500 likes | 819 Views
VOCI E FIGURE DI DONNA. NELLA POESIA DEL NOVECENTO.
E N D
VOCI E FIGURE DI DONNA NELLA POESIA DEL NOVECENTO
Guido Gozzano nasce a Torino nel 1883. Nel 1903 consegue la licenza liceale e si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, ma non giungerà mai a laurearsi. Nel 1904 compone La via del rifugio. La raccolta esce nel 1907 e ha un buon successo. Nello stesso anno si ammala di tubercolosi. Nel periodo della malattia compone i Colloqui, che vengono editi nel 1911. Un anno dopo, su consiglio dei medici, fa un viaggio in India e scrive le Lettere dall’India, pubblicate su “La Stampa”. Nel periodo della prima guerra mondiale Guido scrive alcune poesie in merito, anche se mediocri e generiche. Muore nel 1916 a Torino.
AD UN’ IGNOTA Tutto ignoro di te: nome, cognome, l’occhio, il sorriso, la parola, il gesto; e sapere non voglio, e non ho chiesto il color nemmen delle tue chiome. Ma so che vivi nel silenzio; come care ti sono le mie rime: questo ti fa sorella nel mio sogno mesto , o amica senza volto e senza nome. Fuori del sogno fatto di rimpianto forse non mai, non mai ci incontreremo, forse non ti vedrò, non mi vedrai. Ma più di quella che ci siede accanto cara è l’amica che non mai vedremo; supremo è il bene che non giunge mai.
Umberto Saba (Trieste 1883-Gorizia 1957). La sua poesia aderisce agli aspetti più umili della realtà autobiografica nella cornice familiare di Trieste; il suo stile è semplice e raffinato. Le sue liriche sono riunite nel Canzoniere (1921-1948; 1951-1961), nei volumi Mediterranee (1947) e Uccelli - Quasi un racconto (1951), le prose in Scorciatoie e raccontini (1946). Di grande utilità per la comprensione di Saba è Storia e cronistoria del Canzoniere (1948). Postumo è uscito il romanzo Ernesto (1975).
A MIA FIGLIA Mio tenero germoglio, che non amo perché sulla mia pianta sei rifiorita, ma perché sei tanto debole e amore ti ha concesso a me; o mia figliola, tu non sei dei sogni miei la speranza; e non più che per ogni altro germoglio è il mio amore per te. La mia vita, mia cara bambina, è l’erta solitaria, l’erta chiusa dal muricciolo, dove al tramonto solo siedo, a celati miei pensieri in vista. Se tu non vivi a quei pensieri in cima, pur nel tuo mondo li fai divagare; e mi piace da presso riguardare la tua conquista. Ti conquisti la casa a poco a poco, e il cuore della tua selvaggia mamma. Come la vedi, di gioia s’infiamma la tua guancia ed a lei corri dal gioco. Ti accoglie in grembo un sì bella e pia Mamma, e ti gode. E il vecchio amore oblia.
FEDRA Soffia una bora omicida. Domani cadrà la neve, imbiancherà le strade che salivano amiche alla tua casa in cima al colle, lontana. Tra i verdi pini l’immensa vallata ripete in foglie innumerevoli il colore che amavi sempre ai tuoi capelli. Fedra Eri; ancor sei. Più preziosa adesso Che si accende alla stufa il primo fuoco in rare case; la stagione è un poco nostra, nostro il paesaggio; il pensiero irraggia un ultimo vero; s’illude che il peggio - forse - è passato.
