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LEVINAS e DERRIDA: il pensiero dell’altro a cura della Prof. ssa Sabatini Emanuela. LEVINAS e DERRIDA il pensiero dell’altro.
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LEVINAS e DERRIDA: il pensiero dell’altroa cura della Prof. ssa Sabatini Emanuela
LEVINAS e DERRIDA il pensiero dell’altro “D-o il Desiderabile mi ordina a ciò che è il non-Desiderabile, all’indesiderabile per eccellenza, ad altri. Il rinvio ad altri è risveglio, risveglio alla prossimità la quale è responsabilità verso il prossimo, fino alla sostituzione ad esso”. “La bontà del Bene inclina il movimento che essa invoca per allontanarlo dal Bene e orientarlo verso altri e così solamente verso il Bene”. Levinas, Di Dio che viene all’idea, 92.
Dio è il Desiderabile che allontana da sé per inviare l’uomo all’altro uomo, alla prossimità non desiderabile di altri e così facendo si sottrae al desiderio dell’uomo. Si tratta di un vero e proprio capovolgimento operato da Levinas: Dio orienta verso altri piuttosto che verso se stessi. L’altro è all’inizio, mi precede sempre, non c’è l’io senza la precedenza dell’altro: io vengo al mondo in un luogo già reso abitabile dal volto dell’altro. Per san Tommaso e per tutta la tradizione classica l’altro si incontra solo dopo, non è mai all’inizio. La condizione di accesso a Dio è, infatti, l’amor proprio. Il sé rinvia a Dio come alla sua perfezione, l’amore dell’altro è soltanto terzo, è un effetto dell’amore per sé e per Dio, l’altro è cioè amato per somiglianza con l’amore per sé e non, innanzitutto, in quanto altro. L’amore di sé tuttavia in Tommaso non è confinato negli angusti confini del proprio, ma è aperto all’amore di Dio e solo così anche all’amore del prossimo. Fin qui Tommaso. E dopo? Perduto il riferimento al Sommo Bene a Dio, resta soltanto l’amore del sé, è questa la linea di pensiero che attraversa tutta la modernità a partire da Hobbes fino alla presa d’atto dell’evento, della morte di Dio che in Nietzsche risuona come presa d’atto di qualcosa che è già storicamente accaduto. Sarà la psicoanalisi a scoprire che al posto dell’amore del sé, c’è un buco che non è vuoto, ma è un abisso spalancato e sempre a rischio di venir risucchiato o di smarrirsi.
L’umanità dell’umano 1961 Levinas scrive il suo libro più famoso, Totalité et infini 1967 DERRIDA scrive L’écriture et la différence in cui dialoga con Levinas 1974 Levinas ripenserà Totalité et infini a partire dalle critiche che gli aveva mosso Derrida e scriverà Autrement qu’ être
Iniziamo da un rilievo fenomenologico: in che modo noi stiamo al mondo, in che modo siamo noi stessi e ci relazioniamo agli altri? A quali condizioni c’è una relazione tra un uomo e un altro uomo? • Siamo un soggetto incarnato in un corpo, situati in un corpo che gode, prima ancora di pensare e di soffrire, prima ancora di aver coscienza di qualcosa noi viviamo e godiamo. Vivere è godere della vita. Pensate al bambino che gode delle cure materne che appagano il suo bisogno di cibo, di sonno, di riparo. Fin dall’inizio io sono perciò annodato all’altro, senza l’altro non solo non sopravvivrei alla mia nascita, ma non raggiungerei mai neppure la coscienza di me stesso.
Ebbene perché ci sia l’io deve esserci anche l’altro. L’altro per essere altro deve inoltre essere separato dall’io, in altre parole il soggetto deve diventare consapevole della separazione, che è la condizione della relazione e della prossimità all’altro. Proviamo a chiederci: esiste un soggetto che si pensa solo a partire da se stesso? Oppure è una astrazione? La risposta di Levinas è che si tratta, appunto, di una astrazione, non c’è soggetto prima dell’incontro con l’altro o meglio ancora non c’è umanità prima dell’essere convocati, chiamati dall’altro, il soggetto si costituisce in quanto risposta a una domanda che lo precede e che viene dal VOLTO dell’altro. Che cos’è UN VOLTO?
