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Giurisprudenza Nazionale sul principio dell’uguaglianza di genere. Discriminazioni: tra normativa e casi concreti. mercoledì 16 ottobre 2013 Corso donne politica e istituzioni Avv. Lucrezia Z ingale. Sentenza del 13 maggio 1960, N. 33.
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Giurisprudenza Nazionale sul principio dell’uguaglianza di genere. Discriminazioni: tra normativa e casi concreti mercoledì 16 ottobre 2013 Corso donne politica e istituzioni Avv. Lucrezia Zingale
Sentenza del 13 maggio 1960, N. 33 La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 7 della legge n. 1176 del 17 luglio 1919 che esclude le donne da tutti gli uffici pubblici che implicano l’esercizio di diritti e potestà politiche, in riferimento all’art. 3 e all’art. 51, primo comma, della Costituzione (Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge).
Ora, non può essere dubbio che una norma che consiste nell’escludere le donne in via generale da una vasta categoria di impieghi pubblici, debba essere dichiarata incostituzionale per l’irrimediabile contrasto in cui si pone con l’art. 51, il quale proclama l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive degli appartenenti all’uno e all’altro sesso in condizioni di eguaglianza. Questo principio é stato già interpretato dalla Corte nel senso che la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa, non può comportare, cioè, un trattamento diverso degli appartenenti all'uno o all'altro sesso davanti alla legge. Una norma che questo facesse violerebbe un principio fondamentale della Costituzione, quello posto dall'art. 3, del quale la norma dell'art. 51 è non soltanto una specificazione, ma anche una conferma. La Corte Costituzionale nel 1960 afferma
IL REVIREMENT DELLA CORTE COSTITUZIONALE SUL REATO DI ADULTERIO Art. 559 c.p. La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. Con la stessa pena è punito il correo dell'adultera. La pena è della reclusione fino a due anni nel caso di relazione adulterina. Il delitto è punibile a querela del marito. Corte Cost. sent n. 64/61 Corte Cost. sent n. 126/68
Sentenza n. 64 del 28 novembre 1961 La Corte nel 1961 ritiene legittimo il diverso trattamento dell’adulterio della donna rispetto a quello dell’uomo. Perchè?
La difesa dell’ Avvocatura dello Stato Oggetto della tutela, nella norma dell'art. 559, non é soltanto il diritto del marito alla fedeltà della moglie, bensì il preminente interesse dell'unità della famiglia, che dalla condotta infedele della moglie é leso e posto in pericolo in misura che non trova riscontro nelle conseguenze di una isolata infedeltà del marito.
La giustificazione della disparità é da ricercarsi in ciò che non è uguale. Il comportamento infedele non determina eguali conseguenze a seconda che sia dell'uomo o della donna. La punibilità soltanto della donna nel caso di un singolo atto diinfedeltà trova fondamento nella diversa gravità dellepossibili conseguenze dell'atto. E basti a tal proposito pensare alla presunzione dell'art. 231 del Codice civile, per cui il marito è padre del figlio concepito durante il matrimonio.
Rileva preliminarmente che se il legislatore, e in particolare ilCostituente, orienta la evoluzione della norma nel senso della evoluzione del costume, non può sovvertire, nella malintesa attuazione di principi insussistenti, le regole che esprimono il lento evolversi degli usi e delle tradizioni.
Le motivazioni della Corte Costituzionale nella sentenza del 1961 ….che la moglie conceda i suoi amplessi ad un estraneo é apparso al legislatore, in base, alla prevalente opinione, offesa più grave che non quella derivante dalla isolata infedeltà del marito. … trattasi della constatazione di un fatto della vita sociale, di un dato della esperienza comune, cui il legislatore ha ritenuto di non poter derogare. Da solo esso é idoneo a costituire quella diversità di situazione che esclude ogni carattere arbitrario e illegittimo nella diversità di trattamento. Del resto, nel disporre un siffatto trattamento, il legislatore penale, lungi dall'ispirarsi a sue limitate particolari vedute, non ha fatto che adeguarsi a una valutazione dell'ambiente sociale che, per la sua generalità, ha influenzato anche altre parti dell'ordinamento giuridico; come può chiaramente desumersi, tra l'altro, dall'art. 151 del Codice civile, il quale per l'adulterio della moglie consente l'azione di separazione in ogni caso, mentre per l'adulterio del marito la subordina alla condizione che il fatto costituisca una ingiuria grave a danno della moglie.