Dino Campana (1885-1932): Dino nacque il 20 agosto a Marradi, un fazzoletto di terra in provincia di Firenze, al confine con la Romagna. Il diritto di persona gli fu negato ben presto dall’incomprensione familiare, dall’educazione repressiva del collegio, da un vizio di poeta che non si adatta alle regole del mondo. Come poeta fu riconosciuto dopo l’internamento definitivo in manicomio, dopo la morte. La poesia si svolge in un "eterno presente", incapace di storicizzare la vita interiore, il Poeta, dal primo all’ultimo verso, rivela un’eguale grandezza e tensione
DONNA GENOVESE Tu mi portasti un po’ d’alga marina Nei tuoi capelli, ed un odor di vento, Che è corso di lontano e giunge grave D’ardore, era nel tuo corpo bronzino: -Oh la divina Semplicità delle tue forme snelle- Non amore non spasimo, un fantasma, Un ombra nella necessità che vaga Serena e ineluttabile per l’anima E la discioglie in gioia, in incanto serena Perché per l’infinito lo scirocco Se la possa portare. Come è piccolo il mondo e leggero nelle tue mani!
IN UN MOMENTO In un momento Sono sfiorite le rose I petali caduti Perché io non potevo dimenticare le rose Le cercavamo insieme Abbiamo trovato delle rose Erano le sue rose erano le mie rose Questo viaggio chiamavamo amore Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose Che brillavano un momento al sole del mattino Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi Le rose che non erano le nostre rose Le mie rose le sue rose p.s. E così dimenticammo le rose.
Giuseppe Ungaretti nasce il 10 febbraio 1888 ad Alessandria d’Egitto da genitori italiani. Vive un po’ di tempo a Parigi e poi partecipa alla guerra del 1915-18 come soldato semplice di fanteria. La vita di trincea, lo strazio per le creature morte e il senso della fraternità umana rappresentano per lui un’esperienza decisiva e gli permettono di scoprire le sue doti di uomo e scrittore. Morirà a Milano nella notte tra l’1 e il 2 giugno del 1970.
LA MADRE E il cuore quando d’un ultimo battito Avrà fatto cadere il muro d’ombra, Per condurmi, Madre, sino al Signore, Come una volta mi darai la mano. In ginocchio, decisa, sarai una statua davanti all’Eterno, Come già ti vedeva Quando eri ancora in vita. Alzerai tremante le vecchie braccia, Come quando spirasti Dicendo: Mio Dio, eccomi. E solo quando m’avrà perdonato, Ti verrà desiderio di guardarmi. Ricorderai d’avermi atteso tanto, E avrai negli occhi un rapido sospiro.
Eugenio Montale (Genova 1896 – Milano 1981) è stato uno dei protagonisti del novecento europeo. Montale si formò e visse le prime esperienze letterarie a Genova. Nel 1925 esce la sua prima raccolta di poesie: Ossi di Seppia. In seguito furono pubblicate Le occasioni (1939) dove trattò il tema dell’antifascismo e della guerra, La bufera (1956) in cui Montale fa i conti con la tragedia bellica, Satura (1971) e altre opere. Nominato senatore a vita nel 1967, fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1975.
REBECCA Ogni giorno di più mi scopro difettivo: manca il totale. Gli addendi sono a posto, ineccepibili, ma la somma? Rebecca abbeverava i suoi cammelli E anche se stessa. Io attendo alla penna e alla gamella Per me e per altri. Rebecca era assetata, io famelico, ma non saremo assolti. Non c’era molt’acqua nell’uadi, forse qualche pozzanghera, e nella mia cucina poca legna da ardere. Eppure abbiamo tentato per noi, per tutti, nel fumo, nel fango con qualche vivente bipede o anche quadrupede. O mansueta Rebecca che non ho mai incontrata! Appena una manciata di secoli ci dividono, un batter d’occhio per chi comprende la tua lezione. Solo il divino è totale nel sorso e nella briciola. Solo la morte lo vince se chiede l’intera porzione.
POESIE PER MOSCA Ascoltare era il solo tuo modo di vivere. Il conto del telefono s'è ridotto a ben poco. *** Non ho mai capito se io fossi il tuo cane fedele e incimurrito o tu lo fossi per me. Per gli altri no, eri un insetto miope smarrito nel blabla dell'alta società. Erano ingenui quei furbi e non sapevano di essere loro il tuo zimbello: di essere visti anche al buio e smascherati da un tuo senso infallibile, del tuo radar di pipistrello.