L’ALTRO ci viene incontro come VOLTO. Possiamo afferrare un volto? Possiamo compiutamente rappresentare un volto? Possiamo esercitare un potere sul volto o possiamo ignorarlo? Il volto è tale proprio perché anche quando lo rappresentiamo resta in fondo irrappresentabile, perché si sottrae al nostro potere. Possiamo distinguere tra un volto umano e un volto inumano? Può esserci perdita, cancellazione del volto? Proviamo a leggere insieme questo passaggio: • “una visita alla Lubyanca di Mosca da parte delle famiglie, delle mogli e dei genitori dei detenuti politici. Si forma una fila agli sportelli. Una donna aspetta il suo turno: mai aveva pensato che la schiena umana può essere tanto espressiva e trasmettere in modo così penetrante degli stati d’animo. Le persone che si avvicinavano allo sportello avevano un modo tutto particolare di allungare il collo e la schiena, le spalle alzate avevano scapole tese come molle e sembravano gridare, piangere, singhiozzare”.
Dunque il VOLTO non è la faccia, semplicemente. In questa descrizione tutto il corpo parla, grida, piange singhiozza, allora torniamo a chiederci che cos’è un volto? Un volto che può essere dislocato, prendere le sembianze di un dorso, di una spalla….: • “Ora noi chiamiamo VOLTO il modo in cui si presenta l’Altro che supera l’idea dell’Altro in me”. TI, 48 • “Il VOLTO d’Altri distrugge ad ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia, l’idea a mia misura, l’idea adeguata. Il VOLTO, piuttosto, si esprime”. TI 49 • “Andare incontro al Altri nel discorso significa accogliere la sua espressione, significa dunque ricevere da Altri al di là delle capacità dell’io, significa avere l’idea di infinito”. Ivi • “Il VOLTO è presente nel suo rifiuto di essere contenuto, in questo senso non può essere compreso né inglobato, né visto, né toccato”. TI, 199. • “Altri resta infinitamente trascendente, infinitamente estraneo, ma il suo VOLTO, in cui si produce la sua epifania e che si rivolge a me, rompe con il mondo che può esserci comune”. Ivi • “La nudità è il VOLTO”. • Il VOLTO è una epifania, è tutto ciò che nell’uomo si esprime, in modo unico e irripetibile: l’uomo che incontro nel volto si sottrae alla conoscenza . Tuttavia qui dobbiamo fare una precisazione: l’impossibilità della conoscenza non esclude una modalità differente di relazione all’altro che è la comprensione. Comprendere non è conoscere. Il volto si mostra, ma resta eccedente.
Il volto fa risplendere una traccia, non un meno di intelligibilità, ma un di più in quanto trascendenza, memoria di un passato irrecuperabile e perciò presenza di uno scarto e di una assenza, incalcolabile, inaccessibile. IL volto è inafferrabile. Il volto, ancora, è il volto dell’infinitamente altro per Levinas, che scrive altro a volte con la minuscola e a volte con la maiuscola. Questo perché la trascendenza si annuncia nel volto che non è per questo ridotto a significante, il volto cioè non è una immagine della trascendenza, ma solo nel volto, nel volto più lontano e persino indesiderabile, della vedova, dell’orfano, dello straniero io faccio esperienza dell’inappropriabile. Questo è il anche il solo modo in cui il primo Altro, Dio si fa prossimo all’uomo, nell’uomo. Levinas parla di separazione, separatezza, alterità assoluta dell’altro in Totalità e infinito, come condizione di una relazione che per essere tale deve essere frontale, come attesa della parola altrui e asimmetrica, l’altro io non posso mai possederlo, mai assimilarlo, la sua signoria si impone nella distanza assoluta che rende possibile la relazione all’altro a partire però da una simmetria che l’apparire frontalmente dell’altro nell’uguaglianza di una parola attesa, condizione della reciproca esposizione dell’io all’altro. È qui che si innesta la lettura e la critica di Derrida al testo di Levinas.
