciava sui guanciali delle larghe macchie giallastre. […]Lo avevo pigliato spontaneamente, anzi lo avevo proprio voluto io. I miei erano contrarii ad un matrimonio così male assortito; né, bisogna dire la verità, il pover'uomo ardiva di chiedere la mia mano. Ma io mi sentivo stufa della mia qualità di zitella: volevo avere carrozze mie, brillanti, abiti di velluto, un titolo, e sopra tutto, la mia libertà. Ce ne vollero delle occhiate per accendere il cuore nel gran ventre del conte; ma, una volta acceso, non provò pace finché non m'ebbe, né badò alla piccola dote, né pensò all'avvenire. Io, innanzi al prete, risposi un Sì fermo e sonoro. Ero contenta di quello che avevo fatto, ed oggi, dopo tanti anni, non ne sono pentita.
Boito, Senso (3) La mia corte si componeva in massima parte di ufficialetti e d'impiegati tirolesi piuttosto scipiti e assai tronfii, tanto che i più dilettevoli erano i più scapati, quelli che avevano nella scostumatezza acquistato non foss'altro l'audacia petulante delle proprie sciocchezze. Tra questi ne conobbi uno, il quale usciva dal mazzo per due ragioni. Alla dissolutezza sbadata, univa, per quanto i suoi stessi amici affermavano, una così cinica immoralità di principii, che niente gli pareva rispettabile in questo mondo, salvo il codice penale e il regolamento militare. Oltre a ciò era veramente bellissimo e straordinariamente vigoroso: un misto di Adone e di Alcide. […]Questo tenente di linea, il quale aveva solo ventiquattro anni, due più di me, era riuscito a divorarsi la ricca sostanza paterna, e continuando sempre a giuocare, a pagar donne, a scialarla da signore, nessuno oramai sapeva come vivesse; ma nessuno lo vinceva nel nuoto, nella ginnastica, nella forza del braccio. Non aveva mai avuto occasione di trovarsi in guerra; non amava i duelli, anzi due ufficialetti mi raccontarono una sera, che, piuttosto che battersi, aveva più volte ingoiato atrocissimi insulti. Forte, bello, perverso, vile, mi piacque.
Boito, Senso (4) La perfetta virtù mi sarebbe parsa scipita e sprezzabile al paragone de' suoi vizii; la sua mancanza di fede, di onestà, di delicatezza, di ritegno mi sembrava il segno di una vigoria arcana, ma potente, sotto alla quale ero lieta, ero orgogliosa di piegarmi da schiava. Quanto più il suo cuore appariva basso, tanto più il suo corpo splendeva bello.
Boito, Senso (5) — Non ti amo? io che ti darei volentieri tutto il mio sangue. — Queste sono parole. Se non hai denaro, dammi i gioielli. Non risposi e mi sentii impallidire. Accortosi della impressione che mi avevano fatto le sue ultime parole, Remigio mi serrò tra le braccia di ferro, e mutato tono, ripeté più volte: — Sai che ti amo infinitamente, Livia mia, e ti amerò finché avrò un soffio di vita; ma questa vita salvamela, te ne scongiuro, salvala per te, se mi vuoi bene. Mi prendeva le mani, e le baciava. Ero già vinta. Andai alla scrivania a prendere le tre piccole chiavi dello scrignetto: temevo di far romore; camminavo in punta di piedi, benché avessi i piedi nudi. Remigio mi accompagnò nel gabinetto dietro l'alcova; serrai l'uscio, perché il conte non potesse udire, ed aperto lo scrigno con qualche difficoltà, tanto ero agitata, ne trassi un fornimento intiero di brillanti, mormorando: — Ecco, prendi. Costò quasi dodicimila lire. Troverai da venderlo? Remigio mi tolse di mano l'astuccio; guardò i gioielli e disse: — Usurai ce n'è dappertutto.
