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Percorsi di libertà femminile nelle società multiculturali

Percorsi di libertà femminile nelle società multiculturali. Chiara Martucci Università degli Studi di Milano Ciclo di Seminari Laboratorio Limes 20.11.2008. Obiettivi e metodo.

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Percorsi di libertà femminile nelle società multiculturali

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Presentation Transcript


  1. Percorsi di libertà femminile nelle società multiculturali Chiara MartucciUniversità degli Studi di Milano Ciclo di Seminari Laboratorio Limes 20.11.2008

  2. Obiettivi e metodo • (i) Approfondire la conoscenza dei servizi esistenti e del loro livello di interconnessione; (ii) identificare gli aspetti positivi e quelli problematici legati alla sempre maggiore presenza di migranti; (iii) comprendere i diversi significati attribuiti all’idea di libertà. • Interviste qualitative (in profondità, semi strutturate) a testimoni privilegiati (associazionismo, enti pubblici, privato sociale) per dare voce alle esperienze di alcune donne, italiane e straniere, che da anni vivono e operano sul territorio di Milano e provincia.

  3. Focus teorico • Dimensione pubblica della libertà individuale • Pluralismo come fatto e come valore  Libertà vs Pluralismo?

  4. Libertà In Pubblico: alcuni elementi costitutivi La LIP risulta scomponibile in tre nozioni distinte: • Entitlement: non solo dalla mancanza di vincoli, ma anche protezione da interferenze arbitrarie, tipiche di relazioni di subjection; • Empowerment: sviluppo della possibilità dei singoli di controllare attivamente la propria vita; • Voice:capacità di essere soggetti e non oggetti politici.

  5. Il matrimonio di Licu e Fancy • Esempio che permette di cogliere e mettere a tema la delicata tensione tra il riconoscimento dei diritti culturali ai gruppi e la libertà delle donne che di quelle comunità fanno parte e il problema delle “preferenze adattive” “Fino a pochi decenni fa, ci si aspettava tipicamente dai gruppi minoritari che si assimilassero nelle culture di maggioranza. Ora questa attesa di assimilazione è spesso considerata oppressiva e molti paesi occidentali cercano di escogitare nuove linee di condotta politica, più sensibili alla persistenza delle differenze culturali. […]. Ma una questione è ricorrente in tutti i contesti, sebbene non sia quasi stata notata nel dibattito attuale: che fare quando le pretese di culture o religioni minoritarie collidono col principio dell’eguaglianza di genere che è per lo meno formalmente sottoscritta dagli stati liberal-democratici – per quanto continuino a violarla nella pratica?”[1] • [1] Susan Moller Okin, (1997), “Is Multiculturalism Bad for Women?”, Boston Review, ristampato con alcune revisioni in Cohen, J., Howard, M. and Nussbaum, M., (1999), (eds.), Is Multiculturalism Bad for Women?, Princeton University Press, Princeton.

  6. “Visibilità distintiva” • Imparare a vedere e a vedersi diversamente (formare giudizi autonomi); • comunicare con l’esterno (superare le barriere linguistiche e culturali che impediscono l’incontro); • potersi identificare con il contesto (poter concepire come pensabili per sé questi modi di essere); • avere strumenti pratici e risorse materiali per poter accedere effettivamente a queste altre possibilità (conoscere e avere accesso alle risorse e ai servizi offerti dal territorio); • poter essere visti e partecipare (poter, cioè, rendere visibile nello spazio della città il proprio modo di essere e contribuire all’elaborazione delle norme che ci riguardano).

  7. Migrazione e contaminazione • Negli ultimi vent’anni i processi di migrazione che hanno interessato la società occidentale hanno trasformato gli scenari dei nostri contesti sociali e prodotto nuove rappresentazioni culturali, appartenenti ad universi “altri” rispetto a quello della cultura occidentale. • Secondo le statistiche ufficiali, gli stranieri sono oggi in Italia oltre 4.000.000 e producono il 9% della ricchezza nazionale, e la Lombardia è la regione più massicciamente interessata da questo fenomeno.

