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La luce è un fenomeno corpuscolare od ondulatorio? 1) Teoria Corpuscolare.
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La luce è un fenomeno corpuscolare od ondulatorio?1) Teoria Corpuscolare Isaac Newton all’iniziodel 18° secolo supponeva che la luce fosse composta da piccole particelle di materia (corpuscoli) emesse in tutte le direzioni. Questa teoria spiegava facilmente alcune caratteristiche della propagazione della luce che erano ben note alla sua epoca. La meccanica classica prevedeva, correttamente, che le particelle (inclusi i corpuscoli di luce) si propagassero in linea retta e la loro leggerezza era coerente con una velocità alta ma non infinita. Anche la riflessione poteva essere spiegata in maniera semplice tramite l‘urto elastico della particella di luce sulla superficie riflettente. La spiegazione della rifrazione era più complicata: si supponeva che le particelle incidenti sul materiale rifrangente subissero, ad opera di questo, delle forze perpendi-colari alla superficie che ne cambiassero la traiettoria. I colori dell'arcobaleno venivano spiegati tramite l'introduzione di un gran numero di corpuscoli di luce diversi (uno per ogni colore) ed il bianco era pensato come formato da tante di queste particelle. La separazione dei colori ad opera, ad esempio, di un prisma poneva qualche problema teorico in più perché le particelle di luce dovrebbero avere proprietà identiche nel vuoto ma diverse all'interno della materia. Una conseguenza della teoria corpuscolare della luce è che questa, per via della forza di gravità aumenti la sua velocità quando si propaga all'interno di un mezzo.
La luce è un fenomeno corpuscolare od ondulatorio?2) Teoria Ondulatoria Formulata da Christaan Huygens nel 1678 e pubblicata nel1690 nel Traité de la Lumière. La luce veniva vista come un‘onda che si propaga, come le onde marine od acustiche in un mezzo, chiamato etere che si supponeva pervadere tutto l'universo ed essere formato da microscopiche particelle elastiche. La teoria ondulatoria della luce permetteva di spiegare (anche se in maniera matematicamente complessa) un gran numero di fenomeni: oltre alla riflessione ed alla rifrazione, Huygens riuscì infatti a spiegare anche il fenomeno della birifrangenza nei cristalli di calcite. Nel 1801 Thomas Young dimostrò come i fenomeni della diffrazione e dell‘ interferenza fossero interamente spiegabili dalla teoria ondulatoria e non lo fossero dalla teoria corpuscolare. Agli stessi risultati arrivò Augustin Jean Fresnel nel 1815. Nel 1814 Joseph Von Fraunhofer fu il primo ad investigare seriamente sulle righe di assorbimento nello spettro solare, che vennero esaurientemente spiegate da Kirchoff e Bunsen nel 1859, con l'invenzione dello spettroscopio. Le righe sono ancora oggi chiamate lineee di Fraunhofer in suo onore. Un problema della teoria ondulatoria era la propagazione rettilinea della luce. Infatti era ben noto che le onde sono capaci di aggirare gliostacoli mentre è esperienza comune che la luce si propaghi in linea retta. Questa apparente incongruenza può però essere spiegata assumendo che la luce abbia una lunghezza d’onda microscopica. Al contrario della teoria corpuscolare, quella ondulatoria prevede che la luce si propaghi più lentamente all'interno di un mezzo che nel vuoto.
