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LICEO STATALE “G. BERTO”. Venerdì 20 MAGGIO 2011. SEZIONE PROSA SEZIONE POESIA. SEZIONE PROSA. SEGNALATO MANFREDI ZANIN 2BC Liceo Statale “G.Berto” Mogliano Veneto (TV) “Il dovere”. TERZO PREMIO LAURA FRANZA IV C Liceo Scientifico “G.Berto” Vibo Valentia (VV)
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LICEO STATALE “G. BERTO” Venerdì 20 MAGGIO 2011
SEZIONE PROSA SEZIONE POESIA
SEGNALATO MANFREDI ZANIN 2BC Liceo Statale “G.Berto” Mogliano Veneto (TV) “Il dovere”
TERZO PREMIO LAURA FRANZA IV C Liceo Scientifico “G.Berto” Vibo Valentia (VV) “Viaggio all’infero”
Viaggio all’inferno La città era silenziosa. La luna, immobile, rischiarava il cielo scuro di febbraio, un vento freddo e insinuante spazzava le strade ricoperte di spazzatura. Grossi ratti zampettavano felici da un cumulo d’immondizia all’altro, incuranti delle rare auto che attraversavano il deserto cittadino. Virgilio e Ipazia attraversavano silenziosamente il paesaggio desolato. Di tanto in tanto si fermavano ad osservare qualcosa: un manifesto, un animale. Ipazia era inquieta ed eccitata: voleva sapere, voleva che Virgilio le spiegasse tutto. Egli era distante, invece, camminava soprappensiero ed Ipazia era costretta a rincorrerlo, perché il poeta non si fermava ad osservare, proseguiva incurante. Si chiedeva Virgilio, ma non osava chiederlo, cosa dovesse fare. Lui e Ipazia vagavano ormai da ore, presto il sole avrebbe fatto capolino, ma non riusciva a decidersi. - Virgilio? Sobbalzò. Ipazia era davanti a lui e lo guardava. – Virgilio? - Dimmi – Cercò di non essere brusco con lei, nonostante non riuscisse più a sopportare le sue domande continue, alle quali spesso non sapeva rispondere. - Cos’è una velina? Egli inarcò un sopracciglio. – È un tipo di carta, credo.
- E come si fa a diventare un pezzo di carta? - Che vuoi dire? - Leggi qua: “Vuoi diventare una velina?” Virgilio lesse, poi scrollò le spalle. – Non saprei. Ipazia non parlò, limitandosi a guardarlo. - Non hai idea di cosa dovremmo fare – disse infine. Virgilio non rispose. - Forse ci conviene tornare indietro. Ancora, Virgilio non parlò. - Magari qualcun’altro riuscirebbe... - Perché non stai zitta? Ipazia si morse il labbro. Continuarono a camminare per un po’, senza parlare. Poi Virgilio si fermò.– Mi è venuta un’idea.
Emanuele Alighieri si rigirava nel letto, senza riuscire a trovare pace. Aveva passato tutta la serata a cercare scrivere qualcosa, ma non ci era riuscito. Tutte le sue idee gli sembravano banali, rozze e comunque, si sentiva incapace di scrivere come si deve. Continuava a chiedersi se fosse il caso di proseguire con quella follia. Forse, semplicemente, non era quello che avrebbe dovuto fare, forse avrebbe dovuto dedicarsi ad altro. Il pendolo nel soggiorno suonò le tre, tanto valeva alzarsi. Si stiracchiò e si mise seduto sul letto, aprendo gli occhi gonfi di sonno. Per un attimo si chiese se non stesse ancora dormendo: lì, nella sua camera, tra le sue cose, c’erano due persone in piedi, accanto alla porta. Saltò fuori dal letto, fissandoli con gli occhi sbarrati. – Chi... chi... chi siete? - Non preoccuparti – disse l’ombra alla sua destra. Aveva una voce dolce, suadente, doveva essere una donna, una ragazza. - Chi siete? – chiese di nuovo. - Non omo, omo già fui, / e li parenti miei furon lombardi / mantovani per patria ambedui. / Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, / e vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto / ai tempi de li dei falsi e bugiardi. / Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d’Anchise che venne da Troia, / poi che il superbo Iliòn fu combusto. - Eh? Le due ombre si guardarono. - Lui è Virgilio, io sono Ipazia e siamo qui per portarti all’Inferno.