Lalla Romano nacque a Demonte ,in provincia di Cuneo nel 1906, si era laureata in letteratura romanza nel 1928 a Torino, dove come pittrice fu allieva di Casorati, insegnò e frequentò la Torino gobettiana , per trasferirsi poi a Milano. Si è espressa dapprima in poesia, incoraggiata da Eugenio Montale, per poi passare alla narrativa. Riservata, poco presenzialista, quasi schiva, la Romano fu dapprima conosciuta in un ambito ristretto di estimatori, amata e letta da una cerchia di ammiratori. E’ morta Martedì 26 Giugno 2001, all’ età di 95 anni ,a Milano, dove viveva.
IO NON TI CHIAMERO’ PIU’… Io non ti chiamero’ piu’: vita, ma ti daro’ un nome piu’ dolce. Se il silenzio è più intenso non solo d’ ogni rumore, ma ogni più alta musica; e la quiete è più vasta non solo delle tempeste, ma del respiro delle maree e dello stesso ritmo dei mondi; allora quel nome comprende assai più della vita.
Cesare Pavese, scrittore e poeta italiano (Santo Stefano Belbo, Cuneo 1908 - Torino 1950). Scrisse poesie, romanzi e saggi come: Lavorare stanca (1936), Paesi tuoi (1941), Feria d'agosto (1946), Il compagno (1947), Dialoghi con Leucò (1947), Prima che il gallo canti (1949), La bella estate (1949), La luna e i falò (1950), Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1951), Il mestiere di vivere. (1952). L'opera di P., anche dove più tende alla forma oggettiva del romanzo, è sempre legata alla sua vita intima. Mentre i primi racconti, anche per suggestione della narrativa americana, sono segnati da un realismo a volte crudo, la tendenza più profonda, chiaritasi nei libri della maturità, portò lo scrittore a interpretare la realtà secondo significati simbolici.
HAI UN SANGUE, UN RESPIROHai un sangue, un respiro. Sei fatta di carne di capelli di sguardi anche tu. Terra e piante, cielo di marzo, luce, vibrano e ti somigliano- il tuo riso e il tuo passo come acque che ti sussultano- la tua ruga fra gli occhi come nubi raccolte- il tuo tenero corpo una zolla del sole. Hai un sangue, un respiro. Vivi su questa terra. Ne conosci i sapori le stagioni i risvegli, hai giocato nel sole, hai parlato con noi.
Acqua chiara, virgulto primaverile, terra, germogliante silenzio, tu hai giocato bambina sotto un cielo diverso, ne hai gli occhi il silenzio, una nube, che sgorga come polla dal fondo. Ora ridi e sussulti sopra questo silenzio. Dolce frutto che vivi sotto il cielo chiaro, che respiri e vivi questa stagione, nel tuo chiuso silenzio è la tua forza.Come erba viva nell’aria rabbrividisci e ridi, ma tu, tu sei terra. Sei radice feroce. Sei la terra che aspetta.
DUE Uomo e donna si guardano supini sul letto: i due corpi si siedono grandi e spossati l’uomo è immobile , solo la donna respira più a lungo e ne palpita il molle costato. Le gambe distese sono scarne e nodose, nell’uomo. Il bisbigli della strada coperta di sole è alle imposte. l’aria pesa impalpabile nella grave penombra e raggela le gocciole di vivo sudore sulle labbra. Gli sguardi delle teste accostate sono uguali ,ma più non ritrovano i corpi come prima abbracciati. Si sfiorano appena. Muove un poco le labbra la donna ,che tace. Il respiro che gonfia il costato si ferma A uno sguardo più lungo dell’uomo. La donna volge il viso accostandogli la bocca alla bocca. Ma lo sguardo dell’uomo non muta nell’ombra. Gravi e immobili pesano gli occhi al tepore dell’alito che ravviva il sudore, desolati. La donna non muove il suo corpo molle e vivo. La bocca dell’uomo s’accosta. Ma l’immobile sguardo non muta nell’ombra.
