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CARTESIO. Storia della Filosofia II. I termini del problema.
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CARTESIO Storia della Filosofia II
I termini del problema Il metodo che Cartesio cerca è nello stesso tempo teoretico e pratico: esso, infatti, deve condurre a saper distinguere il vero dal falso anche e soprattutto in vista dell'utilità e dei vantaggi che possono derivarne alla vita umana. La filosofia che ne risulterà dovrà pertanto essere una filosofia «non puramente speculativa, ma anche pratica, per la quale l'uomo possa rendersi padrone e possessore della natura».
Il metodo deve essere dunque un criterio di orientamento unico e semplice, che serva all'uomo in ogni campo teoretico e pratico, e che abbia come ultimo fine il vantaggio dell'uomo nel mondo. «Quelle lunghe catene di ragionamenti, semplici e facili, di cui i geometri si servono per giungere alle loro più difficili dimostrazioni, mi dettero motivo a supporre che tutte le cose di cui l'uomo può avere conoscenza si seguono nello stesso modo». (Regole per dirigere l'ingegno, III, 5)
Le scienze matematiche, per Cartesio, sono già in possesso del metodo, che applicano normalmente. Eppure prendere coscienza delle regole metodiche della matematica, astrarle da tali discipline e formularle in generale per poterle applicare a tutte le altre branche del sapere non è sufficiente. È necessario, infatti, anche giustificarle. In altri termini, si tratta di giustificare il metodo riportandolo al suo fondamento ultimo.
Cartesio deve dunque: formulare le regole del metodo, tenendo soprattutto presente il procedimento matematico, nel quale esse già sono in qualche modo presenti; fondare con una ricerca metafisica il valore assoluto e universale del metodo individuato; dimostrare la fecondità del metodo nei vari rami del sapere. Tale è il compito filosofico di Cartesio.
Le regole Per quanto riguarda il primo punto, la seconda parte del Discorso sul metodo ci dà la formulazione più matura e semplice delle regole del metodo. Esse sono quattro: 1) Non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza; cioè evitare diligentemente la preoccupazione e la prevenzione; e non comprendere nei miei giudizi niente di più di ciò che si presentasse così chiaramente e così distintamente al mio spirito che io non avessi alcuna occasione di metterlo in dubbio. Questa è per Cartesio la regola fondamentale, la quale prescrive l'evidenza, l'intuizione chiara e distinta di tutti gli oggetti del pensiero e l'esclusione di ogni elemento sul quale sia possibile una qualche forma di dubbio.
2) Dividere ciascuna delle difficoltà da esaminare nel maggior numero di parti possibili e necessarie per meglio risolverla. Questa è la regola dell'analisi, per la quale un problema viene risolto nelle sue parti più semplici, da considerarsi separatamente. 3) Condurre i miei pensieri ordinatamente, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi per risalire a poco a poco, quasi per gradi, fino alle conoscenze più complesse; supponendo che vi sia un ordine anche tra gli oggetti che non precedono naturalmente gli uni agli altri. Questa è la regola della sintesi, per la quale si passa dalle conoscenze più semplici alle più complesse gradatamente, presupponendo che ciò sia possibile in ogni campo.
4) Fare in ogni caso enumerazioni così complete e revisioni così generali da essere sicuro di non omettere nulla. L'enumerazione controlla l'analisi, la revisione controlla la sintesi. Questa regola offre così il controllo delle due precedenti.
Fondazione del Metodo Trovare il fondamento di un metodo che dev'essere la guida sicura della ricerca in tutte le scienze è possibile, secondo Cartesio, solo con una critica radicale di tutto il sapere già dato. Bisogna sospendere l'assenso a ogni conoscenza comunemente accettata, dubitare di tutto e considerare almeno provvisoriamente come falso tutto ciò su cui il dubbio è possibile. Se, persistendo in questo atteggiamento di critica radicale, si giungerà a un principio sul quale il dubbio non è possibile, questo principio dovrà essere ritenuto saldissimo e tale da poter servire di fondamento a tutte le altre conoscenze.