L’etica è il luogo dell’assolutamente altro Per Levinas l’altro è la rivelazione dell’assolutamente altro come uomo: la dimensione del divino si apre a partire dal volto umano. Dio si innalza nella sua suprema e ultima presenza come giustizia resa agli uomini. La RELAZIONE all’altro è sempre questione di GIUSTIZIA: anche nella relazione più intima è sempre uno sguardo altro, lontano, che mi impone di giustificare le mie azioni a rendere possibile la relazione. L’altro mi sta di fronte fino al punto in cui mi riconosco nella condizione di ostaggio: sono soggetto all’altro in quanto sono un essere rispondente e responsabile, perché la mia identità non è mai all’inizio, non è l’identità della pietra con se stessa. Il paragone con la pietra richiama il materiale inerte, senza relazione, della vita inorganica. L’identità per potersi trovare deve passare attraverso la frantumazione del nucleo sassoso della propria sostanza. L’altro che si rivolge a me mi importuna, mi incomoda, mi costringe a rispondere, mi rende responsabile di fronte alla sua domanda, in quanto l’io è questo rapporto vivente all’altro è anche assolutamente responsabile di fronte all’altro. Sono responsabile PRIMA di ogni legge: la sola presenza dell’altro è immediatamente richiesta di GIUSTIZIA. Devo temere per l’altro è questo l’inizio della CATTIVA COSCIENZA, in quanto consapevolezza della possibilità di essere sempre esposto alla violenza e all’offesa da cui la buona coscienza si sente al riparo. L’altro chiama l’io a un diverso modo di soggiornare nel mondo: un modo etico, instaurato dalla presenza-assenza dell’altro, presenza come assenza, traccia, trascendenza inappropriabile, domanda, infine, di giustizia, prima di ogni legge, appello dell’altro senza alcuna garanzia.
L’ebraismo di Levinas “Vorrei dire brutalmente che il nostro debito verso il monoteismo ebraico non è costituito dalla rivelazione del Dio unico, semmai dalla rivelazione della parola come luogo in cui gli uomini si tengono in rapporto con ciò che esclude ogni rapporto: l’infinitamente Distante, l’assolutamente Estraneo, Dio PARLA e l’uomo gli PARLA, questo è il fatto capitale dell’ebraismo. La parola ha il compito di fare del LIBRO e delle sue letture il luogo dell’intendersi, se c’è un abisso invalicabile, la parola lo attraversa. Confrontato con quello greco l’umanesimo ebraico stupisce per un’ansia di rapporti umani così costante e così prevalente che, anche dove nominalmente è presente Dio, si tratta ancora dell’uomo e di ciò che c’è tra uomo e uomo. La presenza umana è questa Presenza Altra costituita da Altri, inaccessibili, separati e distanti quanto l’Invisibile stesso”. Blanchot, L’infinito intrattenimento, 171-173.
Levinas e Derrida • Derrida giovane amico e allievo di Levinas contesta l’idea di una alterità assoluta come quella di una identità incontaminata, seppure potessimo concepirle, infatti, non avrebbero nulla da dirci. Il concetto di purezza non ha a che fare con la vita, che è contaminazione. Levinas dopo questa lettura di Derrida scriverà Altrimenti che essere.