La luce è un fenomeno corpuscolare od ondulatorio?3) Teoria Elettromagnetica – Teoria Quantistica A partire dall'inizio dell'Ottocento il modello corpuscolare viene rapidamente abbandonato e si impone il modello ondulatorio. James Clerk Maxwell (1831-1879) elaborò la prima teoria moderna dell’ elettromagnetismo. Attraverso quattro equazioni, dette appunto equazioni di Maxwell, dimostrò che l'elettricità, il magnetismo e la luce sono tutte manifestazioni del medesimo fenomeno: il campo elettromagnetico. Secondo Maxwell il campo elettrico e quello magnetico si propagano attraverso lo spazio sotto forma di onde alla velocità costante della luce. Nel 1864 scrisse "A Dynamical Theory of the Electromagnetic Field" dove per la prima volta propose che la natura ondulatoria della luce fosse la causa dei fenomeni elettrici e magnetici. Tuttavia, egli rimase ancora legato alla teoria classica – ora abbandonata – della propagazione della luce attraverso l‘etere luminifero, un mezzo ineffabile e sfuggente ad ogni misurazione sperimentale che avrebbe permeato lo spazio vuoto. Verso la fine dell'Ottocento alcune esperienze su fenomeni relativi all'interazione tra radiazione elettromagnetica e costituenti elementari della materia forniscono dati difficilmente interpretabili nell'ambito della teoria di Maxwell (ad es. la distribuzione spettrale dell'energia elettromagnetica nel cosiddetto corpo nero, e l'effetto fotoelettrico). Nell’effetto fotoelettrico, le previsioni dell’elettromagnetismo classico sono in contraddizione con l'evidenza sperimentale. Infatti non si ha emissione di elettroni con luce di qualsiasi frequenza, e l'energia degli elettroni emessi non aumenta con l'intensità del fascio luminoso; al contrario, si osserva che al di sotto di una certa frequenza non si osserva alcun effetto, per quanto intenso sia il fascio, e che al di sopra della frequenza di soglia tutti gli elettroni vengono emessi con la stessa energia, e all'aumentare dell'intensità del fascio ciò che aumenta è il numero degli elettroni emessi. . Una spiegazione di queste anomalie viene fornita nel 1905 da Albert Einstein, sulla base dell'ipotesi, che in determinate circostanze la radiazione monocromatica possa essere trattata come composta da granuli elementari con una energia ben definita, proporzionale alla frequenza attraverso la costante di Planck. Il nome originariamente attribuito a questi "corpuscoli" fu quello di "quanti di luce"; il termine "fotone" fu coniato circa dieci anni più tardi. La conferma sulla bontà del nuovo modello "corpuscolare" si è avuta ancora una decina d'anni più tardi, con i dati sperimentali sull'effetto Compton che mostravano in modo convincente che nell'interazione con un elettrone il fotone si comporta come una particella con energia e quantità di moto definite.
La diffusione della luce Si ha diffusione della luce quando un fascio luminoso incide su di una superficie riflettente ruvida, o quando attraversa un mezzo parzialmente opaco alle radiazioni luminose. Ciò comporta la deviazione delle componenti del fascio in direzioni diverse da quella di incidenza. Uno degli effetti più comuni di tale fenomeno è l’effetto Tyndall, che si può osservare con i fanali di un’auto in una giornata nebbiosa. Le frequenze più alte componenti il fascio luminoso vengono disperse meglio, sicché il colore della luce diffusa assume una tinta azzurrina. La colorazione blu del cielo è dovuta anch’essa ad un fenomeno di diffusione: in questo caso sono le goccioline d’acqua presenti nell’atmosfera che disperdono la luce. Ciò è dovuto allo “scattering di Rayleigh”. Il fenomeno è anch’esso fortemente influenzato dalla lunghezza d’onda e dalle dimensioni delle goccioline. Il risultato è che la luce verso il blu dello spettro viene diffusa maggiormente mentre quella verso il rosso si propaga quasi indisturbata. Di conseguenza è principalmente la luce blu ad essere diffusa verso l'osservatore ed il cielo appare del tipico colore azzurro. Al tramonto, tuttavia, la luce del sole percorre una lunghezza maggiore nell'atmosfera, che filtra le frequenze blu e giungendo all'occhio dell'osservatore ad un angolo più lontano dalla perpendicolare rispetto alla sua direzione, tingendo i tramonti di rosso.