Emanuele Alighieri sbarrò gli occhi, urlò e svenne. - Dici che è morto? - Non penso – Ipazia toccò con la punta del piede il braccio di Alighieri, steso per terra. - Forse non era lui che dovevamo scegliere – Virgilio si torceva nervosamente le mani. - Noi abbiamo fatto quello che abbiamo potuto. - Lo so, ma loro ci hanno detto di scegliere tra i nomi, noi, invece, ci siamo limitati a prendere il primo che ci è capitato e... - Il tempo era limitato, non potevano pretendere che in una notte vagliassimo ogni candidato! Per una cosa del genere ci voleva qualcuno delle “Alte Sfere”. - Immagino di sì... - Insomma, l’ultima volta se la sono vista loro, no? - Sì, però i tempi sono cambiati, altro a cui pensare... Ipazia non poté replicare, Alighieri si era svegliato. Aprì gli occhi e si guardò attorno. Saltò su, non appena si accorse degli scarafaggi che gli correvano addosso e si mise a strillare. Ipazia e Virgilio si guardarono sconsolati.
- Dove sono? - Sei all’Inferno. - Cosa? - Sei all’Inferno. - E perché? O Dio, sono morto?! – lacrime copiose iniziarono a rigargli il viso. - Sei vivo, non ti preoccupare, solo non nominare “Colui che in su stace”. - E chi è? - Lascia stare. - Ma perché sono qui? - Tu sei qui – tuonò Virgilio – perché sei stato scelto per raccontare di questo nuovo cerchio infernale. - State scherzando! – Alighieri si mise a ridere – Ho capito! Ma ce siete scemi! Antonio, tu sei, ah? Ipazia e Virgilio rimasero immobili e non si ritrassero, quando Alighieri cercò di abbracciarli. Ci provò tre volte, senza riuscirci. Smise di ridere.
-Voi non... Siete fantasmi! Siete fantasmi! - È un genio, questo qui – disse Ipazia, voltandosi verso Virgilio. - Ma allora è vero... Devo... - Tu sei stato scelto per raccontare di questo nuovo cerchio. Ai tempi di Dante non esisteva, ma adesso le cose sono cambiate. - Ma in che cerchio siamo? - Siamo nel cerchio degli spreconi. - Tipo quello degli scialacquatori? - Peggio, peggio: qui ci sono tutti coloro che in vita sprecarono le risorse che la Natura diede loro, mentre altri pativano. Qui c’è chi buttava via il cibo intatto, che avrebbe potuto donare a chi ne aveva bisogna; qui c’è chi, incurante delle pene altrui, spendeva per cose inutili; qui c’è chi pensava che l’intero Universo fosse al suo servizio. Guarda cosa aspetta questi peccatori! Tutto attorno a loro un’immensa distesa di rifiuti, uomini e donne scorazzavano, mangiando gli immondi resti. Ratti e scarafaggi li mordevano, dilaniandone le carni. Alighieri guardava, gli occhi fissi, pallido e sudato. – Mi viene da vomitare – sussurrò.
Un uomo prese una donna per i capelli, dopo che lei gli aveva sottratto una carcassa di cane; e iniziò percuoterla selvaggiamente. Altri iniziarono a picchiare la donna, la fecero a pezzi, a brandelli. O Dio – sussurrò Alighieri. Era troppo per lui e svenne. Una luce tenue e tremolante lo svegliò. Era sdraiato su una panchina del parco vicino a casa sua. Due signore che portavano a spasso i loro barboncini lo guardarono, arricciando il naso. Emanuele si mise seduto. Puzzava terribilmente, come se avesse passato la notte in discarica, a tuffarsi tra i rifiuti. Si alzò e andò a casa. Dopo essersi fatto una lunga doccia, si mise seduto al tavolo della cucina. “Erano appena scoccate le tre... ”Adesso sapeva cosa scrivere. Ipazia e Virgilio aspettavano con le altre anime che Caronte li traghettasse attraverso l’Acheronte. - Dici che farà quello che deve? - Vuoi dire se scriverà o meno di quello che ha visto? - Sì - Dubito che si lascerebbe scappare un’occasione del genere. - E pensi che servirà? - No. - Ah. Allora, forse, dovremmo trovare qualcuno più adatto... - Non servirebbe, le persone non cambiano per un po’ di letteratura. O credi che, dopo la Divina Commedia, nessuno abbia più peccato? - E allora che dovremmo fare? - Torniamo a casa. Lentamente, Caronte si avvicinò a riva.
