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IMMANUEL KANT. Il cartografo della conoscenza umana. Parte terza: la Critica della ragion pratica. Critica della ragion pura e critica della ragion pratica.
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IMMANUEL KANT Il cartografo della conoscenza umana. Parte terza: la Critica della ragion pratica
Critica della ragion pura e critica della ragion pratica • Critica della ragion pura significa volontà di criticare le pretese della ragione proprio quando vuole essere “pura” cioè operare al di fuori dell’ambito assegnato all’intelletto umano, ossia la conoscenza della realtà per mezzo di un’intuizione sensibile rielaborata dalle categorie dell’intelletto e gestita dall’Io penso. Quando la ragione non vuole aver nulla a che fare con la sensibilità, esce dal suo ambito, pretende di conoscere noumeni, cioè le cose come sono in sé, e cade in errori strutturali e necessari. • La critica della ragion pratica vuole invece criticare la ragione che muove la volontà e determina l’agire umano (praxis=azione) proprio in quanto la sensibilità pretende di avere un ruolo predominante nel determinare le scelte umane.
Leggi universali e sensibilità Quindi se la critica della ragion pura nell’ambito della conoscenza (in ambito teoretico), andando alla ricerca delle leggi universali e necessarie che governano la natura insegna ad attribuire una funzione indispensabile alla sensibilità, la critica della ragion pratica in ambito morale, andando alla ricerca di una legge morale universale e necessaria per tutti gli uomini vuole dimostrare la possibilità della ragione di guidare i comportamenti umani a prescindere dalla sensibilità.
Che cosa significa sensibilità in ambito pratico? • In ambito teoretico quando diciamo sensibilità alludiamo alle intuizioni sensibili dei fenomeni attuate per mezzo delle forme a priori di spazio e tempo. • In ambito pratico la sensibilità è tutto quanto riguarda gli appetiti sensibili e le strategie messe in atto dall’uomo per soddisfarli. Appetito sensibile è per esempio la ricerca del piacere, della soddisfazione (anche spirituale), l’idea di un utile soggettivo (faccio x perché mi dà vantaggi), il trasporto emozionale (reagisco con impeto pari allo stimolo ricevuto), lo sfogo, tutto quanto riguarda il mantenimento delle propri condizioni di vita. • In sostanza è sensibilità tutto ciò che non è oggetto di un pensiero razionale in grado di dire che un’azione è consigliabile all’uomo, ed è anche un dovere, perché è giusta sul piano razionale. • La scommessa di Kant è quella di dimostrare che l’uomo può porre la ragione come unica guida del suo comportamento, escludendo appunto tutti i motivi sensibili.
I principi pratici Kant comincia con la spiegazione dei criteri più generali secondo i quali noi agiamo. Essi sono appunto principi perché comprendono nel loro concetto altre regole più particolari. Per esempio principio generale può essere: “giova al prossimo”, mentre regola particolare è, sotto tale concetto, quella di aiutare gli anziani a far la spesa, oppure di insegnare ai bambini o di visitare gli ammalati.
Massime e imperativi • I principi pratici generali possono essere di due tipi: • Le massime che valgono solo per i singoli soggetti. P. es. : vendicati dell’offesa ricevuta • Gli imperativi che sono sempre validi per tutti ed esprimono una necessità oggettiva di agire nel modo da loro prescritto. Essi possono essere ipotetici o categorici.
Imperativi ipotetici • Gli imperativi ipotetici indicano la necessità di agire in un dato modo, a partire dall’ipotesi che si voglia raggiungere un determinato obiettivo. P. es. se vuoi camminare in montagna, munisciti di appositi scarponi. “Munisciti di appositi scarponi” vale solo nell’ipotesi che uno voglia andare in montagna. Insomma gli imperativi ipotetici ci indicano i mezzi adatti a determinati fini. Sono necessari, ma condizionatamente, cioè sotto la condizione che uno scelga di raggiungere un determinato scopo.
Imperativi categorici • Essi sono prescrizioni che valgono incondizionatamente per ogni essere razionale, in qualsiasi circostanza, prescindendo dagli effetti che ciascuno vuole ottenere. • Nell’imperativo categorico vi è un sostanza un ordine che proviene direttamente ed esclusivamente dalla ragione, in modo assolutamente a priori, cioè a prescindere da ogni esperienza o circostanza. Essa stabilisce quale sia l’azione buona in sé senza alcun secondo fine. Per esempio: non rubare è un’indicazione che vale sempre, in ogni luogo e tempo e nei confronti di ogni persona.