Alfonso Gatto è nato a Salerno nel 1909. Nel 1938 fondò a Firenze con Vasco Pratolini la rivista "Campo di Marte" che diventò la voce del più avanzato ermetismo. Oltre che poeta fu anche scrittore e, in particolare, scrisse testi per l'infanzia. Negli ultimi anni della vita si dedicò alla critica d'arte. Morì a Orbetello (Grosseto) nel 1976, in un incidente stradale.
FORSE MI LASCERÀ DEL TUO BEL VOLTO Forse mi lascerà del tuo bel volto amore un soffio e la celeste sera disparirà come un silenzio intorno. Era la neve dolce del tuo passo e la città dai poveri cantieri spegneva al cielo umido l'azzurro riverbero dei muri. Mi parlavi sciolta dal busto come una fanciulla e lontana da te, quasi in un sogno, io ti vedevo scendere nel dolce sentiero della sera, aprire l'ombra. Una parola basta sul tuo cuore, e nessuno di te saprà mai dire il silenzio che imbianca del tuo soffio. Solo la notte, di cui passa eguale la luna nei miei sogni e ferma al cielo gli alberi, i colli e sui cipressi il vento. Nel suo tiepido oblio che l'oriente strugge di care lontananze ed ombre, io so che il giorno ti soccorre, vivi, e dimentichi i sogni e la mia voce. Mi resta solo del tuo bene l'aria, un passato di nulla, una parola.
Dorothy Livesay, nata a Winnipeg (Manitoba) nel 1909, si è laureate presso l’Università di Toronto. Ha frequentato la Sorbona di Parigi e negli anni ’30 si è dedicata ad un’intensa attività sociale e politica fino a diventare, tra il 1960 e il 1963, insegnante di inglese in Zambia per conto dell’Unesco. Successivamente ha insegnato presso varie università canadesi e ha pubblicato numerosi volumi di versi, tra i quali ricordiamoDay And Night (1944) e Poems for People (1947) con cui ha vinto anche importanti premi letterari. La sua produzione iniziale è influenzata dalla poesia della Dickinson e di Auden, ma in seguito precisa un proprio stile caratterizzato dall’attenzione per l’immagine fresca e diretta e il preciso controllo della metrica.
DIVERSITA’ 1 Gli uomini preferiscono un’isola Che è inizio e fine: Sottofondo d’onde Alberi ricurvi. Gli uomini preferiscono una strada Che si snoda in cerchi, come una conchiglia Convessa e fossilizzata In spirali eterne. Gli uomini preferiscono una donna Tersa nel sole Tenuta come una conchiglia Nel riparo di un’isola… Gli uomini preferiscono un’isola 2 Ma io sono un continente, Spazio Dalle vette agli abissi: Dai campi di salvia, dalle fratte, dalle paludi Al fondo del mare.
Mostratemi un frutteto dove non abbia dormito, Una cavità dove non mi sia avvolta Nella salvia, e in alto, silenziose Stelle e grappoli Sul pino, sul colle dei cactus. Ditemi di un tempo In cui non abbia amato, Di una montagna non scalata: Di un campo Che non abbia solcato con la mia lingua, Nutrito con bui spazi della mente; Piantato con lacrime non versate E mietuto come amici, come volti. Mostratemi un vicolo cieco Che non abbia percorso, Un sentiero di bosco che allontana il cuore Nel segreto sempreverde delle radici dei cedri Oltre il più lontano raggio del sole- Allora, nell’improvviso sfolgorio d’una radura, Non c’è strada, né fine, né mistero. Ma non mostratemi nulla. Conosco Il paese che vagheggio: Un luogo dove non c’è possesso Né violazione: Un continente governato Dalla sua inaccessibilità.
