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La protoindustrializzazione. Il lavoro a domicilio Il lavoro a cottimo Il nesso organico tra agricoltura e industria a domicilio Il nesso tra livello intellettuale e scientifico e quadro sociale, economico, politico Lo sviluppo è un “va-e-vieni”.
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La protoindustrializzazione • Il lavoro a domicilio • Il lavoro a cottimo • Il nesso organico tra agricoltura e industria a domicilio • Il nesso tra livello intellettuale e scientifico e quadro sociale, economico, politico • Lo sviluppo è un “va-e-vieni”
L'uso della categoria di «rivoluzione» non è infrequente da parte degli storici. Ma se sul piano della storia politica il giudizio è abbastanza unanime, (la rivoluzione francese o la rivoluzione bolscevica individuano la fine di regimi politici od istituzionali), le «rivoluzioni» di tipo socio-economico appaiono meno realistiche e sembrano destinate a suscitare discussioni, prima o poi. Le trasformazioni dei sistemi sociali, dell'organizzazione produttiva, dei comportamenti collettivi viaggiano su tempi assai più lunghi dei ritmi talvolta fulminei della politica. Sono pachidermi paragonati a lepri. I pachidermi e le lepri
Nette cesure e forti discontinuità di tipo economico e sociale appaiono difficili da identificare. Talvolta, si rivelano scorciatoie imboccate dagli storici più che dalla realtà: la «rivoluzione agricola» è categoria discutibile. Ma anche la «rivoluzione industriale» è stata sottoposta a critica. Anzitutto, il suo significato di cesura radicale non sembra corrispondere all'esperienza collettiva di coloro che si trovano a viverla. Allo sviluppo delle macchine e del lavoro salariato di fabbrica la gente reagisce in vario modo: le famiglie fanno resistenza o cercano di diluirne gli effetti i governi non esitano ad intervenire per frenarne in qualche modo le conseguenze sociali e politiche bande di uomini di notte vanno ad incendiare filatoi meccanici e trebbiatrici meccaniche, ritardandone obiettivamente la diffusione. L'industrializzazione:un processo, non una cesura
L'industrializzazione:un processo lungo e limitato • Insomma, l'industrializzazione appare come un processo lungo, limitato a talune aree territoriali e sociali, in qualche modo contrattato fra chi lo promuove e chi lo teme, frutto di spinte e controspinte: una sorta di compromesso. • Il rostowiano take-off, che metaforicamente sottolinea la forte discontinuità del fenomeno, non riceverebbe al giorno d'oggi il consenso unanime degli storici.
Ma è soprattutto la tematica della protoindustria che cambia il quadro del giudizio. F.Mendels e gli altri storici della protoindustria mettono infatti in chiaro come anche nei secoli che precedono la «rivoluzione» inglese sette-ottocentesca sia presente, in Europa, il fenomeno della produzione manifatturiera di massa. La protoindustria ha caratteristiche assai lontane dal «modello inglese» classico. Si fonda sul lavoro a domicilio svolto dalle famiglie contadine e organizzato da mercanti imprenditori, che forniscono i contadini del materiale grezzo - e talvolta degli strumenti di lavoro - e a loro pagano (a cottimo) il prodotto finito. È un sistema basato su poca tecnologia e molto lavoro. Non prevede salari né fabbriche. La protoindustria: il lavoro a domicilio
Il fenomeno della protoindustrializzazione si verifica in presenza di una serie di condizioni, sul doppio versante dell'offerta e della domanda. I contadini si rendono disponibili ad affiancare al lavoro sui campi il lavoro a cottimo nelle proprie abitazioni, soltanto se sono poveri ed hanno poca terra: in un'economia familiare precaria, i redditi che possono essere ricavati dall'attività manifatturiera, per quanto modesti, sono preziosi perché riescono a ripianare il deficit del bilancio casalingo. I mercanti, da parte loro, possono pagare il lavoro dei contadini con retribuzioni assai basse: perché i contadini non hanno alcun potere contrattuale nei loro confronti e soprattutto perché, per la famiglia contadina, i proventi ricavati dall'attività manifatturiera costituiscono un'entrata complementare del bilancio familiare. Il lavoro a cottimo: un'entrata complementare per i contadini
«II capitale mercantile [utilizza] una manodopera rurale la cui sussistenza [è] in parte garantita da un reddito diverso dal salario», ovvero dal reddito agricolo": E’ la produzione agricola che sostiene e riproduce le famiglie contadine, le quali proprio per questo possono accontentarsi degli infimi guadagni che loro offrono i mercanti. L'industria rurale si appoggia in modo parassitario sulla campagna. Il suo asso nella manica sono i bassi salari. L'industria rurale “parassita” della campagna
