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Jorge Sempr ún : Infanzia e adolescenza. Nasce a Madrid il 10 dicembre 1923 , in una famiglia dell’alta borghesia spagnola: Padre, José Maria Semprún y Gurrea, avvocato e professore di diritto all’università di Madrid; assume incarichi politici per la Repubblica spagnola;
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Jorge Semprún: Infanzia e adolescenza • Nasce a Madrid il 10 dicembre 1923, in una famiglia dell’alta borghesia spagnola: • Padre, José Maria Semprún y Gurrea, avvocato e professore di diritto all’università di Madrid; assume incarichi politici per la Repubblica spagnola; • Madre, Susana Maura y Gamazo, figlia di Antonio Mauro, che fu più volte Primo Ministro sotto il regno di Alfonso XIII. • 1936: All’inizio della guerra civile, la famiglia emigra in Francia, e poi in Olanda, dove il padre è ambasciatore della Repubblica spagnola fino al feb. 1939 (quando l’Olanda riconosce ufficialmente il governo di Franco); • 1939: Ritorna in Francia dove studia, prima al lyceée Henri IV e poi – dal 1941 − alla Sorbona (filosofia).
Jorge Semprún: Guerra, Resistenza, Deportazione • Dopo l’occupazione della Francia da parte dei nazisti, entra nella Resistenza francese come molti altri spagnoli espatriati dopo la Guerra civile; • 1942: Aderisce al Partito Comunista Spagnolo in Francia (PCE), e passa nelle formazioni partigiane comuniste (Francs-Tireurs et Partisans – FTP); • 1943: In seguito a una denuncia, viene arrestato a Joigny dalla Gestapo, torturato e poi deportato a Buchenwald come detenuto politico, per la sua partecipazione alla Resistenza; • A Buchenwald svolge alcuni incarichi amministrativi e milita nell’organizzazione comunista clandestina formatasi all’interno del campo, dove ritrova anche il suo maestro Maurice Halbwachs, che muore tra le sue braccia.
Jorge Semprún: Il dopoguerra • 1945: Torna a Parigi, dove svolge attività di giornalista e di traduttore, e dove diventa un membro attivo del PCE in esilio; • 1953-62: Rientra in Spagna, dove inizia a coordinare le attività clandestine di resistenza al regime franchista. Vive in clandestinità per circa dieci anni assumendo diversi pseudonimi, soprattutto quello di Federico Sánchez (cfr. Autobiografía de Federico Sánchez, suo primo libro in spagnolo, 1977); • 1956: Diventa membro del comitato esecutivo del PCE; • 1964: Viene espulso dal partito per divergenze sulla linea politica del partito (conflitti con il segretario Santiago Carrillo), e comincia a dedicarsi quasi esclusivamente alla sua attività di scrittore e anche di sceneggiatore per il cinema.
Jorge Semprún: Opere Opere letterarie: • Le Grand voyage (1963); • L’évanouissement (1967) • Autobiografía de Federico Sánchez (1977) • Quel beau dimanche! (1980): • La Montagne blanche (1986); • Netchanïev est de retour (1987); • L’écriture ou la vie (1994); • Le Mort qu’il faut (2001); • Veinte años y un día (2003).
Jorge Semprún: Opere Sceneggiature: Ha lavorato con grandi registi, tra i quali: • Alain Resnais, La guerra è finita (1966) e Stavisky (1974); • Constantin Costa-Gavras, Z (1969), La confessione (1970) e L’affare della sezione speciale (1975); • Joseph Losey, Le strade del sud (1978). • 1988-1991: Dopo la caduta del franchismo, diventa Ministro della Cultura nel governo di Felipe González (cfr. Federico Sánchez se despide de ustedes, 1993); • Muore a Parigi il 7 giugno 2011.
La scrittura o la vita Jorge Semprún, Intervista rilasciata in occasione della pubblicazione del libro, nel 1994: “Intervistatore: La scrittura o la vita… Questo ‘o’ è esclusivo?Jorge Semprún: Quando sono tornato da Buchenwald, alla fine di aprile del 1945, avevo poco più di vent’anni. Da quando avevo sette anni avevo deciso di fare lo scrittore. Dopo il ritorno, ho dunque voluto scrivere dell’esperienza che avevo vissuto. Alcuni mesi più tardi, dopo avere scritto, riscritto e distrutto centinaia di pagine, mi sono reso conto che a differenza di altre esperienze, in particolare quelle di Robert Antelme [autore di La specie umana] e soprattutto di Primo Levi, che si sono liberate dall’orrore della memoria attraverso la scrittura, mi succedeva esattamente l’opposto.
La scrittura o la vita Rimanere in questa memoria, significava certamente non giungere a scrivere un libro, e forse giungere al suicidio. Ho dunque deciso di abbandonare la scrittura per scegliere la vita, di qui questo titolo. E questo ‘o’.Intervistatore: Come è possibile scegliere la vita rinunciando proprio a ciò che costituisce la propria vita?Jorge Semprún: È stata una scelta terribile per continuare a esistere, ho dovuto smettere di essere ciò che avrei voluto maggiormente essere. E ho resistito diciassette anni. Ho praticato una sorta di terapia sistematica, talvolta brutale, dell’oblio. E vi sono riuscito a tal punto da ascoltare dei vecchi deportati parlare dei campi senza rendermi conto che anch’io ero dei loro. Ascoltavo i loro racconti come testimonianze esteriori. Al tempo stesso, le minime cose potevano far riaffiorare i ricordi”.