Derrida sostiene l’impossibilità di affermare una alterità assoluta, così come è impossibile affermare una identità assoluta, l’alterità, così come l’identità, incontaminate, non solo non possiamo concepirle, ma anche se potessimo farlo, non avrebbero più niente da darci o da dirci. La separazione, il distacco è la condizione del rapporto all’altro, mentre l’identificazione, la conoscenza, che produce l’assimilazione dell’altro al proprio, significa privarsi dell’altro. Io non sono infatti in grado di parlare di altri, come di un oggetto, ma soltanto di parlare ad altri, al vocativo, che è il sorgere stesso della parola, ecco che allora il volto dell’altro è all’origine del mondo: io non posso parlare dell’altro se non parlando a lui, avvicinandomi ad esso come all’inaccessibile a partire da una separazione assoluta. Derrida qui denuncia una complicità tra metafisica e teologia: in Totalità e infinito Levinas “non sfuggirebbe alla necessità dire l’Altro nel linguaggio dello stesso, in altre parole l’eccedenza, l’eccesso dell’infinito si da nel linguaggio a partire dal finito, dunque l’Altro non può essere l’infinitamente altro di Levinas se non nella finitezza e nella mortalità mia e sua”(ED, 145). Il volto dell’altro è anche corpo, cioè esteriorità, finitezza, irriducibilità spaziale, corpo mortale. Derrida fa qui riferimento al concetto husserliano di appresentazione analogica, per Husserl, infatti, io mi rapporto all’alterità irriducibile dell’altro a partire da un certo manifestarsi a me dell’altro come alter ego, cioè a partire da una analogia e non in modo originario e in persona, ma questo per Derrida non significa come per Levinas assimilare l’altro allo stesso, perché l’analogia conferma e rispetta la separazione: l’altro è e resta un segreto per l’io, ma non si può pensare l’altro nella sua purezza originaria e trascendente, il rischio, infatti, è di farne una totalità chiusa su di sé, assolutamente esterna allo stesso.
“Che io si anche essenzialmente l’altro dell’altro, che io lo sappia, ecco l’evidenza di una strana simmetria di cui non appare mai traccia nella descrizione di Levinas. Senza questa evidenza io non potrei desiderare o rispettare l’altro nella disimmetria etica”. ED, 162. • “L’infinitamente altro e l’infinitamente stesso, se queste due parole hanno un senso per un essere finito, sono la stessa cosa”. ED, 164. • “Il rapporto intenzionale dell’ego al mondo, no può essere aperto a cominciare da un infinito-altro radicalmente estraneo al mio mondo”. ED, 167. • Derrida nel 1964 critica dunque Levinas sostenendo che non c’è possibilità per l’altro di essere altro se non all’interno di una originaria e inevitabile CONTAMINAZIONE con lo stesso, con la lingua in quanto mondo dello stesso: • “Levinas ama la lacerazione, ma detesta la contaminazione. Ora ciò che bisogna accogliere è la contaminazione, concatenando le lacerazione, ripetendole nel testo di un racconto. (…) Per rimarcare l’interruzione tra lo stesso e l’altro, che è quanto fa la scrittura di Levinas, bisogna anche riannodare. La violenza pura, come la non violenza pura, è un concetto contraddittorio, (…) la contaminazione è una fatalità del Dire, essa deve essere negoziata. Accettiamolo, ciò che scrivo in questo momento è scorretto, in colpa, colpevole”. PS, 179, 181, 198.
Si tratta cioè per Derrida di mostrare la necessità della CONTAMINAZIONE e quindi l’impossibilità della purezza, dell’alterità assoluta. Levinas risponde a questa sollecitazione con Altrimenti che essere, distinguendo il concetto di volto dal concetto di altro, per sottolineare la forza del volto, che irrompe, con immediatezza, nell’incontro, come messa in questione, inquietudine dell’io. In questo modo Levinas riconosce la critica di Derrida, l’altro è dicibile solo come alter ego, per questo riparte proprio dal concetto di VOLTO. Il volto dell’altro ESIGE ciò che impedisce all’io di stare o di ritornare su stesso. In tal senso il volto è L’ALTRO CHE MI INTERPELLA, non solo l’altro quindi, ma l’altro che mi costringe, che diventa prossimo, una prossimità che resta sempre insufficiente, come un abbraccio, non un rapporto tra due termini, ma una tensione, una esposizione, fino al trauma, alla vulnerabilità, al dolore: • “Il disvelamento del volto è NUDITÀ, non forma, abbandono di sé, invecchiamento, morire, più nudo della nudità, povertà, pelle rugosa, traccia di se stesso. Volto avvicinato, contatto di una PELLE: pelle in cui respira il volto”. AE, 110-114.