SECONDO PREMIO AGUSTINA ZAKA 5B Liceo Statale “G.Berto” Mogliano Veneto (TV) “Immobile”
Immobile É già mattina. Mi sembra di aver dormito per così lungo tempo. Ma dove mi trovo? Questa stanza appare “diversa”. Non è come l'avevo lasciata. Subito la mia attenzione è attratta da un gigantesco quadro che occupa tutta la parete di fronte. È completamente tappezzato di foto. Mi alzo dal letto alienata incerta nei miei movimenti e mi avvicino lentamente alla parete. Più da vicino riesco a cogliere il soggetto di queste foto. Già, sono io. Ah, eccomi a cinque anni mentre gioco con papà a pallone! Sì, ero un vero maschiaccio. Mio padre ha vissuto i nove mesi della gravidanza di mamma nella convinzione che fossi un maschio. E anche quando le infermiere gli hanno mostrato il mio esile corpicino ha esitato a credere il contrario, anzi, era convinto che si trattasse di uno scherzo! Sarà per questo che mi ha cresciuta più come un figlio che come una figlia. E mia madre lo ha lasciato fare, forse perché vedeva quanto eravamo felici insieme.
Scorrendo con lo sguardo le foto, una mi colpisce in particolare: ho quattordici anni, sono nella fase adolescenziale. Mi ricordo di quanto ero persa per Marco, il mio migliore amico, questo era decisamente un problema! Infatti lui mi vedeva proprio come un suo amico, poteva condividere tutto con me. Parlavamo di qualsiasi cosa, non aveva paura a confidarsi, forse perché mi considerava in modo diverso rispetto alle altre ragazze. Durante Educazione fisica, quando la professoressa ci faceva fare esercizi in coppia, Marco sceglieva sempre me, non c'era imbarazzo tra noi, almeno fino a quando non ho iniziato ad avvertire il mio viso bruciare quando le sue mani si avvicinavano al mio corpo e una strana sensazione allo stomaco quando sentivo la sua voce chiamarmi. Il nostro rapporto stava cambiando ed era un cambiamento che non riuscivo ad affrontare. Quando mi parlava delle altre ragazze, una bufera di emozioni prendevano il sopravvento su di me. È come se all'improvviso percepissi il peso di ogni singolo grammo del mio corpo, e nel frattempo dovevo fare finta di nulla, sorridere quando avrei voluto sfogare la mia sofferenza in un fiume di lacrime. Era straziante.
È da allora che ho cominciato a diventare scontrosa, mi sono allontanata da mio padre, perché anche lui continuava a vedermi sempre e solo come un maschiaccio. Ma io ero lì, con questo corpo che cambiava, giorno dopo giorno, facendomi sentire completamente persa. Mi stavo chiudendo sempre più in me stessa e consideravo la mia vita come un dono sprecato. Come seduta in attesa in una stazione, guardavo tutto passarmi davanti e lentamente scomparire. É ancora una sensazione così viva! Strano, anche dopo un anno sento un dolore al petto quando ripenso a quei momenti. Ora ho quindici anni. Sì, ho quindici anni, non è vero? Certo, che domande mi faccio? Sono ancora una quindicenne, non posso essermi mica risvegliata dopo un sonno durato anni! Ritorno con la mente sulle foto e subito colgo un particolare che mi disorienta. Chi è quella ragazza bionda nelle foto successive? Ha un aspetto familiare. È buffo, potrei quasi dire che mi assomigli! Eccola, in quella foto è con mio padre. Lo sta abbracciando energicamente. E, se devo essere sincera, guardando attentamente i loro volti riesco a percepire la presenza di un profondo affetto.