Boito, Senso (6) — Generale — mormorai — vengo a compiere un dovere di suddita fedele. — La signora contessa è tedesca? — No, sono trentina. — Ah, va bene — esclamò, guardandomi con una cert'aria di stupore e d'impazienza. — Legga — e gli porsi in atto risoluto la lettera di Remigio, quella che avevo ritrovata nel taschino del portamonete. Il generale, dopo avere letto: — Non capisco; la lettera è indirizzata a lei? — Sì, generale. — Dunque l'uomo che scrive è il suo amante. Non risposi. Il generale cavò di tasca un sigaro e lo accese, s'alzò da sedere e si pose a camminare su e giù per la sala; tutt'a un tratto mi si piantò innanzi e, ficcandomi gli occhi in volto, disse: — Dunque, ho fretta, si sbrighi. — La lettera è di Remigio Ruz, luogotenente del terzo reggimento granatieri. — E poi? — La lettera parla chiaro. S'è fatto credere malato, pagando i quattro medici — e aggiunsi con l'accento rapido dell'odio: — È disertore dal campo di battaglia. — Ho inteso. Il tenente era l'amante suo e l'ha piantata. Ella si vendica facendolo fucilare, e insieme con lui facendo fucilare i medici. È vero? — Dei medici non m'importa. Il generale stette un poco meditabondo con le ciglia aggrottate, poi mi stese la lettera, che gli avevo data: — Signora, ci pensi: la delazione è un'infamia e l'opera sua è un assassinio. — Signor generale — esclamai, alzando il viso e guardandolo altera — compia il suo dovere.
Igino Ugo Tarchetti (1839-1869), Racconti fantastici, Milano 1869 Il volume contiene 5 testi: I fatali; Le leggende del castello nero; La lettera U; Un osso di morto; Uno spirito in un lampone.
I. U. Tarchetti, I fatali Esistono realmente esseri destinati ad esercitare un'influenza sinistra sugli uomini e sulle cose che li circondano? È una verità di cui siamo testimonii ogni giorno, ma che alla nostra ragione freddamente positiva, avvezza a non accettare che i fatti i quali cadono sotto il dominio dei nostri sensi, ripugna sempre di ammettere. […] Noi non possiamo non riconoscere che, tanto nel mondo spirituale quanto nel mondo fisico, ogni cosa che avviene, avvenga e si modifichi per certe leggi d'influenze di cui non abbiamo ancora potuto indovinare intieramente il segreto. Osserviamo gli effetti, e restiamo attoniti e inscienti dinanzi alle cause. Vediamo influenze di cose su cose, di intelligenze su intelligenze, e di queste su quelle ad un tempo; vediamo tutte queste influenze incrociarsi, scambiarsi, agire l'una sull'altra, riunire in un solo centro di azione questi due mondi disparatissimi, il mondo dello spirito e il mondo della materia. Fin dove la penetrazione umana è arrivata noi abbiamo portato la nostra fede; il segreto dei fenomeni fisici è in parte violato; la scienza ha analizzato la natura; i suoi sistemi, le sue leggi, le sue influenze ci sono quasi tutte note: ma essa si è arrestata dinanzi ai fenomeni psicologici, e dinanzi ai rapporti che congiungono questi a quelli. Essa non ha potuto avanzarsi di più, e ha trattenuto le nostre credenze sulla soglia di questo regno inesplorato.
C. Dossi, Prima e dopo, da Goccie d’inchiostro, 1880 E, spesso, Giulio e Antonietta passàvano verso le tre, innanzi alle scuole del pomo; di cui, apèrtasi a un tratto la pìccola porta, rovesciàvasi fuori, come fantocci da un sacco, la melonìa de’ scolaretti, isparpagliàndosi tosto per la contrada, a corsa, dimèntica già della noja sofferta, e saltellante e giojosa; e spesso, di dopo-pranzo, sedèvano tristamente su’na panchetta ai Giardini, Gullìveri nuovi in mezzo alla gentile frugaglia del Lillipùt, che trottolava di su e di giù, vero moto perpetuo, senza fastidi, senza pensieri e tutta amica; là, a fare i grandi occhi intorno al bossolottajo, mago del buon comando; quà, a leccare il cucchiajo, il piattello e le labbra intorno a quel dal sorbetto dell’unghia, o a bevucchiare a due mani la consolina entro un tazzone; in ogni parte, correndo coi cerchi, coi palloncelli, coi draghi-volanti o sui bastoni dei babbi; facendo al signore e al soldato innocentemente, o a rimpiattino dietro le gonne dell’aje; mentre i bebè dalle dande, che incominciàvano a sentirsi i pieducci, con l’agitar delle alette e la voce, credèvanocòrrere anch’essi. Oh quanti maluzzi da unguento sputino, tavane da pulci! oh liti, temporali di monte! o dispettini e capricci e cattiverie adoràbili! oh paci! senza riserve, senza capi segreti.