Riflessione ed assorbimento della luce Quando un raggio di luce incontra un ostacolo esso può essere assorbito e/o riflesso e/o anche trasmesso. Assorbimento e riflessione riguardano sia un corpo opaco che uno trasparente, la trasmissione solo uno trasparente. Consideriamo un corpo opaco perfettamente speculare. Il raggio incidente che colpisce la superficie speculare viene riflesso di nuovo verso il mezzo di provenienza. Si può verificare che l’angolo di incidenza (αi) e quello di riflessione (αr) sono sempre identici. Se il corpo non è speculare e colorato, esso assorbirà prevalentemente le componenti spettrali complementari al suo colore e rifletterà, o diffonderà, le altre. Infatti, se illuminiamo un oggetto rosso con un raggio monocromatico blu, vedremo l’oggetto come nero, perché la luce che lo illumina non contiene la componente rossa. Un corpo perfettamente nero assorbe tutti i colori dello spettro e non ne riflette alcuno. L’energia contenuta nel fascio luminoso viene convertita in energia termica.
Attenuazione della luce per riflessione ed assorbimento ATTENUAZIONE PER ASSORBIMENTO La luce passando attraverso un mezzo trasparente viene attenuata per assorbimento e riflessione alle interfacce. Assorbimento significa riduzione dell'intensità radiante I ed è il risultato di molti differenti fenomeni. Parte dell'energia radiante si trasforma in calore quando le onde elettromagnetiche interagiscono con le molecole del mezzo. La perdita di energia dipende dalla lunghezza del percorso della luce nel mezzo, dalle proprietà del materiale e dalla lunghezza d'onda della luce (e in minor misura dai fattori esterni come la temperatura, etc.). La legge dell'assorbimento della luce L'assorbimento è descritto dall'espressione empirica detta legge di Lambert e Beer. Nei solidi,la legge di Lambert e Beer afferma che, per una radiazione monocromatica che passa attraverso un mate- riale omogeneo, la perdita di intensità radiante è propor- zionale al prodotto della lunghezza del percorso dentro il materiale per l'intensità radiante iniziale. Nell’equazione t è chiamato coefficiente di assorbimento e rappresenta la perdita relativa di intensità radiante per unità di lunghezza di percorso nel materiale. La sua unità è [m-1]. Il coefficiente di assorbimento può essere espresso anche come: assorbanza, coefficiente di estinzione, trasmittanza. ATTENUAZIONE PER RIFLESSIONE Il raggio di luce entra nel campione di materiale trasparente provenendo da un altro mezzo con differente indice di rifrazione. Quando la luce supera l'interfaccia subisce la riflessione da parte della linea di confine. Lastra parallela. Assorbimento e riflessione. L'intensità del raggio riflesso è data dalla prima equazione in alto. Il termine R è chiamato coefficiente di riflessione (definito per coppia di mezzi e indipendente dalla direzione di propagazione).Dove n è l'indice relativo di rifrazione del mezzo riflettente. Quindi, l'effettiva intensità radiante che entra nel mezzo assorbente è già ridotta di qualche fattore ed è data dalla equazione in basso. Attenuazione dovuta all'assorbimento e alla riflessione. La luce che entra nel materiale è poi attenuata a causa dell'assorbimento. Quando raggiunge l'interfaccia esterna viene di nuovo parzialmente riflessa. Alla fine, l'intensità radiante I che lascia effettivamente il campione ha subito l'assorbimento e due riflessioni. Il coefficiente di assorbimento è dipendente dalla lunghezza d'onda della luce.