È una strana impressione, forse gelosia. Non capisco come questa persona possa essere entrata a fare parte della vita di mio padre malgrado io ne si sempre rimasta all'oscuro, da chissà quanto tempo. Magari è la mia sorella maggiore rimasta nascosta per chissà quale motivo, per tutto questo tempo e adesso, stranamente, è ritornata tra noi! Forse la mia immaginazione si sta spingendo oltre. In quest'altra foto è con due ragazze. Sono sorprendentemente simili alle mie due amiche Elena ed Erika. C'è una strana espressione dipinta sui loro volti. Sono sempre stata un'abile interprete del linguaggio del corpo. È molto difficile mentirmi. Fin da piccola non mi si poteva nascondere nulla. Ricordo, come se fosse ieri, lo sguardo di mia madre quando sono tornata a casa, dopo una giornata di scuola. Avevo dieci anni e i suoi occhi dicevano chiaramente che il mio criceto Winny non c'era più. Sono corsa subito a controllare la sua gabbietta e, come sospettavo, era vuota. Certe espressioni, certe posture sono inconfondibili. E quelle tre ragazze custodiscono nei loro occhi un segreto . Deve trattarsi di qualcosa di straziante. Sono occhi tristi, svuotati.
Mi sento stravolta. La testa sta cominciando a pulsarmi forte. Decine e decine di foto e sempre lei, e mamma e papà sempre più invecchiati. Ieri non erano così, me li ricordo benissimo! Non capisco. Perché sono così addolorati? Eppure abbiamo trascorso tutta la giornata insieme in montagna e abbiamo parlato di mille cose, abbiamo riso e scherzato. Ci siamo abbracciati e ci siamo avvicinati come mai prima d'ora. E poi, mamma ha i capelli lunghi, ma in queste foto sono decisamente più corti. E papà, papà ha un'aria così dimessa, quasi non lo riconosco più. Dov'è andata a finire la sua vitalità? Deve essere successo qualcosa questa notte. Voglio vederli subito. Avverto un intenso bisogno di abbracciarli e di essere rassicurata. Mentre mi avvicino alla porta, una busta verde attira il mio sguardo. Sembra risalga a molti anni addietro. È indirizzata a me, c'è scritto “per Lia”. La apro. Attimi? Minuti? Ore? Anni? Non so quanto tempo sia passato da quando ho iniziato a leggere le parole dei miei genitori, ma ho sentito il mio corpo agghiacciare, il cuore perdersi nelle mie viscere, il pavimento sprofondare sotto i miei piedi.
Confusione, rabbia, apatia, dolore, odio. Non riesco a distinguere più nulla. Come in un libro lasciato a metà, la mia vita sembra essersi fermata. Sapete, ogni mio risveglio è così. Ogni maledetto giorno mi alzo, guardo la parete piena di foto, leggo la lettera dei miei genitori e scopro che dall'età di quindici anni il mio cervello ha rinunciato a memorizzare qualsiasi nuova informazione. La chiamano sindrome di Korsakoff , ossia perdita della memoria a breve termine. Le percentuali dicono che nella maggior parte dei casi è una malattia legata a una dipendenza alcolica, e che in assai meno numerosi casi è conseguente a un trauma cranico. Io rientro in quei rari casi. Non ho ricordi dell'incidente. È in questi istanti che comprendo l'espressione di sofferenza sul volto di papà. Eravamo sulla strada per andare ad assistere alla partita di calcio della nostra squadra del cuore, quando papà ha perso il controllo dell'auto. Sono bastati pochi secondi per sconvolgere la nostra vita. Senza la possibilità di un futuro, rimango bloccata in un eterno presente.
Non so più chi sono. Solo queste foto testimoniano il mio muto passaggio e i cambiamenti incomprensibili del mio corpo. Una furiosa curiosità mi spinge alla ricerca disperata di uno specchio per appurare quali siano le mie attuali fattezze. Davanti ai miei occhi vedo riflessa una donna, sopra i vent'anni, decisamente più alta di me. È attraente, ha un seno prosperoso, i suoi capelli sono lunghi e biondi. Nonostante questa sensualità, si percepisce in lei un'aria innocente, come se fosse ancora una bambina. Non ci sono termini adatti a descrivere le sfaccettature più estreme della psiche umana. Dentro di me si è verificata una dissociazione irrisolvibile. Non sono più in grado di associare l'immagine del mio corpo a Lia. Di anno in anno, tale distanza aumenta in modo esponenziale. Provo una rabbia incontrollabile. Quanti sogni e quanti progetti per un futuro che mi è stato strappato! Tutto scorre inesorabilmente, ed io, inerme, rimango immobile. La storia della mia vita come un libro interrotto, seguito da innumerevoli pagine bianche, che l'ispirazione di nessun grande scrittore può riempire. Eccomi, sono Lia e ho quindici anni, da chissà quanti anni.