Che cosa è che ci fa capire che un imperativo è categorico • Per individuare ciò che costituisce un dovere sempre e comunque, bisogna guardare alla forma del comando, cioè alla sua intrinseca razionalità. In effetti quando dico che non bisogna rubare sto già applicando ad un contenuto specifico, il rubare appunto, il criterio universale della razionalità. Infatti mi devo domandare perché non devo rubare?, Perché vale l’indicazione non rubare? La risposta è perché è un comando universale che può e deve essere compreso e accettato da tutti coloro che sono forniti di ragione.
L’essenza razionale dell’imperativo categorico • L’essenza dell’ IC consiste nel prescindere dal contenuto, da ciò che di volta in volta è oggetto della volontà. La volontà non deve essere mossa da un oggetto che la attrae: se io mangio un gelato sottraendolo alla mia nipotina, perché sono attratto dal gusto del cioccolato e non so resistervi, non mi comporto in modo umano e razionale, ma in modo animale. La mia volontà è schiava di un oggetto – il gelato – che trova davanti a sé, ed è quindi mossa da un motivo sensibile. Questa è la radice di tutti i mali, perché i motivi sensibili sono particolari, dipendono dal soggetto, cioè non sottostanno ad alcuna regola, sono scriteriati per antonomasia e nella loro sensibilità prescindono da ciò che l’uomo ha di più grande per orientare le sue azioni, la ragione.
L’imperativo categorico formale e universale • L’imperativo categorico invece ha come criterio solo la razionalità del nostro agire. Non comanda quindi qualcosa di particolare ma ci da una regola alla quale la nostra volontà deve sempre adeguarsi qualsiasi sia l’oggetto che ha davanti. E’ quindi formale. Essere formale vuol dire rappresentare una legge applicabile a diversi casi, la cui caratteristica è la generalità e universalità. • Se io qualsiasi cosa faccia, mi adeguo alla legge formale e universale della ragione, eviterò di cadere nel male, cioè mi comporterò sempre in modo che qualsiasi altro uomo possa con la sua ragione approvare quello che sto facendo.
Le formule dell’imperativo categorico. • Questa idea di una legge morale esclusivamente razionale cui la volontà si deve adeguare si concretizza in precise formule che devono guidare il comportamento umano. • Kant le specifica nella sua opera La fondazione della metafisica dei costumi del 1785.
La prima formula • La prima formula così recita: “Agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso che divenga legge universale”. In sostanza l’IC in questa formula prevede che noi, ogniqualvolta ci proponiamo di compiere un’azione, ci domandiamo se la regola in base alla quale compiamo quell’azione possa essere estesa universalmente, possa cioè essere sempre e ovunque valida per tutti.
L’esempio di Kant • Poniamo il caso che un tizio si trovi nel bisogno. Egli chiede un prestito a un amico, garantendone la restituzione, sapendo però che non sarà mai in grado di rifonderlo. La massima in base alla quale egli agisce è la seguente: ogni volta che hai problemi economici, chiedi un prestito e fai di tutto per ottenerlo, poco importa se sai di non poterlo restituire. Ora proviamo ad estendere questa massima ad ogni caso e ad ogni persona. Tale prassi vanificherebbe ogni promessa e renderebbe dunque impossibile ad ognuno chiedere qualcosa, visto che dopo un po’ nessuno si fiderebbe più di nessuno. Quindi la massima del nostro tizio non è universalizzabile, cioè non rispetta le condizione dell’IC e dunque l’azione che sta compiendo è MALE.
La seconda formula • La seconda formula così recita: “Agisci in modo da considerare l’essere umano, sia nella tua persona, sia nella persona di qualsiasi altro, sempre anche come fine e mai come semplice mezzo”. Qui si dice che ogni persona, per il fatto di possedere la razionalità, ha una dignità intrinseca di cui la volontà deve sempre tener conto. In effetti nella misura in cui la volontà segue l’IC, essa è razionale, dunque pone la razionalità stessa come criterio inaggirabile, come fine ultimo cui adeguarsi. In tal senso l’umanità razionale non può essere diventare mezzo per raggiungere un altro fine, giacché così la razionalità non sarebbe criterio ultimo, ma sarebbe asservita a qualcos’altro (a qualche motivazione sensibile e perciò stesso inadeguata alla dignità umana).
La terza formula • La terza formula, simile alla prima, dice così: “Agisci come se la massima della tua azione dovesse diventare, per tua volontà, una legge universale di natura”. Qui Kant istituisce un paragone tra la forza e cogenza delle leggi di natura e quella delle leggi morali. La differenza tra le due è che la legge morale può essere disattesa, mentre ciò che accade in natura secondo una legge non può accadere diversamente (mentre è possibile che una persona si comporti come non dovrebbe, non è possibile che un corpo non cada nel vuoto secondo la legge di gravitazione universale, deve sempre andare così). Orbene, per la mia volontà, l’IC deve avere la stessa forza, come se fosse una legge di natura, con la sua stessa universalità e necessità.