Altrimenti che essere La soggettività è strutturata come etica, l’io non sceglie gli altri, ma si trova all’interno della differenza con gli altri, e solo all’interno di questa differenza si costituisce come soggetto esposto all’altro: “la soggettività è VULNERABILITÀ, esposizione all’affezione, sensibilità, passività, sì scoperto che si offre, che soffre nella sua pelle, non possedendo la sua pelle, in quanto vulnerabilità”. AE, 63-65 “la soggettività della soggezione del sé è la sofferenza nell’offrirsi. L’esposizione ad altri è disinteressamento, prossimità, ossessione per il prossimo: ossessione malgrado sé: cioè dolore”. AE, 69-71 La pelle non è una metafora, è l’essere stesso dell’ipseità, nella sua contrazione e nella sua esplosione. Proprio Derrida sottolineerà il ruolo della scrittura particolare di Levinas, un continuo dire e disdire, una parola che è continuamente sollecitata a soccorrere lo scritto, a esasperarlo, sollecitarlo e proprio per questo capace di effetti di alterità, opera aperta che rilancia e riapre continuamente l’atto del dire.
La politica dell’ospitalità L’etica di Levinas è in grado di fondare una politica? Una azione politica concreta della pace e dell’ospitalità? La figura del terzo (l’altro che sopraggiunge e mi chiede di rendere conto della mia relazione, della mia azione, che interrompe l’immediatezza e ricostituisce una distanza e una apertura all’interno della mia relazione al prossimo) in Levinas impone una considerazione politica. L’altro mi chiede innanzitutto giustizia, perciò l’IN-DIFFERENZA è la prima ingiustizia che posso infliggere all’altro uomo, il primo passo verso la disumanizzazione, dopo tutto diventa possibile, anche Auschwitz. La giustizia non è il diritto, non è la legge, perché mentre la legge è uguale per tutti, la giustizia incontra l’altro nella sua singolarità e nella sua differenza. Levinas eredita dalla tradizione sapienziale ebraica l’idea che la giustizia che noi possiamo praticare non sia un insieme di procedure a carattere distributivo o retributivo, ma qualcosa di profondamente diverso e radicato nella relazione tra l’uomo e l’altro uomo.
La giustizia nella tradizione ebraica • Nella tradizione ebraica la giustizia è la possibilità di instaurare o restaurare una RELAZIONE. Questa tradizione si rifà a una precisa tradizione giuridica, al rîb o riconciliazione. La specificità di questa pratica comune a diverse tradizioni sta nel suo concreto svolgimento che avviene attraverso il dialogo e il perdono, il cui scopo è quello di ricostituire una comunione spezzata, in assenza di costrizioni: è richiesta e offerta di perdono che rendono possibile sul piano storico l’impossibile della giustizia ed è l’esatto contrario del giudizio in tribunale che inchioda l’imputato al suo passato. Scrive infatti Levinas: “se il denaro o le scuse potevano riparare ogni cosa e mettere a posto la coscienza, tale movimento, della giustizia, andrebbe al contrario. Sì, occhio per occhio. Tutta l’eternità, tutto il denaro del mondo non possono guarire l’oltraggio che si commette sull’uomo. Ferita che sanguina per sempre”. DL, 186-187. Che cosa vuole dire? Che nessuno può appropriarsi a cuor leggero della giustizia, resta una sproporzione tra il piano trascendentale e quello pragmatico che dischiude uno spazio di radicale inter-esse in cui il soggetto è chiamato a dare ragione del proprio agire.
Possiamo ora provare a rispondere alla domanda: può l’etica fondare una politica? L’etica è per Levinas questa apertura originale e ospitale all’altro, la coscienza può istituirsi solo nella cattiva coscienza, cioè nella coscienza che sa di essere responsabile, capace di dire all’altro: vieni! Ma anche di restare indifferente o di ferire l’altro che mi chiede giustizia. Questo però significa che non c’è deduzione possibile: c’è una ingiunzione, ma questa ingiunzione risuona nello spazio di una responsabilità personale insostituibile che non fonda nessuna determinata azione politica e tantomeno una concreta politica dell’ospitalità. Non c’è alcuna garanzia di un passaggio dalla condizione etica originaria ad un’etica dell’ospitalità. Dobbiamo però chiederci: è questo un limite del pensiero di Levinas? L’impossibilità di fondare, dedurre derivare, l’assenza di garanzia, sono piuttosto per Derrida, un più autentico pensiero della responsabilità e della decisione etica. L’etica cioè intima all’uomo una politica e un diritto, lo esige, ma non può determinarlo a prescindere dalla responsabilità assunta da ciascuno in ogni situazione a partire da un’analisi ogni volta unica ed infinita, esposta alla sostituzione, interminabile, urgente, perché la decisione, ogni decisione che sia veramente tale, resta per Derrida eterogenea al calcolo, al sapere, alla conoscenza che la condizionano.