La rifrazione (1) Quando un raggio luminoso che viaggia attraverso un mezzo trasparente, ad esempio l'aria, incontra un nuovo mezzo trasparente, ad esempio acqua o vetro, nel passaggio dall'uno all'altro mezzo subisce una deviazione. Si dice in tal caso che il raggio incidente viene rifratto. Se immergiamo una sbarretta in un bicchiere pieno di acqua questa ci sembra spezzata, poiché la parte immersa non appare allineata con la parte fuori dall'acqua e leggermente sollevata; come pure il fondo di uno stagno ci sembra più vicino di quello che è. Le leggi sperimentali che regolano la rifrazione furono date per la prima volta da Cartesio e da Snell.. L'angolo di incidenza θ1 è quello formato dal raggio incidente con la normale alla superficie di separazione; l'angolo di rifrazione θ2 è invece quello formato con la stessa normale dal raggio rifratto. Il rapporto sin θ1/ sin θ2 = costante, è l’indice di rifrazione tra i mezzi 1 e 2. La meccanica ondulatoria ci dice che la velocità di propagazione della luce nel vuoto è eguale a C(circa 300.000 km/sec) e che essa subisce un rallentamento quando attraversa qualsiasi mezzo trasparente. : sin θvuoto /sin θx = C / VX = n x è chiamato indice di rifrazione assoluto relativamente alla sostanza X
Rifrazione - Prismi S’intende con “prisma ottico”un blocco di vetro ottico limitato normalmente da superfici piane, di forma spesso prismatica. Un fascio di “luce” può incidere su una o due delle sue facce ed uno o più fasci possono emergere dalla stessa o da altre facce. Le facce d’ingresso e d’uscita della “luce” sono levigate e la loro planeità è assicurata entro stretti limiti, in relazione alla funzione che il prisma deve svolgere. Il comportamento dei fasci che incidono su un prisma è determinato dalle leggi della riflessione e della rifrazione. Un prisma retto può servire a verificare la rifrazione proiettando su una delle sue facce lucide uno stretto fascio, Sulla superficie di separazione fra due “mezzi”si ha la “rifrazione”, il cambiamento di direzione del fascio incidente. Ma occorre precisare: - se il raggio incidente è perpendicolare (“normale”) alla superficie di separazione, non c’è deviazione: i raggi incidente e rifratto giacciono sulla stessa retta. i due mezzi, sopra e sotto la superficie di separazione, devono avere diverso indice di rifrazione. L’indice dipende principalmente dalla lunghezza d'onda λ. i rifrazione è una costante di ogni particolare mezzo.
Rifrazione – Angolo limite La rifrazione è governata dalla cosiddetta legge dei seni, ossia: sin i / sin r = n. Quindi il rapporto tra il seno dell'angolo d'incidenza ed il seno dell'angolo rifratto è uguale all'indice di rifrazione relativo del mezzo più denso. Passando da un mezzo meno denso a uno più denso il raggio si avvicina alla normale e se ne riallontana dopo la riemersione in aria. In genere si assume che il secondo mezzo sia più denso del primo (caso tipico del passaggio del- la luce tra l'aria e il vetro), ma se invertiamo la for- mula precedente e stabiliamo più denso il primo dei due mezzi, ci accorgiamo che per ottenere un raggio rifratto, il pennellino di luce non può incidere oltre un certo angolo, chiamato angolo limite. Per assurdo il raggio rifratto emergerebbe parallelamente alla superficie, ossia a 90° con la normale. Ma poiché è, per definizione, sin 90° = 1 e dal momento che la funzione seno non può mai superare 1, ne segue che per avere la riemersione da un blocco di vetro a facce parallele con n = 1, l'angolo d'incidenza non può superare i 42°. Se l'incidenza sulla superficie di separazione tra il mezzo più denso e quello meno denso avviene con un angolo maggiore di quello limite, il raggio rifratto manca e si verifica il fenomeno della riflessionetotale, molto sfruttato nel caso dei prismi di Porro, dove l'incidenza avviene a 45°. nelle fibre ottiche, come pure nei binocoli prisma- tici e nelle fotocamere reflex. . Deviazione (δ) = (n – 1) x α
Dispersione della luce - Spettro Quando il raggio di luce solare incide dall’esterno sulla prima faccia del prisma viene rifratto, cioè deviato. La relazione fra l’angolo di incidenza α e l’angolo di rifrazione β è data dalla legge di Snell:(1) sin α = n sin βdove n è l’indice di rifrazione del vetro di cui è fatto il prisma. Mentre il raggio solare bianco incidente forma con la normale alla faccia del prisma un angolo α, il raggio rifratto forma con essa un angolo β < α.Ma il valore di n dipende in realtà dalla frequenza f della luce incidente, per cui anche l’angolo di rifrazione dipende da f. Dovremmo scrivere:(1′) sin α = n(f) sin β(f)e allora vediamo che le componenti della luce solare che presentano un indice di rifrazione maggiore (le componenti blu-violette) subiscono una deviazione maggiore delle componenti rosso-arancio, per le quali n(f) è minore. Ogni componente segue quindi una traiettoria lievemente diversa e le varie componenti si separano (dispersione della luce). L’effetto è reso più significativo dalla forma del prisma, per la quale la seconda faccia, quella sulla quale i raggi incidono dall’interno, ha un’inclinazione diversa dalla prima. Ciò comporta che la separazione angolare fra le diverse componenti colorate aumenti ancora.