Elsa Morante nacque a Roma nel 1912; cresciuta nel quartiere popolare Testaccio, vi è morta nel 1985 dopo aver tentato il suicidio nel 1983 aprendo i rubinetti del gas. Cominciò a pubblicare giovanissima delle cronache di costume su giornali e riviste ed esordì nel 1941 (anno in cui sposò A. Moravia) con i racconti Il gioco segreto. Si impose all’attenzione della critica con Menzogna e sortilegio, 1948, ottenendo un successo sempre rinnovato a ogni nuovo romanzo.
LETTERA Tutto quel che t’appartiene, o che da te proviene, è ricco d’una grazia favolosa: perfino i tuoi amanti, perfino le mie lagrime. L’invidia mia riveste d’incanti straordinari i miei rivali: essi vanno per vie negate ai mortali, hanno cuore sapiente, cortesia d’angeli. E le lagrime che mi fai piangere sono il mio bel diadema, se l’amara mia stagione s’adorna del tuo sorriso. Stupisco se ripenso che avevo tanti desideri E tanti voti da non sapere quali scegliere. Ormai, se cade una stella a mezzo agosto, se nel tramonto marino balena il raggio verde, se a cena ho una primizia nella stagione nuova, o m’inchino alla santa campana dell’Elevazione, non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome, o parola che m’apri la porta del paradiso.
Nel mio cuore vanesio, da che vi regni tu, le antiche leggi del mondo sono tutte rovesciate: l’orgoglio si compiace d’umiliarsi a te, la vanità si nasconde davanti alla tua gloria, la voglia si tramuta in timido pudore, la mia sconfitta esulta della tua vittoria, la ricchezza è beata di farsi, per te, povera, E peccato e perdono, ansia e riposo, sbocciano in un fiore unico, una grande rosa doppia. Ma la frase celeste, che la mia mente ascolta, io ridirti non so, non c’è nota o parola. Ti dirò: tu sei tutto il mio bene, ad ogni ora Questa grazia d’amarti m’è dolce compagnia. Potesse il mio affetto consolarti come mi consola, o tu che sei la sola confidenza mia!
Mario Luzi (Firenze 1914), formatosi nell’ambiente di Siena e di Firenze, ha esordito presto, nel 1935, come poeta con il libretto La Barca. Dal 1938 si è dedicato all’attività di insegnante, pur continuando a collaborare con riviste culturali di punta. Tra le sue raccolte si possono segnalare Il giusto della vita(1960), Dal fondo delle campagne (1965), Nel magma (1966), Su fondamenti invisibili (1971). Ha lavorato anche come saggista e traduttore.
GIOVINETTA, GIOVINETTA Giovinetta, giovinetta per le scogliose vie di Firenze disperse in un etereo continente i venti s’avvicendano e i tuoi passi al colmo traboccano nell’assente; gli adolescenti nel silenzio delle strade ricercano i tuoi passi dispersi, l’ombra, gli sguardi lenti caduti dalle tue ciglia sulle livide pietre dei crepuscoli: risfiorando le porte e i davanzali la tua forma mortale si ripete in altri corpi in altre odorate carezze, e sulla terra dovunque la triste realtà d’una fanciulla.
GIOVINETTE Voi siete la tepida figura del nostro dolore, sulla terra dolce d’alimenti al vostro tenue rossore voi passate col sorriso che ci opprime. Ritornano le prime ali ai confini del cielo, la sera spande la triste calma dei giardini e muto il tempo si avvolge intorno alla vostra bellezza. Ma invano, perché la vostra carezza arde profonda ed ignota, e in voi senza limiti il cielo si riposa della sua eternità come una foglia. E nelle vostre calde mani odora tutta la fuggevole corona delle nostre passioni, mentre ognuna porta il dolore della giovinezza.