Non vi è prima la coscienza, il costituirsi di qualcosa come il cogito o la coscienza, ma l’apertura all’altro, l’ospitalità, è l’ospitalità a definire l’essenza stessa delle coscienza. L’ospitalità presuppone la separazione radicale come esperienza dell’alterità dell’altro. Questo significa che l’ospitalità non è una esperienza che posso fare o non fare, ma è la condizione dell’emergere dell’umano in quanto tale in quanto interruzione del sé, accoglienza del volto dell’altro. Derrida porta a fondo questo pensiero di Levinas. La coscienza può essere ospitante solo in quanto già ospitata, solo perché è già stata ospitata e tale condizione non è una scelta, ma precede ogni atto dell’io, è l’accesso stesso all’umanità dell’umano. La decisione viene solo dopo e costituisce uno iato: è un salto. Se la decisione fosse dedotta da un sapere o da un programma sarebbe una decisione irresponsabile e persino totalitaria: per Derrida non vi è decisione o atto responsabile al di fuori di un abisso di libertà e dunque di indeterminatezza.
Ad avviso di Levinas l’economia dell’essere è interrotta dall’avvenimento del VOLTO dell’altro uomo. Il volto eccede ogni tematica ontologica e si pone come alterità assoluta, non è il volto a essere colto dalla coscienza, ma è il volto a cogliere, a sorprendere la coscienza costituendola a partire da una differenza, una separazione che fa appello alla coscienza obbligandola a una risposta. L’etica come risposta responsabile all’appello del volto dell’altro è il LUOGO DELLA VERITÀ, di una verità PLURALE e INFINITA, aperta, come Abramo, all’avventura della novità, del senso da decifrare e da giocare ogni volta di nuovo nella relazione all’altro. Ora per Derrida questa pratica della parola che dice e disdice, in una continua e incessante riformulazione del già detto, attraverso un processo che è interruzione e riannodamento del senso, altro non è che la pratica della SCRITTURA. All’origine di questa modalità di intendere la scrittura troviamo nuovamente l’influenza della tradizione ebraica.
La lettura infinita La differenza tra le ERMENEUTICHE CONTEMPORANEE e L’ERMENEUTICA BIBLICA: Ogni passo della Bibbia si presta a molteplici interpretazioni. Dio avrebbe posto nella sua Parola un significato inesauribile La rivelazione per il giudaismo non significa mysterium e in questo modo si sottrae alla violenza del sacro: la rivelazione è DISCORSO. All’estremità di questa PAROLA si trova lo SCRITTO, che serve non a imprigionare la parola, ma a ravvivarla. Lo SCRITTO, infatti, instaura una differenza e permette, in questo modo, il rilancio del significante. La lettura cioè è operatrice di senso, trasformazione e non ripetizione. La Scrittura ebraica è trisillabica cioè ha bisogno della vocalizzazione per poter significare, la pluralità delle tradizioni di lettura e pertanto la pluralità di significati si deve a questa fluidità originario del testo ebraico. La tradizione non è un deposito, eredità, testamento, ma una fidanzata, un’esperienza di vita, di incontri, di scoperte, di imprevisti, di novità: il Talmud finge di leggere me’orasah, fidanzata, al posto di morashah, eredità. La lettura del Talmud è una avventura del senso. Ogni fase nuova dell’esistenza di Israele vede rinnovarsi il circuito della parola e della tradizione, perché come scrive LEVINAS: “ciascuna persona, per la sua unicità, assicura la rivelazione di un aspetto unico della verità”. L’unità del messaggio biblico si apre nella sua consegna all’uomo nella molteplicità delle sue letture. La torre di Babele: Dio è venuto a confondere le lingue per impedire la dittatura del pensiero unico.