Racconti della Scapigliatura piemontese, a cura di G. Contini,Milano, Bompiani, 1953. Autori antologizzati: Giovanni Faldella (Vercelli 1846-1928), Roberto Sacchetti (Asti 1847-1881), Achille Giovanni Cagna (Vercelli 1847-1931), Edoardo Calandra (Torino 1852-1911)
La storia letteraria secondo G. Contini(da La letteratura italiana. Otto-Novecento, 1974:Premessa) “Che la storia letteraria, cioè una storia della cultura morale (come per esempio delle poetiche), sia un mero schema empirico volto ad abilitare alla conoscenza dei singoli momenti poetici (e sarebbe meglio dire, per fuorviare i residui di psicologismoinerenti al procedimento monografico, delle singole unità espressive), è teorema che non francherebbe neppur la pena di ripetere. […] Ma sarebbe forse tempo di praticare la così intesa storia letteraria secondo l’approssimazione più probabile dell’attoespressivo, cioè a dire quale storia della cultura linguistica”.
G. Faldella, A Vienna. Gita con il lapis, 1874 (cap. Autobibliografia) Vocaboli del Trecento, del Cinquecento, della parlata toscana e piemontesismi; sulle rive del patetico piantato uno sghignazzo da buffone: tormentato il dizionario come un cadavere, con la disperazione di dargli vita mediante il canto, il pianoforte, la elettricità e il reobarbaro... Così seguiterò finché avrò carta e fiato. Tale il mio stile, come venne ridotto dal mondo piccino e dai libri grossi.
G. Faldella, A Vienna. Gita con il lapis, 1874 La diligenza Pernottiamo a Fluelen; e poi, appena giunto il mattino tagliente, montiamo sopra una diligenza. Povera diligenza perseguitata dal vapore, che fra breve ti caccerà dai valichi delle montagne, dove ti sei rincantucciata! Sono lieto di essere venuto al mondo in tempo per conoscerti personalmente, per udire il sonaglio dei tuoi cavalli e il corno de' tuoi postiglioni, e per vedere il loro cappello incerato ed i loro bottoni gialli sul panciotto rosso. I miei posteri non conosceranno più queste cose fuorché a qualche teatro diurno o filodrammatico assistendo alla rappresentazione del Vetturale del Moncenisio. Per montagne irrugginite, per verdi di velluto, per ponti del diavolo e per ponticini angelici, per nevi sucide e per fiorellini da portafogli, per cascate che lanciano prismi di colori e sfondano la pietra incavandola in conche, e per festoni vegetali, che si insinuano fra gli spacchi delle roccie e ne secondano l'architettura, la diligenza ci conduce al San Gottardo, che l'ingegneria sta per trafiggere luminosamente da parte a parte. Quindi da una scala a zighizzaghi precipiti roviniamo in Italia.
G. Faldella, A Vienna. Gita con il lapis, 1874 Ritorno in Italia Come sono dolci a chi ritorna gli spropositi di lingua italiana sulle insegne del Canton Ticino! È tempo che io ricapitoli ciò che io ho imparato nella mia gita ed assodi, se un viaggio allarga come un bistorî la intelligenza. Ho visto gli stessi tipi e le stesse faccie che io già conoscevo prima, salvo che le trovai spostate ridicolosamente. Così un ministro italiano lo scopersi che suonava il tamburo a Zurigo, ed il padre di un mio amico che fa il farmacista in Italia lo rinvenni colonnello degli Ulani a Vienna. Tutto il mondo è paese: Tirolesi, Bavaresi, Austriaci, Würtemberghesi, Badesi, Svizzeri ed Italiani siamo tutti figli dello stesso Adamo, anziché pronipoti di un orangotango diverso. Questo pensiero di fratellanza cosmopolitana mi consola, e non mi toglie la contentezza di rivedere la bella Italia e le amate sponde, dove mi sento più fratello con il mio prossimo.