  8. Le intervistate • Patricia Bermeo – stilista, talent scout, manager di spettacolo che lavora con donne straniere – Cosmos International • Gina Bruno – operatrice volontaria del Naga Har (rifugiati politici, richiedenti asilo) • Eleonora Dall’Ovo – operatrice di Yoni, servizio ginecologico per donne italiane e straniere • Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia • Marian Ismail – Presidente Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace (ADIR) – sportello donne straniere • Marina Locatelli – operatrice e formatrice “Spazio rosa” della Provincia di Milano • Carmen Marchetti – Coordinatrice del servizio sociale dell’Ufficio stranieri del Comune di Milano • Ouejdane Mejri – Presidente Associazione Tunisini a Milano • Almira Myzyri – mediatrice culturale – Telefono mondo – coop. Progetto Integrazione

  9. Scarsa connessione e comunicazione tra le risorse esistenti sul territorio • No, non c’è una sufficiente connessione tra i diversi servizi offerti dalle istituzioni e spesso ci sono delle clonazioni: un ente eroga medesimi servizi offerti da altri. I servizi sul territorio non dialogano tra loro. C’è una dispersione di energia per gli utenti che continuano a girare senza concludere niente. […]. Non c’è attenzione verso l’utente, c’è attenzione a erogare e concludere il servizio, ma non c’è metodologia nel come erogarlo. (Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia)

  10. “Ingranaggi perversi” • Noi abbiamo segnalato il caso di una ragazza richiedente asilo politico al Comune di Milano che è intervenuto. La ragazza è andata in commissione in breve tempo, ha avuto la protezione sussidiaria che dura tre anni. Sta cercando un lavoro, ha trovato offerte lavorative anche molto vantaggiose per lei ma non può lavorare perché non ha la carta di identità, perché le agenzie interinali chiedono la carta di identità. Per andare a fare la carta di identità devi andare al Comune e il Comune risponde: “abbiamo troppi accertamenti da fare. Puoi avere la carta d’identità tra nove mesi, ma devi aspettare e nel frattempo devi avere la residenza”. Il centro di accoglienza per una sua politica interna non rilascia la residenza prima di tre mesi di permanenza all’interno del centro. Quindi lei avrebbe già potuto lavorare da due mesi, però il centro di residenza non le fa la dichiarazione di ospitalità. Una volta che l’ha ottenuta può andare al Comune a richiedere la carta di identità, che però non le viene rilasciata prima di sette/otto mesi. Nel frattempo il periodo in cui lei può stare nel centro di accoglienza finirà, perché dura sei mesi. E quindi finirà per strada. Finirà per strada senza lavoro! Questi sono gli ingranaggi perversi in cui ci si viene a trovare. (Gina Bruno– operatrice volontaria del Naga Har - rifugiati politici, richiedenti asilo)

  11. Difficoltà di fare rete (i) • Noi abbiamo provato a fare una rete con “Todo Cambia” e con diverse altre associazioni […] quello che è risultato difficile non è stato trovare i contatti, ma mantenerli nel tempo […] poi ci siamo perse […]. La figura fondamentale è la mediatrice, se è una brava mediatrice lei ti mette in contatto con le associazioni, con le donne migranti, ti dice dove andare, quali sono i progetti in corso delle associazioni eccetera. […] Io ad un certo punto ho iniziato ad usare le loro feste per contattare le donne e le associazioni, tipo la festa dei filippini quando si incontrano davanti alla chiesa di S. Lorenzo oppure il festival sud americano; però questi per loro sono dei momenti di festa, c’è poco tempo per parlare di altre cose e le associazioni, le referenti delle associazioni è difficile trovarle. (Eleonora Dall’Ovo – operatrice di Yoni, servizio ginecologico per donne italiane e straniere)

  12. Difficoltà di fare rete (ii) • Emerge la presenza di alcuni micro-circuiti consolidati e virtuosi tra enti pubblici e privati e l’esistenza di ricerche o sperimentazioni di eccellenza, che restano però troppo spesso esperienze parallele e non comunicanti, confinate al singolo progetto e alle persone che vi sono coinvolte; • Mancanza di una banca dati dei servizi e delle associazioni (anche non riconosciute e informali) esistenti sul territorio che sia consultabile direttamente e liberamente; • Mancanza di occasione di scambio e messa in rete delle esperienze esistenti anche per conoscersi, incontrarsi fisicamente, scambiarsi opinioni, consigli e punti di vista.