Etica dell’intenzione • Sempre quando si tratta di agire in base all’IC ciò che conta è che la mia volontà si correttamente conformata alle suddette formule. Non importa il bene che conseguo, cioè se la mia volontà raggiunga un qualche scopo, non importa il successo o l’insuccesso dell’azione, conta solo il fatto che nella mia intenzione vi sia l’effettivo adeguamento a quelle regole fondamentali che la rendono buona. Buona è dunque sempre la mia volontà, non gli oggetti che di volta in volta essa ha di fronte. Essi divengono buoni se la mia intenzione è buona.
Esempio (ovviamente non di Kant) • Non conta se io rispettando i limiti di velocità perché è universalmente valido che la circolazione dei mezzi di trasporto sia regolata in modo da evitare il rischio di incidenti (cfr. prima e seconda formula) Arrivo a scontrarmi proprio nel momento x con un auto che non rispettava i suddetti limiti E che tale incidente si sarebbe potuto evitare con una velocità leggermente più sostenuta, arrivando al luogo dell’incidente al momento x-1 in cui l’auto responsabile non è ancora presente. Conta la mia volontà buona di rispettare una regola che è adeguata all’imperativo categorico. Se poi il caso vuole che mi succeda lo stesso di avere un incidente, di questo non potrò certo mai essere accusato.
La purezza del dovere (il rigorismo kantiano) • Solo il rispetto dell’IC determina la bontà di un’azione. Qualsiasi altro movente inquina la bontà di ciò che si sta facendo. Per esempio se io mi comporto correttamente con una persona, restituendole un prestito che mi ha fatto, semplicemente perché mi è simpatica, il movente della mia azione non è la sua razionalità, ma un sentimento passeggero, quindi la mia azione non è buona. Se io sto a dieta perché ho mal di stomaco, e non invece perché preservare la salute con un’adeguata alimentazione fa parte di quella considerazione della mia umanità come fine delle mie azioni, la mia azione non è buona. Se io rispetto i limiti di velocità solo in presenza di un autovelox, la mia azione è legale e non morale.
Legalità e moralità • La legalità è il rispetto di una legge civile che mi obbliga solo a comportarmi in un determinato modo, nelle relazioni esterne con gli altri uomini. E’ chiaro che il rispetto di una legge esterna non implica ancora che le mie azioni siano buone (anche perché qui può intervenire come movente la paura di eventuali sanzioni). La moralità riguarda la mia volontà, si determina solo nel mio foro interno e ammette come unico movente la razionalità dell’IC.
L’unico sentimento ammesso • I sentimenti, in quanto moventi sensibili, sono esclusi da Kant dalla determinazione dei moventi dell’azione buona. Kant però ammette un unico sentimento che ha un risvolto eticamente positivo. Questo è il RISPETTO per la grandezza e il valore dell’IC, elementi che naturalmente nell’uomo sensibile determinano un atteggiamento di umile riconoscimento. Tale rispetto ovviamente si trasferisce alle persone in quanto soggetti razionali e centri di una legislazione morale universale.
Libertà • L’IC si impone all’uomo come un fatto di ragione: non è ulteriormente spiegabile e deducibile. Basta che si sia in presenza di un essere razionale, e l’IC appare in tutta la sua forza ed evidenza. Il suo apparire al tempo stesso dice che l’essere razionale è libero, Infatti libertà qui non significa poter fare a meno di adeguarsi al dovere così come emerge dall’IC, ma proprio adeguarsi al dovere, AFFRANCANDOSI e LIBERANDOSI al tempo stesso da tutte le motivazioni sensibili e particolari e da tutto le circostanze degli accadimenti fenomenici.
Autonomia ed eteronomia • La razionalità è ciò che è più nostro, è ciò che ci appartiene e ci caratterizza nel profondo. Dunque quando noi seguiamo l’IC non facciamo altro che seguire noi stessi. Il nostro modo di agire sarà allora autonomo, mentre qualora seguissimo sentimenti, inclinazioni, voglie del momento, saremmo schiavi di quegli oggetti che li hanno prodotti. Quindi in quest’ultimo caso la nostra morale sarebbe eteronoma, cioè dipendente da qualcosa di “altro” e di “esterno” noi.