É innegabile che anche l'adulterio del marito può, in date circostanze, manifestarsi coefficiente di disgregazione della unità familiare; ma, come per la fedeltà coniugale, così per la unità familiare il legislatore ha evidentemente ritenuto di avvertire una diversa e maggiore entità della illecita condotta della moglie, rappresentandosi la più grave influenza che tale condotta può esercitare sulle più delicate strutture e sui più vitali interessi di una famiglia:
in primo luogo, l'azione disgregatrice che sulla intera famiglia e sulla sua coesione morale cagiona la sminuita reputazione nell'ambito sociale; indi, il turbamento psichico, con tutte le sue conseguenze sulla educazione e sulla disciplina morale che, in ispecie nelle famiglie (e sono la maggior parte) tuttora governate da sani principi morali, il pensiero della madre fra le braccia di un estraneo determina nei giovani figli, particolarmente nell'età in cui appena si annunciano gli stimoli e le immagini della vita sessuale; • non ultimo il pericolo della introduzione nella famiglia di prole non appartenente al marito, e che a lui viene, tuttavia, attribuita per presunzione di legge, a parte la eventuale azione di disconoscimento.
Sentenza del 16 dicembre 1968, n. 126 La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 559 C.P. (prevedeva come reato soltanto l'adulterio della moglie e non anche quello del marito) ritenendo che la discriminazione sancita dal primo comma dell'art. 559 del Codice penale non garantisse l'unità familiare, ma fosse più che altro un privilegio assicurato al marito.
La Consulta ha precisato che… É questione di politica legislativa quella relativa alla punibilità dell'adulterio. Ma, poiché la discriminazione fatta in proposito dall'attuale legge penale viola il principio di eguaglianza fra coniugi - il quale rimane pur sempre la regola generale - occorre esaminare se essa sia essenziale alla unità familiare. Infatti solo in tal caso sarebbe ammissibile il sacrificio di quel principio di base nel nostro ordinamento.
Ritiene la Corte, alla stregua dell'attuale realtà sociale, che la discriminazione, lungi dall'essere utile, é di grave nocumento alla concordia ed alla unità della famiglia. La legge, non attribuendo rilevanza all'adulterio del marito e punendo invece quello della moglie, pone in stato di inferiorità quest'ultima, la quale viene lesa nella sua dignità, ed é costretta a sopportare l'infedeltà e l'ingiuria, senza alcuna tutela in sede penale. Per l'unità familiare costituisce indubbiamente un pericolo l'adulterio del marito e della moglie, ma, quando la legge fa un differente trattamento, questo pericolo assume proporzioni più gravi, sia per i riflessi sul comportamento di entrambi i coniugi, sia per le conseguenze psicologiche sui soggetti.