La disponibilità dei contadini al lavoro a domicilio dipende da una quantità di altri fattori, che ribadiscono il nesso organico tra agricoltura e industria. La protoindustria potrà diffondersi, ad esempio, in aree cerealicole, dove i contadini dopo il raccolto, godono di un lungo periodo di inattività (tardo autunno e inverno), nel quale possono svolgere il lavoro manifatturiero. Non prenderà piede nelle zone viticole, perché la coltura della vite impegna i contadini lungo tutto l'arco dei 12 mesi. La protoindustria, insomma, è funzione del paesaggio agrario: dipende dal regime fondiario e dai rapporti di produzione agricoli. Le più propense al lavoro domestico saranno le famiglie di piccoli proprietari o affittuari, mentre i braccianti agricoli, spostandosi abitualmente alla ricerca di ingaggi migliori, sono meno interessati. Il nesso organico tra agricoltura e industria a domicilio
Il modello di Mendels sembra far giustizia di ogni lettura unilineare e progressiva della crescita economica. L'esperienza occidentale è ricca di processi di protoindustrializzazione ma anche di (successive) fasi di deindustrializzazione. Lo sviluppo è un continuo va-e-vieni: periodi anche prolungati di crescita possono approdare, in età contemporanea, al modello industriale ma anche perdersi per strada. Lo sviluppo è un “va-e-vieni”
Durante il ’700, ad esempio, in Galizia, si sviluppa un forte apparato protoindustriale. Popolata da contadini forniti di poca e mediocre terra di montagna, la Galizia sembra un luogo ideale per gli insediamenti dell'industria rurale, che difatti si diffondono su tutto il territorio. Nelle pause dell'attività agricola, i contadini lavorano lino, legno (doghe per botti e mobili), metalli, producono battelli per la navigazione fluviale. A fine ’700, le telerie galiziane si vendono in mezza Europa: dai tessuti grezzi di uso popolare a raffinate tovaglierie e biancherie per i signori. Ma già ai primi dell‘800 il quadro muta. Mentre nelle vicine regioni della Slesia, della Boemia, della Moravia analoghe strutture protoindustriali vengono aggiornate, con l'introduzione di nuove macchine e soprattutto con il passaggio dal lino al cotone (i tessuti di cotone sono morbidi, colorati, più economici), la Galizia resta ferma. Il “caso” della Galizia
Non dispone di capitali, imprenditori, conoscenze tecniche, autonomia politica (è asburgica) per passare da un sistema protoindustriale ad una struttura industriale. La concorrenza del cotone diventerà presto insostenibile e manderà in rovina il lino dei contadini polacchi, i quali -risultando sempre meno redditizio il lavoro manifatturiero domestico- finiranno per abbandonarlo, concentrandosi nuovamente sulla sola attività agricola. Nella seconda metà dell‘800, la fiorente manifattura galiziana è ormai un ricordo. I processi della crescita industriale non sono dunque una prerogativa dell'età contemporanea, né sembrano strade obbligate e senza ritorno: accanto ai fenomeni dell'industrializzazione, è necessario considerare l'ipotesi della deindustrializzazione. La deindustrializzazione della Galizia
Pur con tutti i distinguo, l'industrializzazione mantiene forti caratteri epocali e s'intreccia in modo caratteristico con la storia dell'Occidente contemporaneo. Quello industriale è un complesso sistema di interrelazioni tra fattori di diverso ordine. Cercarne una «causa prima» diventa fuorviante. Chi, ad esempio, voglia vederne la genesi nell'invenzione di nuove macchine, si trova di fronte al fatto che l'Inghilterra non ha alcuna preminenza a livello tecnologico, almeno fino alla metà del Settecento: alle soglie dello sviluppo, sono gli olandesi che sembrano intendersi di tessitura e di opere pubbliche, i tedeschi di metallurgia, gli italiani di vetreria e setifici, francesi svizzeri e ancora italiani di edilizia. L'invenzione di nuove macchine?
Chi invece vede alle origini dell'industrialismo il pesodi esperienze manifatturiere precedenti dovrebbe spiegareperché lo sviluppo si verifichi oltre Manica e non nelle Fiandre o in Italia. Chi infine collega lo sviluppo all'«accumulazione primitiva», cioè ad un processo lungo di accumulo commerciale di ricchezza, deve poi constatare che, storicamente, fruttifica solo l'«accumulazione originaria» inglese e non quella degli altri Paesi. Il fenomeno sfugge ad ogni semplificazione. Prendiamo due argomenti classici: il tema della nuova tecnologia e dei capitali d'avviamento. Lo sviluppo della tecnologia è fenomeno che va collocato nel proprio contesto. «Le invenzioni compaiono in ogni fase della storia umana - osserva Ashton - ma è raro che fioriscano in una comunità di semplici contadini o di puri manovali»: sembrano in diretta relazione con il grado di complessità della struttura sociale. Esperienze manifatturiere precedenti?