Franco Fortini è nato il 10 settembre 1917 a Firenze. Qui ha compiuto gli studi, laureandosi dapprima in Giurisprudenza e poi in Lettere ed entrando in contatto sia con i protagonisti della stagione dell'Ermetismo, sia con gli intellettuali che prima della guerra hanno fatto la storia della cultura italiana, da Montale a Noventa e Vittorini. Richiamato alle armi nel 1941,dopo aver partecipato alla Resistenza in Valdossola ed essere emigrato in Svizzera, con la fine della guerra si è stabilito a Milano, diventando redattore del "Politecnico". Nel 1985 gli è stato conferito il premio Montale-Guggenheim per la poesia. È morto a Milano nel novembre del 1994.
ALLA STAZIONE DI MINSK Perchè cosi felice quella giovane donna bruna e così a lungo mi sorrideva? I fiori della veste di cotone battevano nel vento che la portava via. Stavano i nuvoli sugli alberi bianchi. I capelli le correvano la fronte. Voleva che non la dimenticassi mai più, che per sempre vedessi in lei l'idea di lei, e i suoi boschi che vincono ogni pace? Ma al di là delle erbe, dove la foresta e le acque hanno sepolto...
L'irta, la nera Europa la sua ombra sublime allunga fino a me: e mi fa orrore. Entro quell'ombra dormono tutti i miei anni come abbiamo dormito soldati sfiniti nelle nottate delle sue guerre. Sorride perchè io viva la vera creatura che era. O da sempre conosciuta libertà spino di marzo dunque non m'hai lasciato.
PER ROSSANA R. In questo tempo che divaga in questo tempo che ci allaga di malgrado e di sebbene a me la Rossana va bene Collettivisti a tutta paga di cooperative dabbene e voi marxisti del pliocene assopiti alla vecchia saga professori di controscene aiuto-carristi di Praga soviettisti delle catene letterati di gaie cene italiani di mente vaga a me la Rossana va bene Gente, la rima non ripaga corta è la vita lunga la piaga. Finchè un’ora più vera non viene la Rossana a me va bene.
Anne Sexton (1928-1974) è stata la più scandalosa ed eversiva tra le madri fondatrici della "specie" culturale delle poetesse contemporanee. Love poems è il libro con il quale approdò alla maturità stilistica e tematica che ha dato alla letteratura anglo-americana la sua prima eroina del sesso senza inibizioni, e in una prospettiva imperdonabilmente femminile, con passione e sarcasmo, fervore e furore, sensualità e beffarda ironia.
SCALZA Amarmi senza scarpeVuol dire amare le mie lunghe gambe brune,dolci e care, buone come cucchiaie i miei piedi, due bambiniliberi di giocare nudi. Nodose sporgenzei miei diti, non più costretti- e in più guarda le unghie e le prensili giunture di giunturecome i dieci passi mettono radici -irrequieti e selvaggi: questoquesto l'ammazzo, questo lo cucinò.Lunghe gambe brune e lunghe brune dita.Più su, caro, la donnaRievoca segreti, casine,piccole lingue che narrano per te.
Siamo soli noi dueIn questa casa su una lingua di terra.Ha un campanellino nell'ombelico il mare,ed io sono la tua scalza puttanellaper una settimana. Gradiresti del salame?No. Non ti va proprio uno scotch?No. Non bevi molto tu bevi Me. I gabbiani uccidono pesciStrillando come bimbi di tre anni.Il ritmo delle onde è una drogaE tutta notte invocaSono, sono, sono. Scalza,ti tamburello la schiena su e giù.Corro da porta a porta la mattina,nella capanna giochiamo a nascondino.Ora mi afferri le caviglie,ti fai strada fra le gambee vieni a trapassarmi nel punto della fame.
PER L’ANNO DI FOLLI [….] O Maria, apri e tu palpebre, io sono nel dominio del silenzio, nel regno della pazzia e del sonno. C’è sangue qui Ed io l’ho mangiato. O madre del grembo, sono venuta soltanto per il sangue? O piccola madre Sono dentro i miei pensieri. Sono rinchiusa nella casa sbagliata.