Sentenza del 24 giugno 1970, n. 128 La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.156, V comma Codice Civile, nella parte in cui esclude la pretesa della moglie a non usare il cognome del marito, in regime di separazione per colpa di quest’ultimo, nel caso che da quell’uso possa derivarle pregiudizio
Sentenza del 9 aprile 1975, n. 87 La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, III c., della legge n. 555 del 13 giugno 1912 in tema di disposizioni sulla cittadinanza italiana, nella parte in cui prevedeva la perdita della cittadinanza italiana della donna che avesse contratto matrimonio con uno straniero indipendentemente dalla sua volontà
Sentenza del 11 giugno 1986, n. 137 La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme pensionistiche ( dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966 n. 604, degli artt. 9 del r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636, conv. in legge 6 luglio 1939 n. 1272, modificato dall'art. 2 della legge 4 aprile 1952 n. 218, 15 D.L.C.P.S. 16 luglio 1947 n. 708, 16 legge 4 dicembre 1956 n. 1450), nella parte in cui prevedevano il conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per detto motivo, al compimento del cinquantacinquesimo anno d'età anziché al compimento del sessantesimo anno come per l'uomo Sono venute meno quelle ragioni e condizioni che prima potevano giustificare una differenza di trattamento della donna rispetto all'uomo. In particolare rispetto all'età del conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, rispetto alla disciplina del licenziamento fondata su detto evento
Sentenza del 16 dicembre 1987, n. 614 La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, quarto comma, della legge n. 130 del 11 aprile 1950 in tema di “Miglioramenti economici ai dipendenti statali” nella parte in cui esclude che le quote aggiunte di famiglia, debbano essere corrisposte, in alternativa, anche alla moglie lavoratrice alla stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per il marito lavoratore
Sentenza 2 aprile 1993, n. 163 La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, n. 2 della legge della provincia autonoma di Trento n. 3 /80, nella parte in cui prevede, tra i requisiti per l’accesso alle carriere …. del servizio antincendio della provincia di trento, il possesso di una statura fisica minima indifferenziata per uomini e donne.
Giurisprudenza di legittimità e di merito sulle discriminazioni in materia di lavoro
Discriminazione La normativa che regola nel nostro ordinamento le discriminazioni di genere sui luoghi di lavoro e nell’accesso al lavoro è contenuta nel D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5 che in attuazione della Direttiva 2006/54/CE modifica ed integra il vigente D.Lgs. 11 aprile 2006 n.198, meglio conosciuto come Codice delle pari opportunità tra uomini e donne
Discriminazione Le discriminazioni si distinguono in: dirette, indirette e collettive. • Discriminazione diretta; qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso. • Discriminazione indiretta; una disposizione, un criterio, una prassi, un patto o un comportamento,apparentemente neutri, chemettono o possono mettere i lavoratori in una posizione di particolare svantaggio rispetto alle lavoratrici e viceversa. • Discriminazione collettiva; assunzione di atti, contratti, comportamenti che, discriminando i lavoratori in base al sesso, producono un danno o , comunque, un trattamento meno favorevole –rispetto a quello di lavoratori di sesso diverso, in condizioni analoghe – ad una pluralità di lavoratori/trici.
Discriminazione La discriminazione di genere vuol dire differenza di trattamento tra uomini e donne sui luoghi di lavoro nei settori pubblici o privati quanto concerne: • l’accesso all’occupazione e al lavoro; • l’accesso a tutti i tipi e livello di orientamento e formazione; • il licenziamento; • la retribuzione; • l’affiliazione e nell’attività in un organizzazione di lavoratori; • l’accesso alle prestazioni previdenziali; • la reazione ad un comportamento teso ad ottenere il rispetto del principio di parità tra uomini e donne (vittimizzazione).
Discriminazione Quali comportamenti vengono considerati discriminatori? Sono discriminatori: • i test di gravidanza al momento dell’assunzione; • i colloqui, in sede di assunzione, in cui venga chiesto se la candidata è sposata o se ha figli; • il rifiuto di assunzione perché la candidata è donna; • il rifiuto di assunzione perché sono previsti orari notturni; • il rifiuto di assunzione se la candidata è incinta; • il rifiuto di assunzione perché il lavoro è pesante; • provvedimenti datoriali che escludono i periodi di maternità dalla base di calcolo per la corresponsione di benefici economici ai dipendenti; • mancata concessione del congedo parentale a cui hanno diritto individualmente i genitori lavoratori per la nascita/adozione di un figlio; • non prevedere di posticipare l’eventuale prova d’esame richiesto dalle donne in gravidanza; • ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, • molestie sui luoghi di lavoro; • molestie sessuali sui luoghi di lavoro.