PRIMO PREMIO GIOVANNI TONOLO V C Liceo Classico “Foscarini” Venezia (VE) “Arrotondamenti”
Arrotondamenti – Sì, sì…ho capito…quattro arrotondamenti alla settimana…sorteggiati dal Comando Generale…208 totali all’anno...sarà fatto…grazie Presidente…buon anno anche a Lei… buonasera…buonasera e auguri. – il nano-cellulare aderente all’orecchio destro si spense automaticamente. Era ormai un’anticaglia del 2131, ma il Luogotenente Kingston non riusciva a stare al passo coi tempi: le nuove tecnologie per lui erano troppo complicate e innovative. – I nuovi cellulari sono troppo piccoli; il mio forse è un po’ grande, ma ci sta in un orecchio e poi si sente bene. – ripeteva sempre agli amici. – Cosa voleva? – gli chiese la moglie con la falsa noncuranza con cui veniva a sapere di tutti gli affari di Kingston, luogotenente del Quebec col compito di dirigere gli arrotondamenti da svolgere nella regione di sua competenza.
– Niente…mi assegnava il numero di arrotondamenti per il prossimo anno. Purtroppo nella terra siamo troppi: mancano spazio e risorse. La grave crisi economica degli ultimi trent’anni e la guerra tra Stati Uniti, Cina e Russia per il controllo delle risorse africane, così necessarie, impediscono alle potenze di finanziare le migrazioni verso Marte, nelle sue regioni atmosferizzate, per liberare la terra. – – Quanti arrotondamenti? – – 208 annui, sorteggiati dal Comando Generale. – – Non ci lasciano trascorrere tranquillamente neppure questo 31 dicembre 2144. – – I bambini? – – Sono andati dai nonni. Dovrebbero essere qui a momenti. – Nell’attesa Kingston accese la televisione sulla parete del soggiorno: trasmettevano l’augurio di buon 2145 del Presidente.
Nonostante fosse il primo dell’anno la sveglia di Kingston suonò, al solito, alle sei e un quarto. Si preparò e fece colazione silenziosamente: per fortuna non aveva svegliato i figli. Solo la moglie lo accompagnò alla porta, ancora in camicia da notte: – Buon campeggio, Laure, a te e ai bambini. Il lago non dev’essere male nemmeno in questa stagione. Spero di raggiungervi per il week end. Fate buon viaggio. – Un bacio fugace e Kingston scese velocemente le scale fischiettando, allegro e fiero. Aprì il garage e montò nell’automobile di città: l’altra doveva lasciarla alla moglie. Mentre non amava le tecnologie, era un vero e proprio appassionato di automobili. L’automobile di città era piuttosto piccola e poco potente, l’aveva comprata usata ma, per i bambini, aveva aggiunto la televisione sulle pareti dell’abitacolo e, come tutte le altre, era guidata da un processore interno al quale veniva indicata la destinazione e che programmava anche il tragitto. In dieci minuti era già arrivato al parcheggio del Dipartimento: a quell’ora del primo gennaio le strade erano deserte. Era nella sua stanza cinque minuti prima delle sette; aveva giusto il tempo per farsi un caffè.
Premette il pulsante marrone alla destra della sua scrivania: sulla parete opposta si aprì una delle piastrelle digitali, dove veniva visualizzato il computer, e ne uscì un bicchierino di plastica fumante che si posò, senza spandere nulla, su un tappetino scorrevole largo 40 centimetri che seguiva le pareti. Il caffè giunse alla parete alle spalle di Kingston, il tappetino si fermò e la piastrella si richiuse. Il luogotenente bevve il caffè, premette un pulsante nero accanto a quello marrone e si aprì una piastrella ai suoi piedi: il cestino, dove gettò il bicchierino. Allo scoccare delle sette un allarme sonoro del computer sulle pareti segnalò l’arrivo della consueta mail del Comando Generale, che aveva sorteggiato gli arrotondamenti settimanali. Il luogotenente la aprì di malavoglia: – Come stabilito dall’articolo 213 del 19 settembre 2139 sugli arrotondamenti, gli obiettivi saranno colpiti con un lanciamine FKJ2138 mentre viaggiano in automobile, onde evitare che il cecchino veda o sappia chi ha colpito e che qualcuno degli arrotondamenti stabiliti sopravviva.