Dal Dubbio Metodico al Dubbio Iperbolico Cartesio ritiene che nessun grado o forma di conoscenza si sottragga al dubbio. Si deve dubitare delle conoscenze sensibili, perché i sensi qualche volta ci ingannano e quindi possono ingannarci sempre. Ci sono bensì conoscenze non sensibili, come le conoscenze matematiche, ma neppure queste conoscenze si sottraggono al dubbio. Infatti si può sempre supporre che l'uomo sia stato creato da una potenza malvagia che si sia proposta di ingannarlo facendogli apparire chiaro ed evidente ciò che è falso e assurdo. Ma basta fare quest'ipotesi (e si può farla, dato che non si sa alcunché) perché anche le conoscenze che appaiono più certe si rivelino capaci di celare l'inganno. In tal modo il dubbio si estende a ogni cosa e diventa assolutamente universale: si giunge così al cosiddetto dubbio "iperbolico".
Ma proprio nel carattere radicale di questo dubbio si intravede una prima certezza. Io posso ammettere di ingannarmi o di essere ingannato in tutti i modi possibili, ma per ingannarmi o per essere ingannato io debbo esistere, cioè essere qualcosa e non nulla. La proposizione "io esisto" è dunque la sola assolutamente vera, perché il dubbio stesso la conferma; infatti può dubitare solo chi esiste: cogito ergo sum.
La natura del cogito La proposizione "io esisto" contiene evidentemente anche una prima indicazione su ciò che sono io che esisto. Non posso certo dire di esistere come corpo, giacché non so ancora nulla dell'esistenza dei corpi, intorno ai quali il mio dubbio permane. Pertanto io non esisto se non come cosa che dubita, cioè che pensa. In altre parole, la certezza del mio esistere concerne solo e tutte le determinazioni del mio pensiero: il dubitare, il capire, il concepire, l'affermare, il negare, il volere, il non volere, l'immaginare, il sentire... Le cose pensate, immaginate, sentite ecc. possono, a quel che ne so, non essere reali; ma è reale certamente il mio pensare, il mio sentire ecc.
La proposizione "io esisto" equivale dunque alla proposizione "io sono un soggetto pensante", cioè spirito, intelletto o ragione. La mia esistenza di soggetto pensante è certa come non lo è l'esistenza di nessuna delle cose che penso. Può ben darsi che ciò che io percepisco non esista; ma è impossibile che non esista io che penso di percepire quell'oggetto. Su questa certezza originaria, che è nello stesso tempo verità necessaria, deve essere dunque fondata ogni altra conoscenza.
La critica di Gassendi Secondo Gassendi il cogito sarebbe una forma di sillogismo abbreviato, del tipo "Tutto ciò che pensa esiste. Io penso, dunque esisto", e quindi risulterebbe infondato, in quanto il principio "Tutto ciò che pensa esiste" cade preliminarmente, come tutto il resto, con l'ipotesi del genio maligno, Cartesio risponde che il cogito non è un ragionamento, ma un'intuizione immediata della mente.
La critica di Hobbes Secondo Hobbes, Cartesio avrebbe senz'altro ragione nel dire che l'io, in quanto pensa, esiste, ma avrebbe torto nel pretendere di pronunciarsi su come esso esista, definendolo «uno spirito, un'anima». In ciò Cartesio sarebbe simile a chi dicesse: «Io sto passeggiando, quindi sono una passeggiata». Infatti il quid, o la x, che pensa, la sostanza di quell'atto che è il pensiero, potrebbe essere benissimo il corpo o il cervello, ossia qualcosa di materiale. Cartesio replica affermando: che l'uomo non passeggia costantemente, però pensa sempre, per cui il pensiero, per lui, risulta essenziale; 2. che il pensiero indica talvolta l'atto del pensiero, talvolta la facoltà del pensiero, talvolta la cosa o sostanza con cui si identifica tale facoltà. Pertanto, in quest'ultimo caso, si può legittimamente parlare di una sostanza pensante, la cui essenza è appunto costituita dal pensiero.