Racconti della Scapigliatura piemontese, a cura di G. Contini “In Faldella l’impressionismo (poiché per lui si trattava qui, e in fondo sempre, di rendere delle superfici, di rendere profondamente delle superfici) porta a una tecnica, pur trattata con mano di dilettante più che di scienziato, di giustapposizione alla Monet, di divisionismo o puntinismo verbali. La finalità intrinseca di Faldella, quel tanto d’innovazione gnoseologica che gli compete, è infatti… rappresentare cose che non sono nel dominio dell’espressione del pensiero che si giova delle lettere dell’alfabeto”.
G. Faldella, Degna di morire “Nel principio dell’inverno seguente il cavaliere Alfredo, già fatto deputato, si sentì stomacato dalla vita. Gli pareva che l’umanità in generale e l’Italia in particolare fossero carcasse fruste, e che i nostri scrittori e artisti più adulati d’adesso, succeduti immediatamente alle olimpiche, pelasgiche, basilicali intelligenze di Canova, di Leopardi, di Gioberti e di Rossini fossero scarafaggi ischeletriti […] che il resto del prossimo fosse bestiame di Sallustio; e che intorno alla sua persona non si aggirasse più un solo cervello integro. E sentiva una smania prepotente di dare una presa di somaro a tutti, compreso il signor sé stesso”.
E. Zola, Il romanzo sperimentale, 1880 (I) Lo scopo del metodo sperimentale in fisiologia ed in medicina è di studiare i fenomeni per divenirne padroni. […] Dunque questo è lo scopo, questa è la moralità della fisiologia e della medicina sperimentali: divenire padroni della vita per dirigerla. Supponiamo che la scienza abbia proceduto nel suo cammino e che la conquista di ciò che è sconosciuto sia compiuta: […] allora il medico sarà padrone delle malattie; guarirà infallibilmente agendo sul corpo umano per la felicità ed il vigore della specie. Si entrerà in un secolo in cui l'uomo, divenuto onnipotente, avrà soggiogato la natura utilizzandone le leggi per far regnare su questa terra tutta la giustizia e la libertà possibili. Non vi è scopo più nobile, più elevato, più grande. In esso consiste il nostro compito di esseri intelligenti: penetrare il come delle cose per dominarle e ridurle allo stato di meccanismi ubbidienti. Ebbene, questo sogno del fisiologo e del medico sperimentale è anche quello del romanziere che applica allo studio dell'uomo nella natura e nella società il metodo sperimentale.
E. Zola, Il romanzo sperimentale, 1880 (II) Il nostro scopo è il medesimo; anche noi vogliamo essere padroni dei fenomeni della vita intellettuale e passionale, per poterli guidare. In una parola siamo dei moralisti sperimentali che mettono in luce mediante l'esperimento come si comporta una passione in un dato ambiente sociale. Il giorno in cui ci impadroniremo del suo meccanismo, si potrà curarla e placarla o almeno renderla il più inoffensiva possibile. Ecco dunque in che consistono l’utilità pratica e la elevata moralità delle nostre opere naturalistiche, che sperimentano sull’uomo, e rimontano pezzo per pezzo la macchina umana farla funzionare sotto l’influenza dei vari ambienti. Col procedere del tempo, col divenire padroni delle leggi, si tratterà soltanto di agire sugli individui e sugli ambienti, se si vuole arrivare allo stato sociale migliore. In tal modo facciamo della sociologia pratica ed il nostro lavoro avvantaggia le scienze politiche ed economiche. Non conosco, lo ripeto, un lavoro più nobile, né una più ampia applicazione. Essere in grado di controllare il ben e il male, regolare la vita, guidare la società, risolvere alla lunga tutti i problemi del socialismo, conferire soprattutto solide basi alla giustizia dando una risposta con l’esperimento ai problemi della criminalità, non è forse essere gli operai più utili e più morali del lavoro umano?