Discriminazione A chi spetta l’onere della prova? Spetta al datore di lavoro (convenuto) la prova sulla insussistenza della discriminazione, qualora il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e dai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione di sesso, (Art. 40, d.Lgs n. 198/2006)
Mobbing Ilmobbing consiste in una serie di comportamenti aggressivi e vessatori, che: si protraggono nel tempo, nei confronti delle lavoratrici o dei lavoratori, sono posti in essere dal datore di lavoro nonché da colleghi o superiori, Si caratterizzano come una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro. In conseguenza di questi attacchi e/o persecuzioni, la vittima precipita in una condizione di profondo disagio emotivo, che si ripercuote negativamente sul suo equilibrio psicofisico.
Mobbing Quali sono i possibili comportamenti considerati Mobbing? Il mobbing si caratterizza attraverso vari comportamenti, che sono: • Sottrarre ingiustificatamente incarichi ad un/una lavoratore/trice o, addirittura, la postazione fisica di lavoro; • Dequalificare professionalmente il/la lavoratore/trice, affidando compito di scarso contenuto professionale e tali da rendere umiliante il prosieguo del lavoro; • Ricorrere con continuità, nei confronti del/della lavoratore/trice, a rimproveri e richiami, sia in privato che in pubblico, anche per motivi futili e con utilizzo di parole offensive; • Dotare il/la lavoratore/trice di attrezzature di lavoro di scarsa qualità o obsolete, scomode, inadeguate; • Interrompere il flusso di informazioni necessarie per l’attività lavorativa.
Il fenomeno del mobbing si caratterizza in particolare per i seguenti aspetti: • si realizza sul posto di lavoro; • ripetitività e metodicità delle condotte messe in atto dagli autori; • riconducibilità ad una logica unitaria; • isolamento del mobbizzato all’interno dell’ambiente di lavoro; • svilimento della personalità e della dignità della persona colpita; • indebolimento delle difese psicologiche del mobbizzato; • sofferenze fisiche e psichiche che possono degenerare in malattia; • nesso causale.
Dall’analisi delle prime sentenze di merito si evince che c’è un range notevole tra un inquadramento ed un altro. Infatti se le prime sentenze a Torino fanno quasi coincidere il mobbing con le molestie, già a Milano si richiedono sistematicità, molteplicità degli episodi e soprattutto dolo del mobber. Il Tribunale di Como restringe la casistica poiché richiede due elementi, nuovi pure alla psicologia del lavoro, il carattere collettivo e lo scopo dell’espulsione della vittima dall’ambiente di lavoro.
La Sezione lavoro del Tribunale di Torino ha emesso importanti pronunce . Essa, infatti, richiamando le teorie enucleate dagli psicologi del lavoro, ha statuito che si ha mobbing ogniqualvolta «il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi» e, in particolare, quando «vengono poste nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora suicidio».
Qualche anno dopo, il Tribunale di Forlì , ha utilizzato un metodo differente preferendo affidare ad un consulente tecnico d’ufficio il compito di verificare la sussistenza del mobbing. Una soluzione ulteriormente diversa rispetto a quelle sopra viste risulta essere quella seguita dal Tribunale di Milano che afferma «non si configura mobbing in azienda nell’ipotesi in cui l’assenza di sistematicità, la scarsità degli episodi, il loro oggettivo rapportarsi con la vita di tutti i giorni all’interno della organizzazione produttiva escludono che i comportamenti lamentati possono essere considerati dolosi».