F centro ottico o ASSE OTTICO FUOCO Le lenti • Si chiama lente qualsiasi corpo trasparente avente due superfici curve non parallele, oppure una superficie piana ed una curva. • Per ogni lente l'asse che passa per i centri delle due superfici sferiche è detto asse ottico. • Il comportamento di una lente è dovuto al fenomeno della rifrazione, ovvero al cambiamento di direzione che subisce un raggio luminoso nel passaggio da un mezzo ad un altro con diverso indice assoluto di rifrazione, come accade nel passaggio aria - vetro e vetro - aria attraverso una lente. • asse ottico = retta che congiunge i centri di curvatura delle due facce della lente; • centro ottico = punto dell’asse ottico che divide a metà lo spessore della lente o di un sistema di lenti; • fuoco = punto in cui convergono tutti i raggi paralleli all’asse ottico
Classificazione delle lenti Convergenti: 1) biconvessa, 2) piano-convessa, 3) concavo-convessa. Divergenti: 4) biconcava, 5) piano-concava, convesso-concava • 1. Lenti convergenti[ fig. 1-2-3 ] .Sono tutte più spesse al centro che alla periferia; la lente concavo-convessa si dice anche menisco. • Un'onda piana incidente sulla superficie di una lente convergente parallelamente al piano di simmetria della lente viene rifratta e converge verso un punto al di là della lente [fig. (A)]. • La deviazione operata da queste lenti è tale che un insieme di raggi che giungano con direzione parallela all'asse ottico vengano portati a convergere tutti in uno stesso punto detto fuoco. Queste lenti danno immagini sia virtuali che reali a seconda della posizione dell'oggetto osservato rispetto all'asse ottico e della sua distanza dalla loro superficie; • 2. Lenti divergenti[ fig. 4-5-6 ] .Sono tutte più spesse alla periferia che al centro; • Le onde piane incidenti sulla superficie di una lente divergente parallelamente al piano di simmetria della lente vengono rifratte e convergono verso un punto al di qua della lente [fig.(B) ]. • In questo caso la deviazione che subisce un insieme di raggi paralleli all'asse ottico è tali da farli allontanare l'un l'altro, cioè divergere. Il fuoco della lente è il punto dove si incontrano i prolungamenti verso la sorgente dei raggi che l'attraversano e pertanto questo tipo di lenti è in grado di produrre solo immagini virtuali degli oggetti reali.
Costruzioni grafiche 1/f = 1/p + 1/q
Specchi piani • Come si osserva dalla costruzione fatta applicando le leggi della riflessione, i raggi provenienti da un punto P davanti allo specchio non si ricongiungono mai, ma, dopo la riflessione, divergono indefinitamente. Se invece si considerano i loro prolungamenti, questi si incontrano in un punto P′ dietro lo specchio. P′ è l'immagine virtuale di P, intendendo per virtuale l'immagine formata all'incontro dei prolungamenti dei raggi provenienti dall'oggetto e riflessi dallo specchio. • Si parla invece di immagine reale quando questa si forma in corrispondenza dei punti in cui convergono i raggi stessi. Nel caso di uno specchio piano l'immagine è sempre virtuale, è in posizione simmetrica dell'oggetto rispetto allo specchio, posizione dalla quale a un osservatore davanti allo specchio sembrano provenire i raggi stessi (in realtà la localizzazione spaziale dell'immagine è un fenomeno psichico e l'immagine vista non corrisponde generalmente all'immagine calcolata).