Dio come giustificazione delle certezze umane Il principio del cogito non mi rende sicuro se non della mia esistenza ed evidenza, ma lascia ancora aperta la questione delle altre esistenze ed evidenze, sulle quali continua a gravare l'ipotesi del genio maligno. Infatti, io sono un essere pensante che ha idee (intendendo per idea ogni oggetto del pensiero). Queste idee esistono nel mio spirito; ma esistono anche le cose a esse corrispondenti, fuori di me? Per rispondere a questa domanda, Cartesio divide tutte le idee in tre categorie: quelle che mi sembrano essere innate in me (innate); quelle che mi sembrano estranee o venute dal di fuori (avventizie); quelle formate o trovate da me stesso (fattizie).
L'idea di Dio e le prove dell'esistenza di Dio Per quel che riguarda le idee che rappresentano altri uomini o cose naturali, esse non contengono nulla di così perfetto che non possa essere stato prodotto da me. Per quel che riguarda l'idea di Dio, cioè di una sostanza infinita, eterna, onnisciente, onnipotente e creatrice, è invece difficile supporre che possa averla creata io stesso. Difatti io sono privo delle perfezioni che quell'idea rappresenta; e la causa di un'idea deve sempre avere almeno tanta perfezione quanta è quella che l'idea stessa rappresenta. La causa dell'idea di una sostanza infinita non posso essere io che sono una sostanza finita; questa causa dev'essere una sostanza infinita la quale, pertanto, deve essere ammessa come esistente. Questa è la prima prova dell'esistenza di Dio.
In secondo luogo, si può riconoscere l'esistenza di Dio partendo dal fatto che il mio io ha natura finita. Io sono finito e imperfetto, come è dimostrato dal fatto che dubito. Ma se fossi la causa di me stesso, mi sarei dato le perfezioni che concepisco e che sono appunto contenute nell'idea di Dio. È dunque evidente che non mi sono creato da me e che non può avermi creato che Dio, il quale mi ha creato finito pur dandomi l'idea dell'infinito.
A queste due prove Cartesio ne aggiunge una terza, che è la tradizionale prova ontologica. Non è possibile concepire Dio come Essere sovranamente perfetto senza ammettere la sua esistenza, perché l'esistenza è una delle sue perfezioni necessarie. Come non si può concepire un triangolo che non abbia gli angoli interni uguali a due retti, così non si può concepire un essere perfetto che non esista. D'altronde l'esistenza di Dio è richiesta, secondo Cartesio, dalla stessa durata della mia esistenza, giacché tutto ciò che non ha la causa in se stesso cesserebbe di esistere qualora la sua causa non continuasse incessantemente a crearlo. La creazione è continua.
Dio come garante dell'evidenza Dio, essendo perfetto, non può ingannarmi; la facoltà di giudizio, che ho ricevuta da Lui, non può essere tale da indurmi in errore, se viene adoperata rettamente. Tutto ciò che appare chiaro ed evidente deve essere vero, perché Dio lo garantisce come tale. Dio è dunque quel terzo termine che ci permette di passare dalla certezza del nostro io alla certezza delle altre evidenze
La possibilità dell'errore Ma com'è allora possibile l'errore? Esso dipende, secondo Cartesio, dal concorso di duecause, cioè dall'intelletto e dalla volontà. L'intelletto umano è limitato e noi possiamo infatti pensare un intelletto assai più esteso e addirittura infinito, quello di Dio. La volontà umana invece è libera e quindi assai più estesa dell'intelletto. Essa consiste nella possibilità di fare o non fare, di affermare o negare, e può fare queste scelte sia rispetto alle cose che l'intelletto presenta in modo chiaro e distinto, sia rispetto a quelle che non hanno chiarezza e distinzione sufficienti. In questa possibilità di affermare o di negare ciò che l'intelletto non riesce a percepire chiaramente risiede la possibilità dell'errore.