DERRIDA La riflessione di Derrida si è imposta sempre di più come un pensiero della complicazione dell’origine, della contaminazione del semplice, dello scarto inaugurale, dell’urgenza a pensare lo spazio etico-politico dell’avvenire, come apertura dell’evento e come pratica di questa apertura. Per questa lezione abbiamo scelto il tema dell’altro, pertanto proviamo a declinare questo tema nel pensiero di Derrida a partire da alcuni concetti chiave: • La DIFFERENZA • LA SCRITTURA COME DESTINAZIONE E DISSEMINAZIONE • L’IMPOSSIBILE DELLA GIUSTIZIA • LA DEMOCRAZIA A VENIRE
La differenza • Différance: il vero nome della dif-ferenza è la SCRITTURA, in quanto ambito dell’istituzione delle differenze. La scrittura è l’impossibilità di arrestarsi a un significato, a una definizione totalmente aderente a sé, la scrittura è quindi il norme della differenza, la sua possibilità come impossibilità dell’identico. • “Ora la parola différence, con la e non ha mai potuto rinviare al DIFFERIRE come temporeggiamento, dissidio, polemos, è questa perdita che la parola différance dovrebbe compensare”. ED, 35. • La differenza non è un nome e non è un concetto, ma è un effetto della scrittura. La scrittura diventa pratica della differenza, tutta l’opera di Derrida è la pratica di questa scrittura, messa in opera della possibilità della differenza. Questa stessa pratica ha un nome che è stato spesso frainteso nel pensiero di Derrida: DECOSTRUZIONE. La decostruzione di Derrida non ha niente a che vedere con il nichilismo di cui Derrida è stato accusato, è una pratica di pensiero e mai una distruzione, ma un paziente lavoro di attraversamento della scena del testo. Scrive Derrida a proposito dell’opera della parola come traccia, differenza, disseminazione: “i giochi di parole non mi hanno mai interessato, piuttosto sono dei fuochi di parole: consumare i segni fino alle ceneri”. POS, 141.
Moltiplicare le differenze: nell’Animale che dunque sono, Derrida si chiede se la separazione tra l’uomo e l’animale si trova veramente là dove pensiamo di trovarla, tra l’Uomo in generale e l’Animale in generale o piuttosto la differenza si traccia all’interno dell’umano se è vero che un qualche automatismo e iterabilità sono rintracciabili anche nell’agire dell’uomo. Tutte le volte che l’uomo non ha riconosciuto l’umanità dell’altro uomo, ma solo l’animalità quella frattura è diventata strumento violento e discriminatorio nei confronti del diversamente umano (l’ebreo, lo zingaro, l’omosessuale, le donne o i bambini, gli handicappati, gli indios). Si tratta quindi di complicare l’opposizione tra l’uomo e l’animale, tra l’uomo e se stesso. Pensavamo che fosse semplice rispondere alla domanda CHI SONO? E dire ECCOMI SONO IO! E invece abbiamo trovato che ogni volta che viene pronunciata la domanda CHI SEI? Non siamo più tanto certi della nostra padronanza, l’io è già preso in una relazione di alterità, l’altro questa volta non è FUORI DI SÉ, ma è l’altro che sono io, alterità che abbiamo cercato di esorcizzare, di porre fuori di noi. Altro che è anche l’inconscio della PSICOANALISI, quell’ES che deve diventare IO, ma che proprio per questo resta sempre in debito con la sua verità e non coincide mai pienamente con se stesso.