Come è noto, il processore interno delle automobili, connesso con i satelliti dei Servizi Segreti, ci invierà l’ora indicativa e il tragitto dell’automobile; mentre i microchip dell’automobile ci forniranno il numero dei passeggeri, ovvero dei futuri arrotondamenti. Vi invieremo questi dati. Infine spetterà a Voi scegliere i cecchini. Il processore del Comando Generale ha sorteggiato le automobili degli arrotondamenti del Quebec: oggi, se partirà, dovrete colpire l’auto QL4P1, che noi chiamiamo in codice e non con la targa sempre per l’articolo 213. Se non partirà, si rimanderà a domani: la settimana è lunga per i quattro arrotondamenti e, se dopo tre giorni non sarà ancora partita, si cambierà obiettivo. Con ossequio. In nome del Presidente, Peter Johnson. – lesse velocemente Kingston. – Che bestialità! Quanto è crudele il potente! – pensò Kingston. Nell’attesa dei dati non gli restava altro da fare se non guardare la posta e firmare ordini di servizio. Suonò nuovamente l’allarme sonoro, Kingston aprì l’aggiornamento del Comando Generale: – L’obiettivo è partito. Il luogo è Washington Street alle 11. Prossimamente l’orario sarà più preciso. Ci aspettiamo un buon lavoro. –
Kingston accese il microfono sulla scrivania per contattare la segretaria: – Anne? Mi mandi Jack. – Dopo pochi minuti Jack entrò. – Di te mi posso fidare, dopotutto sei un veterano di questo triste lavoro. – Kingston si interruppe un istante, sospirando – So che da te posso aspettarmi il massimo, anche in un giorno festivo come oggi. Come sempre ti piazzerai sul luogo stabilito e dal cellulare di servizio ti verranno forniti dati sempre più precisi, sia l’orario, sia, più tardi, a quanti metri è l’obiettivo, perché tu non possa sbagliare bersaglio. Ricorda: se sei in dubbio non sparare! Questo è tutto: tieni attivo e libero il cellulare di servizio e in questa busta troverai tutti i dati. – disse porgendogliela. Jack uscì dalla stanza e Kingston ne approfittò per chiamare la moglie e dirle che molto probabilmente l’avrebbe raggiunta prima, perché l’arrotondamento sarebbe stato eseguito quel giorno stesso. La moglie gli disse che erano partiti da una ventina di minuti e che tutto andava bene.
Terminata la telefonata Kingston sorrise e si immaginò a occhi chiusi tutta la strada sotto il sole per arrivare al campeggio del lago: la Central Street, la tangenziale, l’autostrada, la tangenziale del lago, la Panoramica che facevano sempre prima di arrivare alla Washington Street, sì, con tutti quei cipressi. Gli tornò in mente l’indirizzo dell’arrotondamento: Washington Street. Un brivido, soltanto un sospetto. Ma, in fondo, bastava controllare. Suo padre, ufficiale dei Servizi Segreti, gli aveva insegnato come penetrare, non proprio legalmente, nel computer del Comando Generale dove da ogni codice si poteva risalire alla targa. E così Kingston fece, scorrendo tutti i cataloghi fino a trovare il codice in causa. Ci cliccò sopra. E si dovette appoggiare alla scrivania sconvolto, per non cadere dalla sedia, quando vide apparire sulla parete del computer la targa dell’automobile della moglie. – Mi faccia venire Colin e in fretta! – disse alla segretaria. – Ma non Le ho già mandato Jack? – chiese la segretaria, senza però ricevere risposta. Colin entrò: – Cosa devo fare, signor luogotenente? – – La prenda. – gli disse Kingston, porgendogli una pistola che teneva nel cassetto della scrivania – Con questa deve uccidere il cecchino Jack. In questa busta ci sono il luogo dove lo troverà e l’ora. –
– Ma… – – Non ha bisogno di spiegazioni. Le bastano le parole: importante promozione e raccomandazione? Guardi, metto già tutto per iscritto. – scrisse qualcosa su un foglio senza pensarci e firmò. – Signorsì signore! – disse Colin, fiondandosi fuori raggiante. – Quanto è crudele il potente! – pensò ancora Kingston e fu colto da un tremore quando pensò che aveva commissionato il peggiore dei reati. Attese le 11 con crescente apprensione, poi, impaziente chiamò Colin: – Allora, tutto liscio? – – Signorsì, ho ucciso Jack. – Kingston tirò un sospiro di sollievo: avrebbe detto al Comando generale che il cecchino era stato incerto sull’obiettivo e che egli non era a conoscenza dell’omicidio e Colin non lo avrebbe tradito. – Pensi pure che ho notato la classica busta dei cecchini cadere dalla mano di Jack, così l’ho aperta e l’ho letta. Pensi che proprio in quel momento stava passando l’obiettivo. – il luogotenente tremò al sol pensiero di ciò che sarebbe dovuto succedere alla sua famiglia –
Allora ho imbracciato il lanciamine di Jack e ho svolto il compito che gli era stato assegnato: impossibile sbagliarsi, era l’unica auto che passava. Ora mi meriterei una promozione più importante, ma stia tranquillo, mi accontento di ciò che mi ha promesso. Va bene signore? Mi sente? – ma Kingston era già lontano, era montato disperato nella sua macchina e ne aveva spento il processore interno, commettendo così un altro reato. Si diresse a tutta velocità in cima al colle che sovrastava la città, piangendo e gridando dalla rabbia. In cima, diede un ultimo sguardo al sole che sorrideva crudele e con un colpo di acceleratore si lanciò nel vuoto, dove la neve c’era ancora.