Il dualismo cartesiano Accanto alla sostanza pensante, che costituisce l'io, si deve ammettere, come si è visto, una sostanza corporea, divisibile in parti, quindi estesa. Tale sostanza estesa non possiede però tutte le qualità che noi percepiamo di essa. Cartesio fa sua la distinzione già stabilita da Galilei e che in realtà risale a Democrito. La grandezza, la figura, il movimento, la situazione, la durata, il numero (cioè tutte le determinazioni quantitative) sono certamente qualità reali della sostanza estesa; ma il colore, il sapore, l'odore, il suono ecc. non esistono come tali nella realtà corporea e corrispondono in questa realtà a qualcosa che noi non conosciamo.
In tal modo, Cartesio ha spezzato la realtà in due zone distinte ed eterogenee: da un lato la sostanza pensante (res cogitans), che è inestesa, consapevole e libera, da un lato; dall'altro la sostanza estesa (res extensa), che è spaziale, inconsapevole e meccanicamente determinata. Ma dopo aver tracciato questa divisione, Cartesio si trova di fronte al difficile problema di riunire le due sostanze, ovvero di spiegarne il rapporto scambievole, rendendo intelligibile, per quanto riguarda l'uomo, la relazione tra anima e corpo. Cartesio pensa di risolvere la questione con la teoria della ghiandola pineale (l'odierna epìfisi), concepita come la sola parte del cervello che, non essendo doppia, può unificare le sensazioni che vengono dagli organi di senso, i quali sono tutti doppi.
Il mondo fisico e la geometria La fisica cartesiana, sulla base della rigorosa separazione tra sostanza pensante e sostanza estesa, poté attuare finalmente la radicale eliminazione dei residui finalistici, antropomorfici, animistici, magici e astrologici che ancora infestavano la fisica agli inizi del Seicento. Il meccanicismo cartesiano riuscì a incidere profondamente sulla formazione della mentalità scientifica dell'epoca. Meccanicismo significa, ovviamente, determinismo. Una spontaneità della natura o una sua intrinseca casualità non sono ammissibili, poiché i fenomeni si svolgono secondo quel principio di oggettiva necessità causale che, come abbiamo già visto, è uno dei temi qualificanti della rivoluzione scientifica.
La geometria analitica La Geometria è la più importante delle tre appendici del Discorso sul metodo e costituisce in qualche modo l'atto di nascita della geometria analitica, la quale si colloca storicamente come punto di incontro tra i progressi dell'algebra realizzati nel corso del Cinquecento e il contemporaneo lento recupero della geometria classica. Cartesio ha chiara consapevolezza dell'unità delle diverse scienze matematiche, le quali, «sebbene i loro oggetti siano differenti, tuttavia si accordano tutte, perché negli oggetti esse considerano soltanto i diversi rapporti o proporzioni». Ritiene pertanto possibile unificare la geometria degli antichi con l'algebra dei moderni.
La fisica La fisica cartesiana pretende di ricondurre tutta l'infinita varietà dei fenomeni del mondo fisico ai due soli ingredienti dell'estensione e del moto. L'una e l'altro hanno origine da Dio,al quale si deve non solo la creazione della res extensa, ma anche il conferimento a essa di una certa determinata quantità di moto, indistruttibile non meno della materia: due principi fondamentali di conservazione, del moto e della materia. Altri interventi di Dio nel mondo, oltre al primo atto di creazione della materia e al primo impulso, non sono richiesti. Al Dio di Cartesio, come osserverà Pascal, basta aver dato il primo calcio al mondo; il resto va da sé.
L'identificazione della materia con l'estensione comporta alcune conseguenze di grande rilievo: lo spazio euclideo è infinito e pertanto infinita è anche la sostanza estesa; lo spazio geometrico è inoltre infinitamente divisibile, la materia perciò non può essere costituita di atomi; lo spazio è continuo, non ammette interruzioni, buchi, fenditure, di conseguenza non è concepibile il vuoto; l'estensione, d'altronde, è l'attributo di una sostanza, e pertanto non può sussistere senza una sostanza cui inerire; infine le qualità che attribuiamo alla materia in addizione all'estensione sono puramente soggettive, perché lo spazio è qualitativamente indifferenziato.