Alda Merini nasce a Milano il 21 marzo 1931 in una famiglia tranquilla, esordisce con il volume di poesie La presenza di Orfeo. Dopo dieci anni di internamento in manicomio e un lungo periodo di silenzio scrive altre opere molte delle quali rifiutate da alcune case editrici.
CHE INSOSTENIBILE CHIAROSCURO… Che insostenibile chiaroscuro, mutevole concetto di ogni giorno, parola d’ordine che dice: non vengo e ti lascio morire poco a poco. Perché questa lentezza del caos? Perché il verbo non mi avvicina? Perché non mangio i frammenti di ieri Come se fosse un futuro d’amore?
Sylvia Plath, nata a Boston, nel 1932, rivelò ben presto la sua predisposizione alla poesia. Una borsa di studio la portò in Inghilterra e a Cambridge dove conobbe e sposò il poeta Ted Hughes, con cui ebbe due figli. Nel 1962 si separò dal marito ed un anno dopo si suicidò.
ULTIME PAROLE Non voglio una cassa qualunque, voglio un sarcofago Con striature di tigre e una faccia dipinta Tonda come la luna, con gli occhi sgranati in su. Voglio sembrare che li guardo quando verranno A scavarmi fra ottusi minerali e radici. Già li vedo- pallide facce, a una distanza astrale. Adesso non sono nulla, non sono nemmeno in fasce. Li penso senza né padri né madri, come gli dei primigeni. Si domanderanno se io sia stata importante. Dovrei come frutta candire e conservare i miei giorni! Il mio specchi si appanna –
Ancora qualche fiato e non specchierà più niente del tutto. I fiori e le facce si sbiancano come un lenzuolo. Dello spirituale non mi fido. Sguscia via come vapore Nei sogni per le fessure della bocca o degli occhi. Non posso Fermarlo né mai tornerà. Ma non così le cose. Loro restano, con quel brillio particolare, Da tante mani scaldato, con un brusio di piacere. Se avrò freddo alle piante dei piedi, Mi consolerà l’occhio azzurro del mio turchese. Siano con me le casseruole di rame, i miei vai di coccio, Mi fioriscano intorno notturni fiori, dal buon profumo. Mi avvolgeranno nelle bende, deporranno il mio cuore Sotto i miei piedi in un bel pacchettino. Non mi riconoscerò quasi. Sarà tutto buio, Ma ci sarà il fulgore di questi piccoli oggetti più dolce che il viso di Ishtar.
Biancamaria Frabotta è nata a Roma nel 1946. Qui vive insegnando Letteratura italiana all’Università La Sapienza. Ha pubblicato opere narrative, teatrali, saggistiche e le seguenti raccolte di poesia: Il rumore bianco (1982), Appunti di volo e altre poesie (1985), Controcanto al chiuso (1991), La viandanza (1995), High tide (1998) e Terra contigua (1999).
LA TESTA LEGGERA Mio marito ha un cuore generoso come quel dio che dona il primo verso. La notte a sé non tira le coperte sul petto non mi pungono i suoi peli e al risveglio vorrebbe unirsi al coro anonimo che sole e fame assillano. Mio marito diffida delle ore oscure e al suo cospetto io mi vergogno. E anche di vergognarmi mi vergogno. Mio marito diffida delle cose oscure. Così, per amor suo, io cambierò stile e per lui terrò in serbo cose chiare. ***
Quasi che il sonno ,l’uno all’altra li rapisse ,nel buio intrecciano le dita si sfiorano con la punta del piede e pensano- gli estremi si toccano nel cuore della notte Uno dei due già sogna anche per l’altro. Incline più al contagio che al presagio s’addormenta l’amore coniugale mano nella mano, la vita cinta come per una danza mentre l’altra vita preme ai cancelli del rimosso e li piega. Entrambi sul fianco sinistro. L’alba li sveglia un poco più fratelli.