Il ritorno della scrittura: Il grande viaggio Jorge Semprún, Intervista del 1994: “Intervistatore: Cos’è che ha fatto scattare il ritorno alla scrittura?Jorge Semprún: Quando ero un dirigente del Partito comunista spagnolo, mi è successo, nel 1961, di trovarmi bloccato in un appartamento clandestino di Madrid, dal quale non ho potuto uscire per una settimana intera a causa delle minacce poliziesche. In tutti quei giorni, ho passato il tempo ad ascoltare i racconti del padrone di casa. Era stato internato a Mauthausen, ma non sapeva che anch’io fossi stato deportato. Più lo ascoltavo, più trovavo che raccontasse molto male, che era impossibile capire di che cosa parlasse. E all’improvviso, al termine di quella settimana, mi è ritornata la memoria e ho scritto, molto rapidamente, Il grande viaggio. Da quando è stato pubblicato, il mio rapporto con il passato e con la memoria si è rovesciato. È ridiventato doloroso e terrificante. Sono uscito dall’oblio per entrare nell’angoscia”.
La scrittura o la vita: Genesi del testo Jorge Semprún, Intervista del 1994: “Intervistatore: E la genesi de La scrittura o la vita?Jorge Semprún: Molto più tardi, nel 1987. Stavo scrivendo Netchaïev est de retour e, un sabato d’aprile, raccontavo una scena in cui uno dei personaggi del romanzo si recava a Buchenwald per tentare di ritrovare un compagno partigiano deportato. Il tutto doveva occupare un paio di pagine. Ma quel giorno, la scrittura è slittata via completamente. Mi sono ritrovato a scrivere, in prima persona, un altro libro: erano le prime pagine de La scrittura o la vita. L’inconscio, o qualcosa del genere, m’aveva giocato uno strano tiro: quel sabato 11 aprile era l’anniversario della liberazione di Buchenwald, e la prima notizia sentita l’indomani fu l’annuncio del suicidio di Primo Levi… In queste condizioni, dovevo certamente portare a termine quel libro. Ma è stato necessario molto tempo”.
La scrittura o la vita: Genesi del testo Il libro è diviso in tre parti (senza titolo), ognuna delle quali suddivisa in vari capitoli (con titoli tematici), per un totale di 10: La prima parte verte soprattutto sul periodo successivo alla liberazione dal campo, più o meno tra aprile e maggio 1945: il ritorno alla vita, il reinserimento del reduce nella società ecc.; • La seconda parte – ambientata prevalentemente nella seconda metà del 1945 − è dedicata soprattutto al “potere di scrivere” (titolo del cap. 6), cioè al ruolo ambivalente della scrittura in rapporto all’esperienza traumatica, un potere espressivo e conoscitivo che implica però un effetto nefasto, mortifero; • La terza parte è ambientata in anni più recenti, tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Novanta, e descrive soprattutto il ritorno alla scrittura dopo tanti anni di silenzio e di oblio.
Il racconto dell’esperienza storica Intervista televisiva (2008): Dice che è stata l’epoca in cui ha vissuto a costruire la sua vita: “L’epoca era romanzesca, e nel corso di questa epoca ho avuto una vita molto attiva. Ho tante di quelle cose da raccontare che ne invento troppo poche. Non sono davvero un romanziere, ma piuttosto il romanziere della mia stessa vita”.
Il sogno della vita e la realtà del campo Primo Levi, La tregua: “Giunsi a Torino il 19 ottobre, dopo trentacinque giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ritrovai un letto largo e pulito, che a sera (attimo di terrore) cedette morbido sotto il mio peso. Ma solo dopo molti mesi svanì in me l'abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi un sogno pieno di spavento.
Il sogno della vita e la realtà del campo È un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, in una compagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e pena; eppure provo un'angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone e l'angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all'infuori del Lager.
Il sogno della vita e la realtà del campo Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell'alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, ‘Wstavać’”.
Il sogno della vita e la realtà del campo Intervista televisiva (2008), mentre è in visita al campo di Buchenwald: “Può sembrare strano, e anche terribile da ascoltare e da dire, ma qui mi sento a casa mia. In questo luogo lugubre, forse il più lugubre che esista per tutti, anche per il mio ricordo… ma eccomi tornato a casa. Si può capire: avevo vent’anni, sapevo perché ero qui, combattevamo, sapevamo dove eravamo e contro chi ci battevamo; e questo non è cambiato”.
L’esperienza della morte Walter Benjamin, Il narratore: Parla di “una trasformazione nell’aspetto della morte. E appare che questa trasformazione è la stessa che ha ridotto la comunicabilità dell’esperienza nella misura in cui l’arte di narrare si avvia al tramonto. Da molti secoli si può constatare come, nella coscienza comune, l’idea della morte perda progressivamente la sua onnipresenza e icasticità. […] la morte, nel corso dell’età moderna, viene progressivamente espulsa dal mondo percettivo dei viventi. […] Ma sta di fatto che non solo il sapere o la saggezza dell’uomo, ma soprattutto la sua vita vissuta – che è la materia da cui nascono le storie – assume forma tramandabile solo nel morente. […] La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare. Dalla morte egli attinge la sua autorità”.