L'unico motore della grande macchina del mondo è costituito dall'originaria quantità di moto, che può distribuirsi in modi differenti tra i corpi attraverso gli urti. Il che significa che viene bandita ogni forza, attrattiva o repulsiva, e in particolare quelle forze che debbono manifestarsi a distanza: forze elettriche, magnetiche, gravitazionali. Sebbene il moto inerziale sia rettilineo, di fatto l'assenza del vuoto finisce inevitabilmente col produrre il chiudersi del moto in un circolo. Da un vortice è avvolta la Terra, come pure ciascun corpo celeste. Ma i vortici che avvolgono la Terra e i singoli pianeti ruotano a loro volta entro un vortice più ampio, da cui è avvolto il sole. Attraverso questo modello puramente meccanico Cartesio si lusinga di poter spiegare la gravità e il moto di rivoluzione dei pianeti senza far ricorso alle aborrite forze a distanza.
L'implacabile riduzionismo cartesiano non risparmiava neppure il mondo della vita. Le funzioni vitali non posseggono infatti alcunché di specifico che le differenzi dai fenomeni di natura meccanica: un essere vivente è solo una macchina, un automa, funzionante anch'esso in virtù dell'inerzia e della conservazione della quantità di moto. Lo stesso corpo dell'uomo è una macchina, di cui la rescogitanssi serve come di un proprio strumento; e, sebbene Cartesio si affanni a dichiarare che tra anima e corpo esiste un'intima connessione, talora si riceve l'impressione che il legame sia di tal natura che con la morte l'anima debba abbandonare il corpo, non più funzionante, un po' come un automobilista abbandona la sua macchina in panne. Ma la presenza di una rescogitanscapace di agire sulla resextensacostituisce un ulteriore motivo di debolezza del sistema cartesiano.
La morale "provvisoria" Prima di iniziare con il dubbio l'analisi metafisica, Cartesio aveva stabilito alcune regole di morale provvisoria, allo scopo di evitare di rimanere «irresoluto nelle sue azioni mentre la ragione lo obbligava ad esserlo nei suoi giudizi». La prima regola provvisoria era di obbedire alle leggi e ai costumi del paese. La seconda regola era di essere il più fermo e risoluto possibile nell'azione e di seguire con costanza anche l'opinione più dubbiosa, una volta che fosse stata accettata. La terza regola era di cercare di vincere piuttosto se stessi che la fortuna e di cambiare i propri pensieri più che l'ordine del mondo.
Lo studio delle passioni Cartesio distingue nell'anima azioni e affezioni: le azioni dipendono dalla volontà, le affezioni sono involontarie e sono costituite da percezioni, sentimenti o emozioni causati nell'anima dagli spiriti vitali, cioè dalle forze meccaniche che agiscono nel corpo. Evidentemente la forza dell'anima consiste nel vincere le emozioni e nell'arrestare i movimenti del corpo che le accompagnano, mentre la sua debolezza consiste nel lasciarsi dominare dalle emozioni, le quali, essendo spesso contrarie tra loro, sollecitano l'anima di qua e di là, portandola a combattere contro se stessa e riducendola nello stato più deplorevole.
Ciò d'altronde non vuol dire che le emozioni siano solo nocive. Esse si rapportano tutte al corpo e sono date all'anima in quanto è congiunta con esso; sicché hanno la funzione naturale di incitare l'anima ad acconsentire alle azioni che servono a conservare il corpo. In questo senso la tristezza e la gioia sono le emozioni fondamentali. Dalla prima infatti l'anima è avvertita delle cose che nuocciono al corpo e così prova l'odio verso ciò che le causa tristezza e il desiderio di liberarsene. Dalla gioia invece l'anima è avvertita delle cose utili al corpo e così prova amore verso di esse e il desiderio di acquistarle o di conservarle. L'uomo deve lasciarsi guidare, per quanto è possibile, non da esse, ma dall'esperienza e dalla ragione: solo così potrà distinguere nel loro giusto valore il bene e il male ed evitare gli eccessi. In questo dominio sulle emozioni consiste la saggezza.