Il rapporto tecnologia-società rimanda, a sua volta, alla dinamica fra domanda e offerta. «L'introduzione di una nuova tecnica, anche alquanto costosa - nota Bairoch - si rivela possibile e redditizia a partire da un certo livello della domanda». La macchina filatrice del lino, messa a punto in Francia attorno al 1810, non ha inizialmente alcun successo in patria. Poi sbarca in GB, dove invece viene ampiamente utilizzata, e da qui ritorna oltre Manica solo dopo il 1840, quando il consumo francese di lino è cresciuto ed è necessario incrementare la produttività. Non diversamente, la tecnologia cotoniera nel ‘700/800 sembra procedere a sbalzi, rispondendo alle strozzature produttive che si creano fra lo stadio della filatura e quello della tessitura: la filatrice idraulica di Arkwright (1769), ad esempio, nasce in un momento di forte domanda di filati da parte della tessitura. Lo sviluppo a balzi della tecnologia
Sono “lunghi periodi di domanda crescente” (Bairoch) a determinare i progressi del macchinismo e interessi specifici a spiegare l'applicazione industriale delle nuovi conoscenze oppure il loro mancato utilizzo. Nel 1878 l'inglese Thomas mette a punto un forno che permette di ottenere acciaio depurato dal fosforo, risolvendo il problema dello scarso utilizzo del minerale ferroso della Ruhr, ad alto contenuto di fosforo. La sua invenzione agevolò il successivo sviluppo della potenza siderurgica tedesca. «Fu assediato dalle offerte: non lo lasciavano neppure far colazione in pace. I rappresentanti di due delle principali ditte siderurgiche tedesche si impegnarono per raggiungerlo in una sorta di gara alla Phileas Fogg, vinta da quello dei due che non si fermò a dormire». (Landes) Lunghi periodi di domanda crescente
Le innovazioni che si registrano nella GB della I R.I. devono non poco alle caratteristiche generali di quella società: meno gerarchica delle società continentali, con redditi più perequati, con una «onorevole» tradizione di manualità artigiana. In GB numerosi fattori finiscono per determinare una diffusa disponibilità all'adozione delle nuove tecniche. Il costo del lavoro relativamente alto stimola a sostituire il vecchio artigiano, con processi parzialmente automatici. D'altronde la struttura relativamente aperta della società inglese sembra aver stimolato settori artigiani o di ceto medio a tentar la fortuna con le nuove tecnologie. Invece, la Francia, con l’abbondanza demografica e livelli inferiori di reddito, avrà una minore propensione all'aggiornamento tecnologico. La disponibilità all'adozione delle nuove tecniche
Colpisce il fatto che la maggior parte dei creatori delle prime macchine tessili provenisse dalla classe media. John Kay era figlio di un «substantial yeomen», ossia di un piccolo proprietario facoltoso. Le origini di John Wyatt sono incerte: ma aveva frequentato la scuola secondaria, e probabilmente apparteneva al tipo di famiglia che considerava l'istruzione desiderabile. Edmund Cartwright era figlio di un gentiluomo e si era laureato a Oxford. “Non era disdicevole, nel XVIII secolo, che i rampolli di buona famiglia fossero mandati come apprendisti presso tessitori o falegnami; il lavoro e l'abilità manuale non erano stigmate del popolano in contrapposto al borghese”. (Landes) Una «onorevole» tradizione di manualità artigiana
Inoltre, come ha rilevato Ashton “le invenzioni sorgono più facilmente in una collettività che faccia gran conto dei valori intellettuali”. La tecnologia inglese nasce dunque dalla tradizione scientifica cinque-settecentesca, sul terreno delle ideologie di matrice protestante e delle sette dissenzienti? La tesi è controversa. Quel che è certo è il nesso che lega il livello intellettuale e scientifico d’un Paese al suo quadro sociale, economico e politico. Il nesso tra livello intellettuale e scientifico e quadro sociale, economico, politico
Il grosso sviluppo della ricerca scientifica nelle regioni industrializzate, fra il tardo ‘800 e i giorni nostri, spesso risulta patrocinato in modo diretto dai gruppi del potere economico. Nel Secondo Reich fioriscono le accademie industriali e i politecnici, gli uffici di progettazione industriale, i laboratori aziendali di ricerca. Gruppi tecnico-scientifici lavorano alla Krupp dal 1862, alla Siemens & Halske dal 1872, alla Bayer dal 1891. Tecnologia e ricerca scientifica, al di là del modello inglese relativamente spontaneo, trovano forme organizzate ed istituzionali. Ci pensa anche lo Stato, oltre che l'impresa privata. Sono i tecnici e i laureati che vengono fuori dalla francese École Polytechnique o dal Gewerbe Institut di Berlino. L'epoca dell'inventore dilettante insomma non dura molto. Il rapporto tra ricerca scientifica- tecnologica e potere economico