Fantasticheria: pubblicata per la prima volta sul settimanale “Fanfulla della domenica”, il 24 agosto 1879; poi testo d’apertura di Vita dei campi (1880) Definizione generale del tema del libro: “le tenaci affezioni dei deboli”, “l’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita”. Incipit del testo: «Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: "Vorrei starci un mese laggiù!"».
G. Verga, Fantasticheria (I) Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, il quale si crederebbe che non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché. Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l'orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente, voi che guardate la vita dall'altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà.
G. Verga, Fantasticheria (II) - Insomma l'ideale dell'ostrica! direte voi. - Proprio l'ideale dell'ostrica, e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano - forse pel quarto d'ora - cose serissime e rispettabilissime anch'esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo s'addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. […] Mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell'istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: - che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dell'ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com'è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. - E sotto questo aspetto vedete che il dramma non manca d'interesse. Per le ostriche l'argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.
G. Verga, Rosso Malpelo • I ed. in 4 puntate sul quotidiano romano «Fanfulla» (2-5 agosto 1878). • Genesi ispirata da L. Franchetti – S. Sonnino, La Sicilia nel 1876: cap. su Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane, Firenze 1877. • Lettera di G. Verga a Filippo Filippi, 11.X.1880: «Il mio studio è di fare eclissare al possibile lo scrittore, di sostituire la rappresentazione all’osservazione, metter per quanto si può l’autore fuori del campo d’azione, sicché il disegno acquisti tutto il rilievo e l’effetto da dar completa l’illusione della realtà. […] Io non giudico, non m’appassiono, non m’interesso, o piuttosto non devo mostrare nulla di tutto questo, sotto pena di veder mancare uno dei più efficaci effetti dell’opera d’arte, e giudico, m’appassiono, m’interesso soltanto colla scelta dei tipi che presento».
G. Verga, Rosso Malpelo Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo. Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c'era anche a temere che ne sottraesse un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni. Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro. Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata.
G. Verga, L’amante di Gramigna (I) Caro Farina, eccoti non un racconto ma l'abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di esser brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi; interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l'ho raccolto pei viottoli dei campi, press'a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l'efficacia dell'essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne; il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditorî, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che dicesi l'argomento di un racconto, e che l'analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d'arrivo, e per te basterà, e un giorno forse basterà per tutti.
G. Verga, L’amante di Gramigna (II) Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo; sacrifichiamo volentieri l'effetto della catastrofe, del risultato psicologico, intravvisto con intuizione quasi divina dai grandi artisti del passato, allo sviluppo logico, necessario di esso, ridotto meno imprevisto, meno drammatico, ma non meno fatale; siamo più modesti, se non più umili; ma le conquiste che facciamo delle verità psicologiche non saranno un fatto meno utile all'arte dell'avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell'uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le risorse dell'immaginazione che nell'avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
G. Verga, L’amante di Gramigna (III) Intanto io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più umana delle opere d'arte, si raggiungerà allorché l'affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane; e che l'armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l'impronta dell'avvenimento reale, e l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore; che essa non serbi nelle sue forme viventi alcuna impronta della mente in cui germogliò, alcuna ombra dell'occhio che la intravvide, alcuna traccia delle labbra che ne mormorarono le prime parole come il fiat creatore; ch'essa stia per ragion propria, pel solo fatto che è come dev'essere, ed è necessario che sia, palpitante di vita ed immutabile al pari di una statua di bronzo, di cui l'autore abbia avuto il coraggio divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale.
G. Flaubert sul canone dell’impersonalità • letteradel 9 dicembre 1852 a Louise Colet: « L'auteur, dans son oeuvre, doitêtrecommeDieudans l'univers, présentpartout, etvisible nulle part. L'art étant une seconde nature, le créateur de cettenature-làdoit agir par desprocédésanalogues : que l'on sente danstouslesatomes, à touslesaspects, une impassibilitécachéeetinfini. L'effet, pour le spectateur, doitêtre une espèce d'ébahissement. Comment tout cela s'est-ilfait ! doit-on dire, et qu'on se sente écrasé sans savoirpourquoi ». • letteradel6 novembre 1853 a Louise Colet: « Rappelons-nous toujours que l'impersonnalité est le signe de la Force. Absorbons l'objectif et qu'il circule en nous, qu'il se reproduise au-dehors, sans qu'on puisse rien comprendre à cette chimie merveilleuse. Notre coeur ne doit être bon qu'à sentir celui des autres. - Soyons des miroirs grossissants de la vérité externe».