Il primato della legge • Dal complesso della dottrina kantiana emerge il primato in morale della legge sul bene. Non è infatti un bene individuato che determina la legge che impone di rispettarlo, ma la legge razionale che ci indica che cosa di volta in volta è bene fare (ciò che è bene lo è perché è comandato dalla legge). La legge, poi, essendo un fatto di ragione, ossia qualcosa che si impone con la massima evidenza a chiunque sia dotato di ragione, non è ulteriormente giustificabile. Alla domanda: “Perché è dovere compiere una data azione?”, la risposta non può che essere “Perché è evidente razionalmente che si deve”. In sostanza vi è un primato assoluto del dovere: “Devi perché devi”.
I postulati della ragion pratica • Quelle idee di ragione che la Critica della ragion pura aveva individuato dal punto di vista conoscitivo come degli errori strutturali e necessari, divengono indispensabili perché esista la legge morale, così come è stata individuata da Kant. La libertà (oggetto della terza antinomia cosmologica), l’anima e Dio (idea psicologica e teologica) sono necessari per ammettere la legge morale e il suo esercizio, e quindi diventano “postulati” della ragion pratica. Vediamo perché…
La libertà • L’IC è una proposizione sintetica a priori. Infatti essa è formulata a prescindere da qualsiasi motivo empirico (è interamente a priori), eppure ci indica concretamente qualcosa da attuare (è sintetica: ci dice qualcosa di più). Ora, tale proposizione implica necessariamente la libertà, infatti presuppone che l’uomo possa agire conformando la propria volontà non alle inclinazioni sensibili, ma all’imperativo stesso. Altrimenti, senza questa possibilità di scelta, l’uomo non sarebbe responsabile delle sue azioni, e cadrebbe l’intera morale. Dunque l’esistenza stessa della legge morale stabilisce che l’uomo è libero.
La libertà come concetto pratico • Io non posso se esista nel mondo la libertà. Essa non è una cosa di cui vi sia una intuizione sensibile. Però posso stabilire che l’uomo è liberto a partire dalla presenza in lui dell’imperativo categorico. In tal modo non si conosce il “che cosa” della libertà, ma la si sperimenta ogniqualvolta siamo chiamati ad agire in un determinato modo. La libertà dunque è un concetto valido praticamente e non teoreticamente.
Dio • L’uomo deve agire solo in vista dell’adempimento della legge morale, a prescindere da qualsiasi altro motivo, compresa la ricerca della felicità. Ma è un dato di fatto che l’uomo aspira ad esser felice. Come conciliare tale aspirazione ineliminabile, con la legge morale e i suoi motivi? Dio garantisce che l’uomo, nell’adeguarsi alla legge morale e dunque nel rendersi degno di essere felice, sarà soddisfatto in questa sua aspirazione, anche se nel mondo in cui egli vive spesso le due cose non vanno di pari passo. Non essere felice, pur essendone degno, sarebbe un assurdo: Dio è colui che mi permette di pensare una garanzia della mia felicità che oltrepassi l’antinomia (contraddizione) presente nella ragion pratica tra rispetto della legge e felicità.
Il concetto pratico di Dio • Anche qui Dio non va pensato come un ente conoscibile con gli strumenti della scienza, bensì come un essere necessario a partire dall’esistenza in noi della legge morale. Egli deve esistere, non perché noi lo possiamo conoscere, bensì peché in noi vi è un dovere che deve essere conciliabile con la nostra aspirazione ad essere felici.
L’anima • La santità può essere definita la perfetta aderenza alla legge morale. • Essa è richiesta dalla stessa legge morale, che non ammette eccezioni né compromessi. • Tuttavia, a causa della sua strutturale imperfezione, l’uomo non può attuarla nella sua vita, per quanto vi si sforzi. • Allora bisogna ammettere che la sua anima possa trovare la santità in un progresso che ha da essere infinito. Ma un progresso infinito verso la piena osservanza della legge deve presupporre che l’anima non muoia, perché l’essere ragionevole deve poter portare a termine il processo infinito di adeguamento. Ciò prende il nome di immortalità dell’anima.
Il concetto pratico di anima e il primato della ragion pratica • Per l’anima vale quanto detto a proposito della libertà e di Dio. Essa non è una cosa conoscibile teoreticamente, ma un postulato che deve essere premesso alla legge morale. • Libertà anima e Dio sono dunque tre idee di ragione, inconoscibili, ma da postulare a partire dalla legge morale. • Il noumeno, pertanto, come elemento che resta fuori dalle possibilità della ragione teoretica e conoscitiva, diventa accessibile attraverso la ragion pratica. Ciò fonda il primato della ragion pratica su quella teoretica.