Specchi sferici (1) • Una superficie riflettente a forma di calotta sferica viene chiamata specchio sferico. • Se la superficie riflettente è interna alla calotta, parleremo di specchio concavo; se è esterna, di specchio convesso. Le leggi che regolano la riflessione valgono ovviamente anche nel caso degli specchi sferici. Le normali ai diversi punti degli specchi sono disposte radialmente. Cioè i raggi paralleli che colpiscono lo specchio in due punti diversi avranno un angolo di riflessione diverso. Ciò ha come conseguenza una deformazione delle immagini riflesse dallo specchio. Tale deformazione dipenderà dalla posizione relativa dell'oggetto rispetto allo specchio.
Specchi sferici (2) • L'asse di simmetria della calotta che passa per il centro di curvatura, si chiama asse ottico principale, mentre ogni altra retta per il centro di curvatura che incontra la superficie riflettente si chiama asse secondario. Fissato un punto della superficie, la normale ad essa nel punto dato sarà la retta per il punto passante per il centro di curvatura; un raggio che parte dalla sorgente S posta ad esempio sull'asse ottico principale, sarà riflesso in modo che, rispetto alla normale relativa al punto, l'angolo di incidenza è uguale all'angolo di riflessione. . Il raggio incidente viene riflesso in modo da intersecare l'asse principale nel punto S'. Tra i punti S ed S’ vale il principio di reversibilità del cammino luminoso e vengono detti punti coniugati. La distanza fra la superficie di uno specchio e il fuoco viene chiamata distanza focale. Uno specchio convesso riflette i raggi paralleli all’asse ottico in modo che essi divergano, come se fossero originati da un fuoco f situato dietro lo specchio. • La distanza focale di uno specchio convesso si può dimostrare essere pari a:f = -1/2 R In uno specchio concavo, invece, si ha: f = 1/2 R Riportiamo qui di seguito, senza dimostrarla, la principale relazione degli specchi sferici: 1/p +1/q=1/f.
Formazione dell’immagine negli specchi concavi Soggetto molto distante dallo specchio: Immagine reale rovesciata e impicciolita. Soggetto a distanza pari ad R = 2f: Immagine reale capovolta di pari misura Soggetto tra C ed F: Immagine reale dritta ed ingrandita Soggetto tra lo specchio ed f: Immagine virtuale ingrandita
Luce polarizzata • La luce ordinaria, in base alla teoria ondulatoria, è costituita da onde elettromagnetiche che vibrano in tutte le direzioni perpendicolari alla direzione secondo cui essa viaggia, cioè, si propaga sotto forma di onde che si sviluppano su diversi piani lungo la linea di propagazione. • Quando la luce ordinaria passa attraverso un prisma di Nicol (cristalli di calcite) o particolari filtri, detti polarizzatori, che sono in grado di far passare solo le onde che oscillano su di un piano ben preciso (filtri polarizzatori Polaroid usati in fotografia per eliminare i riflessi), la luce emergente è polarizzata linearmente ovvero il vettore elettrico vibra solo su uno degli infiniti piani prima interessati.
Polarizzazione per riflessione – Angolo di Brewster • L'angolo di Brewster (anche conosciuto come angolo di polarizzazione) è un fenomeno ottico che prende il nome dal fisicoscozzeseSir David Brewster (1781–1868). L'angolo di Brewster è un particolare angolo θB per cui se un'onda incide su una superficie proprio a θB, non esiste onda riflessa. • Quando la luce passa da un mezzo a un altro mezzo che ha indice di rifrazione diverso dal primo, in genere parte dell'onda viene riflessa dall'interfaccia esistente tra i mezzi. A un particolare angolo di incidenza, però, la luce con una particolare polarizzazione non può essere riflessa. Questo angolo di incidenza è detto "angolo di Brewster", θB. La polarizzazione che non può essere riflessa a questo angolo è quella per cui il campo elettrico dell'onda luminosa giace nello stesso piano del raggio incidente e della normale alla superficie (si parla di onda polarizzata p, in cui "p" sta per "parallelo", o TM, transverse magnetic). Quando un raggio non polarizzato colpisce una superficie all'angolo di Brewster, il raggio riflesso è sempre polarizzato s.
Diffrazione • Per il principio di Huyghens, teorizzato dal fisico olandese Cristian Huygens (1629-95): In ogni istante, qualsiasi punto di un fronte d'onda puo' essere considerato come sorgente puntiforme di onde sferiche.