L. Franchetti – S. Sonnino, La Sicilia nel 1876, Prefazione Noi abbiamo inteso d'indagare le ragioni intime dei fenomeni morbosi che presenta la Sicilia, e di ritrarre un quadro succinto delle sue condizioni sociali, così diverse da quelle di alcune altre regioni del nostro paese. Esprimendo in ogni singolo caso la nostra opinione schiettamente e senza reticenze o falsi riguardi di convenienza, crediamo di dimostrare nel miglior modo possibile la nostra gratitudine verso i Siciliani, e abbiamo fede di giovare all'Isola più coll'esposizionedella verità che non coll'adulazione. Non ci siamo lasciati distogliere dal timore di esser tacciati d'arroganza, perchè trattandosi di quistioni che interessano l'avvenire del paese, riteniamo che ogni cittadino abbia lo stretto dovere di dire apertamente la propria opinione. Convinti che i fenomeni da noi descritti hanno la loro prima origine nelle leggi della Natura, noi, nell'esporli, non intendiamo giudicar nessuno, e tanto meno condannare. Non sappiamo vedere nei Siciliani che altrettanti Italiani, e i mali dell'ultima estremità della Penisola ci fanno provare dolore nel modo medesimo che quelli della nostra provincia natale.
G. Verga, La roba (Novelle rusticane) I Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga - dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all'impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della messe. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto.
G. Verga, La roba (Novelle rusticane) II Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò.
G. Verga, La roba (Novelle rusticane) III Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov'era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me!
G. Baldi, L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista, 1980 Verga vuole mostrare gli effetti negativi prodotti nel personaggio dalla dedizione totale all’accumulo, l’impoverimento umano, l’alienazione nelle cose, l’insensibilità ai valori più sacri, come la famiglia e gli affetti […], la brutalità dello sfruttamento esercitato sui deboli […]. Ma lo scrittore non si arresta solo all’atteggiamento di rifiuto moralistico, da destra, della realtà del denaro, della proprietà, dell’interesse individuale, alla constatazione desolata e radicalmente pessimistica dell’ineluttabilità della lotta per la vita. Ai suoi occhi Mazzarò possiede veramente qualcosa di “grandioso”, i suoi “vizi” si trasformano davvero in virtù; le proporzioni smisurate della ricchezza da lui creata […] il suo ascetismo non possono non suscitare stupefatta, sgomenta ammirazione, e finiscono per ammantarsi a buon diritto di un alone mitico e leggendario.
C'era un uomo ricco, che era vestito di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi (Lc 16, 19-31).
Le ‘raccolte’ di Verga • Vita dei campi, 1880 • Novelle rusticane, 1883 • Per le vie, 1883 • Vagabondaggio, 1887 • I ricordi del Capitano d’Arce, 1891 • Don Candeloro e C.i, 1894
Luigi Capuana (1839-1915) Le appassionate, 1893 → «casi di coscienza dolorosi o tragici» Le paesane, 1894 → «studi di carattere e d’ambiente» • Federico De Roberto (1861-1927) La sorte, 1887 Documenti umani, 1888 Processi verbali, 1890 → «la nuda e impersonale trascrizione di piccole commedie e di piccoli drammicolti sul vivo». L’albero della scienza,1890
F. De Roberto, Prefazione a Processi verbali (1890) Processo verbale […] significa una relazione semplice, rapida e fedele di un avvenimento, svolgentesi sotto gli occhi di uno spettatore disinteressato. Processi verbali, io intitolo delle novelle, che sono la nuda e impersonale trascrizione di piccole commedie e di piccoli drammi colti sul vivo. Se l'impersonalità ha da essere un canone d'arte, mi pare che essa sia incompatibile con la narrazione e con la descrizione. Nell'esporre in nome proprio gli avvenimenti, nel presentare i suoi personaggi, lo scrittore si tradisce inevitabilmente; ch'ei voglia o no, finisce per giudicare gli uni e commentare gli altri; e le fioriture di stile, con cui egli traduce le impressioni suscitate dal mondo materiale, sono cosa tutta sua. L'impersonalità assoluta, non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l'ideale della rappresentazione obiettiva, consiste nella scena come si scrive pel teatro. L'avvenimento deve svolgersi da sé, e i personaggi debbono significare essi medesimi, per mezzo delle loro parole e delle loro azioni, ciò che essi sono. L'analisi psicologica, l'immaginazione di quel che si passa nella testa delle persone, è tutto il rovescio dell'osservazione reale. […] La parte dello scrittore che voglia sopprimere il proprio intervento deve limitarsi, insomma, a fornire le indicazioni indispensabili all'intelligenza del fatto, a mettere accanto alle trascrizioni delle vive voci dei suoi personaggi quelle che i commediografi chiamano didascalie.