SEGNALATO GIULIA BARONI 5C Liceo Statale “G.Berto” Mogliano Veneto (TV) “Autumn”
TERZO PREMIO ANNAMARIA VARSORI 3AS Istituto Statale “Marco Belli” Portogruaro (VE) “E sei ”
E sei E sei. Sei quel ritornello rock che naviga tra i pensieri la mattina. Quel ritmo che accompagna le dita mentre pettino un prato. E sei. E ti ho vissuto. Ho accarezzato il velluto di un cielo cobalto, invernale, Con i tuoi occhi-voragine. Si, sono profondi, ci sono io sul fondo. Eppure l'ho accarezzato il cielo.
Un ticchettio monotono di bomba ad orologeria. O cuore. E ho avuto un emorragia ai sentimenti, mi ha invaso la testa di profumo, e ho sentito sangue morbido sulla punta delle dita. E hai ricostruito trecce con ciocche di capelli tagliate al futuro. Ho visto una nuvola ridere. E ti ritrovi a pedalare nella notte, e non vedi, e gioisci vedendo un lampione acceso.
Un lampione che imita il sole. Ma funziona così, alzi le mani e buchi la notte dei sensi, e torni a far passare i raggi del sole. E come un fiore bevo luce. E come te sono vita.
SECONDO PREMIO ELIDIANO TRONCHIN 5B Liceo Statale “G.Berto” Mogliano Veneto (TV) “Poesie”
Poesia invernaleIl merlo Il merlo sta sotto la neve e il vento, ma con la voglia di vivere ancora dentro. Ecco, saltella qua e là: cerca cibo. Becca becca trova una bacca e spicca il volo, scomparendo tra la neve cadente.
Poesia estivaIl bruco americano Avanza il bruco imperterrito nel suo attacco, foglia dopo foglia invade e lega. Grida il gelso per l’occupazione: il grande lavoro distrutto dall’invasore d’oltremar.
Poesia autunnaleIl lombrico Scivola il lombrico sotto la foglia marcia, e con l’acqua purificatrice pulisce ogni traccia. Che mangi, mangi tutto e faccia sparire ogni prova, di quella che fu una grandiosa città colpita dalla storia.
PRIMO PREMIO GIORGIO STEFANI VA Liceo Scientifico “Da Vinci” Treviso (TV) “Call center”
Call center Non bastano e cerchi un lavoro: rimane soltanto tentare al Grande Palazzo di vetro. Ragazza gentile studiata cortese nei modi. Il colloquio è veloce: ti prendono. Le tue ore al telefono (postazione 20–18) piccola pausa pranzo e dieci minuti per bere il caffè.
A convincere i numeri che quello che offri con finte melliflue parole soddisfa le loro esigenze – inventate – ti prende una fitta nel cuore, dapprima leggera poi forte, che quasi ti manca il respiro. E il dolore cresce col tempo coi rapidi giri di frasi che impari a ripetere a vuoto. Ora bastano lavori nel Grande Palazzo di vetro ma piangi nel sonno e il rosso dell’alba al mattino ti sembra l’inferno.