Il Tribunale di Como , ha delimitato notevolmente l’ambito del mobbing, introducendo ben due requisiti che non ritroviamo in dottrina: 1. il carattere collettivo (e cioè il mobbing non potrebbe essere esercitato da un solo soggetto, ma richiederebbe un’azione di gruppo); 2. lo scopo dell’espulsione della vittima dall’ambiente di lavoro (se non ricorre questo scopo, non sarebbe ravvisabile il mobbing). Sempre il Tribunale di Como ha tracciato una particolare linea di confine tra molestie e mobbing: le molestie, di per sé illecite, sarebbero attuate da un soggetto nei confronti del soggetto passivo al mero fine di offenderlo o infastidirlo; al contrario, il mobbing si configurerebbe come «insieme di atti, ciascuno dei quali è apparentemente inoffensivo», caratterizzato dall’animus nocendi, che «mira a ledere la psiche del mobbizzato e ad espellerlo da una comunità».
La giurisprudenza di legittimità «…per "mobbing", riconducibile alla violazione degli obblighi derivanti al datore di lavoro dall'art. 2087 c.c., deve intendersi una condotta nei confronti del lavoratore tenuta dal datore di lavoro, o del dirigente, protratta nel tempo e consistente in reiterati comportamenti ostili che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica da cui consegue la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente nell'ambiente dì lavoro, con effetti lesivi dell'equilibrio fisiopsichico e della personalità del medesimo» . Cass. sez. lav. 26 marzo 2010 n. 7382.
Forme del Mobbing • Prepotenze e vessazioni • Isolamento sociale • Mancanza di informazioni inerenti il lavoro • Voci negative e calunnie che si trasformano in • Prestazioni lavorative scadenti • Reputazione lavorativa compromessa • Assegnazione di incarichi “vuoti” o privi di senso
L’isolamento • Isolamento lavorativo • Isolamento familiare • Isolamento sociale • ESPULSIONE DALL’AZIENDA • PERDITA DEL LAVORO
Conseguenze • Sulla persona: patologie organiche e psicopatologiche • Sulla famiglia: conflitti familiari, isolamento sociale • Sul lavoro: aum. infortuni, aum. assenze per malattia, più errori • Sulla collettività: aum. costi sanitari, aum. costi previdenziali, aum. comportamenti devianti
Costi sociali Il dipendente mobbizzato costa alla comunità il 190% in più del suo stipendio (salario medio annuo) Costi: improduttività, spese mediche, spese legali, spese previdenziali, pre- pensionamento
Le norme…. Non è stata ancora introdotta una legge organica sul Mobbing, quindi, occorre fare riferimento alle norme esistenti nel nostro ordinamento giuridico. COSTITUZIONE: Art. 4 – diritto al lavoro Art. 13 – libertà personale ed individuale Art. 32 – diritto alla salute Art. 35 – tutela condizioni di lavoro CODICE CIVILE Art. 2087 – obbligo tutela salute del dipendente Art. 2043 – risarcimento del danno
Codice Penale Art. 609 bis – violenza sessuale Art. 582 – lesioni personali Art. 590 – lesioni personali colpose Art. 594 – ingiurie, diffamazioni Art. 323 – abuso d’ufficio Art. 610 – violenza privata Art. 61 – aggravanti: abuso d’autorità, relazione ufficio
Straining Nelle tutele previste contro il mobbing, possono rientrare anche casi di straining. Il termine, derivato dall’inglese, significa ‘mettere sotto pressione’. Pur essendo simile al mobbing, esso se ne distingue per alcune peculiarità. In primo luogo, agli aggressori (strainers) possono essere esclusivamente il datore di lavoro ed i superiori gerarchici. Un esempio di straining può essere la dequalificazione professionale. Lo straining è stato per la prima volta definito anche in sede giurisprudenziale (Tribunale di Bergamo, 21 aprile 2005) dove si afferma (sulla base della relazione del CTU dott. H. Ege): ‘la differenza tra lo <<straining>> ed il <<mobbing>> è stata individuata nella mancanza ‘di una frequenza idonea (almeno alcune volte al mese) di azioni ostili ostative: in tali situazioni le azioni ostili che la vittima ha effettivamente subito sono poche e troppo distanziate nel tempo, spesso addirittura limitate ad una singola azione, come un demansionamento o un trasferimento disagevole’… ‘La vittima è, rispetto alla persona che attua lo straining, in persistente inferiorità. Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone ma sempre in maniera discriminante’.