F. De Roberto, Il rosario (da Processi verbali, 1890) I Un leggiero colpo di martello all'uscio del giardino: tanto leggiero, da non poter essere udito se non dalle donne che stavano ad aspettare lì dietro. —Chi è? —Io, Angela... Aprirono. —Che notizie? — chiesero tutte, a bassa voce. La comare Angela, trafelata, con la fronte in sudore sotto il fazzoletto rosso, rispose, piano. —Niente!... È morto!... Potete far conto che gli recitino il de Profundis... A stasera non ci arriva!... Le sorelle Sommatino fecero tutt'e tre lo stesso gesto di stupore doloroso, guardando il cielo dell'alba. —Ma che non ci ha da essere un rimedio? —Se vi dico che puzza già di cadavere! Restavano un poco in silenzio, le une in giardino, l'altra nella via; l'uscio era aperto a metà e Caterina, la maggiore delle vecchie zitelle, ci teneva sopra una mano, per poterlo subito richiudere, come in tempo di peste. —Adesso, che cosa volete fare? — riprese la donna. Le sorelle si guardarono, tutte imbarazzate, senza rispondere. —Quella creatura non potete lasciarla così! È vostra sorella, finalmente. Può restar sola, stanotte, col morto dentro? Agatina Sommatino alzò di nuovo gli occhi al cielo, e le altre fecero come lei. —Noi non possiamo nulla, senza mammà!...
F. De Roberto, Il rosario (da Processi verbali, 1890) II —È morto!... — diceva don Vincenzo, gesticolando. — Vostro cognato è morto!... —E non gridate così!... Don Vincenzo, turbato, agitatissimo, ripeteva a voce più bassa, dietro il cancello: —È morto... or ora... Vostra sorella sembra una pazza... lo chiama, lo bacia, non c'è verso di levarla di lì... Adesso, come si fa? —Come si può fare? — si chiesero a vicenda le due zitellone, con un imbarazzo costernato. —Non lo volete dire neanche adesso a donna Antonia? —Caro don Vincenzo — rispose Filippina — voi lo sapete meglio di noi com'è mammà... e che non le si può nemmeno nominare questa figliuola... —Ma ora? anche ora che le restano i soli occhi per piangere? Scusate, questa è una cosa che non si è letta mai!... Neanche se avesse ammazzato qualcuno!... Finalmente, il male l'ha fatto a sé e non a voi... —Che possiamo farci?... Lo sa Dio, se la disgrazia di nostra sorella ci affligge... —Davvero, lo sa Dio!... — confermò l'altra. —Con mammà, lo sapete, non si può parlare. Tutto il giorno chiusa nelle sue stanze: mangia sola, non vuol veder nessuno. La sua conversazione è la sera, quando diciamo il rosario... Stasera, vedremo... —E intanto la gente vi legge la vita, che siete dei senza cuore, che è una porcheria tutta nuova, dopo che li avete lasciati morir di fame!.. Lo sapete che non c'è di che pagare il becchino, da vostra sorella?