Un altro tema è quello dei capitali d'avviamento. Non è lo stesso che dire «accumulazione originaria», formula marxiana che intende il processo plurisecolare d'arricchimento dell'Occidente ai danni delle colonie e, dentro l'Occidente, di una nascente borghesia ai danni delle classi subalterne (anzitutto i contadini). La questione che ci interessa riguarda piuttosto la quantità e la provenienza dei capitali necessari per avviare l'industrializzazione. L'interpretazione storiografica corrente rileva che, al riguardo, è necessario uno spostamento di parte del reddito nazionale dai consumi agli investimenti produttivi. Ma in che misura? E con quali conseguenze sociali? I capitali d'avviamento
In GB, a fine ’700, i costi d'impianto sono molto bassi. Le prime macchine, per quanto apparissero complicate ai contemporanei, erano nondimeno modesti e rudimentali congegni di legno, che si potevano costruire con una spesa sorprendentemente esigua. Una primitiva macchina per filare (jenny, o giannetta) a 40 fusi poteva costare nel 1792, 6 sterline; le macchina per la I e la II carda costavano una sterlina per ogni pollice di larghezza del rullo. E questi erano i prezzi delle macchine nuove: spesso attrezzi analoghi venivano offerti di seconda mano più a buon mercato. (Landes) I soli investimenti fissi realmente costosi in questo periodo erano quelli per gli edifici e per la forza motrice. Ma la maggior parte delle cosiddette fabbriche non erano che botteghe un po' ingrandite: ognuna poteva contenere 12 operai o anche meno. I bassi costi d'impianto
Al basso costo della prima industrializzazione corrisponde la possibilità che si apre a vasti strati sociali di accedere alla condizione d'imprenditore. La prima borghesia di fabbrica ha estrazioni eterogenee: proviene dal commercio e dall'agricoltura, dall'aristocrazia e dalla piccola borghesia, dall'artigianato e perfino dagli strati del lavoro a domicilio. Tuttavia, la «democratica» industrializzazione della GB, si rivela un'eccezione e, del resto, nella stessa GB, con il passare del tempo, i nuovi imprenditori verranno progressivamente passati al setaccio di una dura selezione: l'andamento ciclico dell'economia, con le sue ricorrenti crisi, ne sfoltirà il numero, tagliando senza molti complimenti i rami secchi. E sul continente? Anche in Germania, la prima borghesia industriale comprende «maestri artigiani o apprendisti, mercanti, bottegai o appaltatori, tecnici o figli di un maestro di bottega». Estrazione sociale eterogenea dell'imprenditore
Poi, nel secondo Ottocento, le cose cambieranno: concentrazioni orizzontali e verticali, finanziarie e produttive, accordi di mercato e una nuova costosissima tecnologia renderanno estremamente elitario il gruppo degli industriali. «All'inizio della guerra, due delle principali imprese, la Krupp e la Gelsrnkirchener Bergwerks AG, contavano un capitale azionario di 180 milioni di marchi per ciascuna e davano lavoro rispettivamente a 80.000 e 30.000 dipendenti». Viene meno il carattere familiare delle prime industrie. Si diffondono le società per azioni. Le banche intervengono largamente a finanziare le imprese. L'élite economica diventa un gruppo chiuso, restio ad ogni intrusione, una categoria che si autorecluta. Il fenomeno non è solo tedesco. Il gruppo elitario degli industriali nel secondo Ottocento
L'aumento di scala delleimprese, fra la I e la II industrializzazione, la crescita vertiginosa dei capitali necessari per l'avviamento diunità produttive, la tecnologia progressivamente più complessa cambiano il volto delle borghesie occidentali. Il tragitto sta tutto in due cifre: attorno al 1810, in Inghilterra, per creare un posto di lavoro occorre un investimento pari a4 mesi di salario (nel settore tessile); nel 1950 circa, ilcapitale richiesto equivale a oltre trenta mesi di salario". La mutata qualità della struttura produttiva, le nuove figure imprenditoriali provocheranno modifiche nel rapporto fra economia e società: si pensi all'importanza politica assunta dal big business e alla sua capacità di influenzare indirettamente o direttamente i governi, nell'Europa dell'età dell'imperialismo. La crescita vertiginosa dei capitali d’avviamento