Molestia e Molestia Sessuale sui Luoghi di Lavoro L’art. 26 del D.Lgs. 198/2006 considera come discriminazione anche le molestie ovvero tutti quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso e aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo (comma 1). Tali atti assumono particolare rilevanza quando vengono effettuati nell’ambito del luogo di lavoro, in particolare quando sono accompagnati da minacce o ricatti da parte del datore di lavoro o del superiore gerarchico, relativamente alla costituzione, allo svolgimento ed all’estinzione del rapporto di lavoro.
Molestia e Molestia Sessuale sui Luoghi di Lavoro E contro la molestia sessuale? L’art 26 del D.Lgs. 198/2006 considera assimilate alle discriminazioni molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare il clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Sono considerati discriminazione anche quei trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di avere rifiutato i comportamenti offensivi descritti o di esservisi sottomesso (comma 2)
Molestia e Molestia Sessuale sui Luoghi di Lavoro Quali sono i comportamenti che possono considerarsi molestie sui luoghi di lavoro? I comportamenti molesti possono essere molto vari, quali: • Battute e/o gesti volgari; • Apprezzamenti offensivi; • Attenzioni o proposte insistenti ed indesiderate; • Ricatto sessuale, ovvero esplicite richieste di prestazioni sessuali, anche accompagnate da minacce, dalla cui accettazione o non accettazione dipenda una decisione riguardante il lavoro; • Molestie ambientali, capaci di creare un ambiente di lavoro intimidatorio, umiliante e ostile, anche in assenza di espliciti ricatti o richieste; • Atti di libidine e violenza sessuale; • In ambienti tradizionalmente maschili e maschilisti sono molto frequenti, quasi usuali, le molestie di genere, quelle, cioè che, se pur con basso profilo socio-culturale, sottolineano la differenza tra maschio e femmina come, ad esempio, il frasaggio volgare, la frase o il discorso ambiguo.
Discriminazioni…verso gli uomini La legge 54/2006 dispone l’affido condiviso dei minori in caso di separazione dei genitori. L’introduzione della norma ha modificato le decisioni dei magistrati?
Un lavoro recente ha verificato in che misura l’introduzione della legge 54 ha modificato le sentenze dei magistrati. Il lavoro utilizza i dati raccolti per ciascuna causa di separazione dalle Cancellerie dei tribunali, successivamente trasmessi all’Istat. La nostra base dati si compone di poco meno di 900mila sentenze, cioè la totalità di quelle emesse dai tribunali italiani dal 2000 al 2010. Tratto da: http://www.lavoce.info/affido-condiviso-legge-inapplicata/
Tavola 1.Alcuni effetti della legge 54 sulle sentenze di separazione Dalla tavola si evince che l’assegnazione formale dell’affido condiviso ha trovato effettiva applicazione. Per gli altri aspetti, quelli per cui la legge lascia discrezionalità ai magistrati, è come se la legge non fosse mai stata approvata: la casa coniugale va alle madri, ancor più che prima della riforma; non vi è nessuna evidenza che i magistrati abbiamo accolto le disposizioni che rendevano possibile il mantenimento diretto per capitoli di spesa, a scapito dell’assegno. Tratto da: http://www.lavoce.info/affido-condiviso-legge-inapplicata/
TRIBUNALE TRIESTE sent. 20 febbraio 2013 il genitore che, nel ricorso per l’assegnazione del figlio, faccia istanza al tribunale per ottenere l’assegnazione del minore a settimane alterne o a giorni alterni dimostra una incapacità di immedesimarsi nelle esigenze del figlio, che ha invece diritto a una residenza preferenziale. Negato, quindi, l’affido condiviso.
A voi le riflessioni finali su leggi, diritto, uguaglianza e cultura di un popolo.