F. De Roberto, Il rosario (da Processi verbali, 1890) III Le tre sorelle Sommatino si erano già raccolte nello stanzone del presepe, al lume di una lampada a olio, quando l'uscio di mezzo si schiuse e comparve donn'Antonia, col bastone in mano. Malgrado l'età, si manteneva sempre dritta e ferma; era vestita tutta a nero, con un fazzoletto nero in capo che le chiudeva il viso magro, ossuto, dal naso ricurvo e dagli occhi scintillanti. Con un mazzo di chiavi, le pendeva dalla cintura la corona del rosario. —Buona sera, mammà! — augurarono le tre sorelle, ad una voce. —Buona sera. […] —Vi ha disobbedito, è vero, mammà... si è preso uno che non era del suo stato... vi ha dato tanti dispiaceri... ma adesso! se la vedeste, non si riconosce più... Vuole buttarsi ai vostri piedi... per chiedervi perdono... Sapete: non ha come fare, non ha più nulla!... Volete che venga a domandarvi perdono?... —Padre nostro che state in cielo, santificato il vostro nome... — Interrompendosi un poco, cogli occhi sempre socchiusi, donn'Antonia disse: — Di chi stai parlando? —Di Rosalia, mammà... di vostra figlia... —Venga a noi il vostro regno, sia fatta la vostra santa divina volontà... Io non ho figlie di nome Rosalia. Mia figlia è morta... Così in cielo come in terra... — E suggerendo la ripresa alle figliuole, che restavano mute, con le schiene sulle seggiole, continuò sola sino in fondo: — Dateci oggi il nostro pane quotidiano... perdonate i nostri peccati, come noi perdoniamo i nostri nemici...
Federico De Roberto,Il paradiso perduto, da L’albero della scienza (1890)
Matilde Serao, Il ventre di Napoli (1884) La serva napoletana si alloga per dieci lire il mese, senza pranzo: alla mattina fa due o tre miglia di cammino, dalla casa sua alla casa dei suoi padroni, scende le scale quaranta volte al giorno, cava dal pozzo profondo venti secchi di acqua, compie le fatiche più estenuanti, non mangia per tutta la giornata e alla sera si trascina a casa sua, come un'ombra affranta. Ve ne sono di quelle che pigliano due mezzi servizi, a sei lire l'uno e corrono continuamente da una casa all'altra, continuamente rimproverate per le tardanze. Ne ho conosciuta una, io, si chiamava Annarella, faceva tre case al giorno, a cinque lire: alla sera era inebetita, non mangiava, morta dalla fatica, talvolta non si svestiva, per addormentarsi subito. Queste serve trovano anche il tempo di dar latte a un bimbo, di far la calza, ma sono esseri mostruosi, la pietà è uguale alla ripugnanza che ispirano. Hanno trent'anni e ne dimostrano cinquanta, sono curve, hanno perso i capelli, hanno i denti gialli e neri, camminano come sciancate, portano un vestito quattro anni, un grembiule sei mesi.
Matilde Serao, Il ventre di Napoli (1884) Non si lamentano, non piangono: vanno a morire, prima di quarant'anni, all'ospedale, di perniciosa, di polmonite, di qualche orrenda malattia. Quante ne avrà portate via il colera! […] Sono brutte, è vero: si trascurano, è verissimo: fanno schifo, talvolta. Ma chi tanto ama la plastica, dovrebbe entrare nel segreto di quelle esistenze, che sono un poema di martirio quotidiano, di sacrifici incalcolabili, di fatiche sopportate senza mormorare. Gioventù, bellezza, vestiti? Ebbero un minuto di bellezza e di gioventù, furono, amate, si sono maritate: dopo, il marito e la miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame. Hanno i bimbi e debbono abbandonarli, il più piccolo affidato alla sorellina, e come tutte le altre madri, temono le carrozze, il fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete, agitate, mentre servono.
Racconti dell’Italia post-unitaria (1880-) • Renato Fucini (1843-1921), Le veglie di Neri (1882) • Carlo Lorenzini, detto Collodi (1826-1890), Macchiette(1880) e Occhi e nasi. Ricordi dal vero (1881) • Mario Pratesi (1842-1921), In provincia (1883) • Alfredo Oriani (1852-1909), Gramigne (1878) e Quartetto (1883) • Edmondo De Amicis(1846-1908), Cuore (1886)