La scrittura come destinazione e disseminazione • La gettatezza dell’uomo come Dasein (HEIDEGGER) per Derrida è esperibile nella scrittura che è trama di rinvii, esercizio di destinazione, apertura e circolazione del discorso. Il linguaggio stesso si offre come INVIO E DESTINAZIONE, o meglio come trame di invii, rinvii e destinazioni, plurali, eterogenei. La scrittura pertanto è invio anche se manca il destinatario (una lettera può sempre non arrivare a destinazione, perdersi, andare distrutta, arrivare a un destinatario errato), ma questa negatività (mortalità, finitezza) è essenziale perché qualcosa accada o arrivi, anzi, anche qualora la lettera dovesse arrivare, essa in un certo senso resta eccedente, nella sua alterità e unicità, manca cioè sempre in qualche modo il suo destinatario. La lettera non arriva mai pienamente a destinazione, ora proprio questo paradosso costituisce la possibilità stessa dell’arrivare stesso della lettera nel momento in cui essa si sottrae al suo arrivo.
L’impossibile della giustizia • Derrida porta a fondo l’interrogazione di Levinas a partire dall’esperienza dell’impossibile della giustizia. Dobbiamo innanzitutto distinguere la legge e il diritto, dalla giustizia. La legge è istituita da un atto performativo e per questo non è mai senza violenza, la legge può essere violenta, ma si tratta di una violenza che deve essere rischiata, per scongiurarne una più grande che è l’assenza di legge. Ebbene, oggetto della DECOSTRUZIONE è sempre la legge, mai la giustizia. La GIUSTIZIA è INDECOSTRUIBILE. La DECOSTRUZIONE cioè si trova TRA un incalcolabile, la giustizia, e ciò che si sottomette al calcolo, il diritto. In questo spazio avviene la decisione tra in giusto e l’ingiusto, e si gioca la responsabilità del soggetto che agisce. Il senso della decostruzione è, perciò, di permettere l’esercizio del giudizio. Si chiede Derrida: posso io affermare, sono giusto, senza tradire la giustizia, con sicurezza, in coscienza? Ecco, tale sicurezza è impossibile. Per questo dobbiamo dire che la giustizia è impossibile? La giustizia, risponde Derrida, è sì impossibile, ma non perché essa non possa essere praticata o peggio non ci sia, ma perché al contrario la prassi della giustizia resta l’esperienza di una trascendenza. La GIUSTIZIA è incalcolabile, è una ingiunzione, non è costruita e pertanto non può essere de-costruita, come lo è il diritto. In questo senso la decostruzione può essere rettamente intesa come il nostro modo finito di rapportarci all’infinito.
Il tema del GIUDIZIO è centrale in Derrida. Si deve giudicare, ma come si deve giudicare? La risposta di Derrida alla domanda come si può giudicare in assenza di criteri, quando non si hanno né il potere né i mezzi per giudicare, si trova in un dialogo serrato che Derrida intrattiene con Lyotard, in Pregiudicati davanti alla legge: “se avessimo a disposizione il criterio per giudicare, ci sarebbe tutt’al più sapere, tecnica, applicazione di un codice, apparenza di decisione, simulacro narrativo”. Devo chiedermi: come giudicare? E questa domanda tornerà a tormentarmi se si dovrà essere giusti volta per volta, “volta per volta bisognerà decidere, pronunciarsi, giudicare e poi meditare se era ciò, essere giusti”. IL GIUDIZIO è l’esercizio di una giustizia infinita, mai compiuta, nella consapevolezza che nessuna decisione è mai pienamente giusta se posta in relazione con la giustizia. Questa consapevolezza inaugura un compito, il compito di calcolare, di esercitare il diritto, la negoziazione, mantenendo però la distinzione tra l’esercizio finito del diritto e la giustizia infinita.
la democrazia a venire Solo un soggetto la cui esperienza è da sempre esperienza dell’altro può accogliere ciò che lo sorprende: la struttura di una soggettività costitutivamente destrutturata e alterata dall’alterità è aperta alla rivelazione, e dunque alla religiosità (messianismo senza messia), ed è per questo anche aperta all’ospitalità e dunque alla dimensione politica di una democrazia a venire: “L’ospitalità assoluta è il sì rivolto all’arrivante, il vieni dell’avvenire che non può essere anticipato, aperta in attesa dell’evento come giustizia”. Spettri di Marx, 211. Si tratta niente di meno che di rendere abitabile il nostro spazio e il nostro tempo, di aprirlo all’avvenire, obbligandoci a pensare un altro spazio per la democrazia, per la democrazia a venire e quindi per la giustizia.