  13. Barriere burocratiche • C’è la disorganizzazione burocratica.[…] È incivile e anticostituzionale che uno straniero debba attendere un anno per avere il permesso di soggiorno! Significa che se scade la patente non può rinnovarla, la tessera sanitaria non può essere rinnovata, non si può viaggiare. E ora che te lo danno è già scaduto! Questo riguarda i diritti civili e umani. Non ha senso che queste cose siano seguite dalla prefettura e della questura che non comunicano tra loro e non conoscono la legislazione specifica. Sbagliano, danno consigli imprecisi […] disinformano. In altri paesi europei (Spagna e Francia per esempio) quando sta per scadere il permesso è il comune in cui lo straniero risiede che manda una lettera e dà un appuntamento, come per rinnovare la carta d’identità. Il permesso di soggiorno richiede una giornata massimo. Lo straniero si presenta con la documentazione richiesta inviatagli a casa e il giorno stesso ce l’ha. (Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia) • Il sistema burocratico è folle […]. Si dice che entro 8 giorni si deve andare in Questura, ma molte informazioni non vengono date. Allora una persona si trova in una città come Milano in cui gli uffici della Questura sono tanti e non è facile capire quali sono le competenze, la modalità di accesso. Adesso in tanti uffici si accede solo per via telematica. Si pretende dal cittadino immigrato appena arrivato e che magari non sa la lingua e non conosce niente di stabilire un appuntamento entro otto giorni per via telematica. Per alcuni può essere un vantaggio, ma per altri no. Anche per chi sa usare il computer se moduli on line sono, come succede, solo in lingua italiana. (Almira Myzyri, – mediatrice culturale – Telefono mondo)

  14. Barriere psicologiche • […] c’è una barriera psicologica che è veramente devastante e che nessuno prende in considerazione. L’essere accolta da un poliziotto nervoso senza aver fatto un piffero di niente […] è veramente mortificante. Questuare un tuo dovere, neanche un tuo diritto! ha un qualcosa di raccapricciante. Io non devo abbassare la testa perché devo andare a fare un permesso di soggiorno che mi mette in una situazione di legalità. È un dovere, un obbligo per stare in questo paese. Devo adempiere al mio dovere, non vedo perché mi devono mettere anche i piedi in testa. La cosa peggiore è quando lo devi fare davanti ai tuoi figli che ti vedono veramente in ginocchio. È umiliante. Io devo adempiere a un dovere e lo devo fare anche in ginocchio! Questo è un aspetto centrale che mai nessuno tocca. (Marian Ismail – Presidente Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace)

  15. Barriere (iii) • È una cosa incredibile, però noi quando arriviamo qua abbiamo problemi con i nostri stessi connazionali perché la gente vuole approfittare delle persone che arrivano per guadagnarci dei soldi. Dentro ogni comunità c’è sempre un furbo che approfitta dell’ ignoranza di chi è appena arrivato. A me hanno detto un sacco di cose false: che non si può fare il codice fiscale, che costava un sacco di soldi […].Bisogna stare attenti! […] • Per le donne poi c’è ancora tanto maschilismo, qui in Italia come fuori. Nel mercato del lavoro c’è discriminazione per le donne, c’è ancora molto maschilismo: “un attimo, dopo parli tu”. Non ci sono stimoli per le donne, anche per quelle che hanno studiato, come per esempio le russe. Forse, dopo tanto tempo, quando vedono che sei valida…Però non è giusto. (Patricia Bermeo – stilista, talent scout, manager di spettacolo che lavora con donne straniere)

  16. “Il fattore delta” • Se le esigenze di uno studente sono “x”, le esigenze di uno studente straniero saranno “x + y”, non sono qualcosa di diverso. Le esigenze sono quelle di tutti più un “fattore delta”. I bisogni sono gli stessi, sono i bisogni della città […]. Non ci sono bisogni specifici. Nel bisogno siamo tutti uguali. È in quello che possiamo dare siamo diversi; poi ci sono problemi di comunicazione specifici. (Ouejdane Mejri – Presidente dell’Associazione Tunisini a Milano)

  17. Comunicare e informare (i) • Quello che mi viene in mente è migliorare le politiche di accoglienza é essere più chiari nelle possibilità che offre il territorio. La chiarezza delle informazioni, la spiegazione degli interventi e degli accessi possibili. Il problema per la mia esperienza è che le persone sono digiune, povere di informazione. Nel momento in cui tu sei povero di informazione, non sai dove ti devi rivolgere. Non sai che hai diritto all’assistenza sanitaria, per esempio, perché nessuno te l’ha detto. Nessuno ti spiega come devi fare e ti accompagna per diventare un soggetto autonomo. […]. Se tu non sai come devi fare come devi per farti serve il codice fiscale o la tessera sanitaria. E non sai a che cosa serve il codice fiscale o la tessera sanitaria in questo paese. Se tu non sai cosa sono questi strumenti, difficilmente potrai diventare padrone di te stesso in un sistema che è completamente diverso da quello di appartenenza. E già tutto quello che vedi è shockante. Si tende a dare per scontato che le persone debbano capire come funziona. Ti faccio un esempio molto banale: una persona non è mai entrata in un bar perché non sa che cosa vuol dire andare a fare lo scontrino per prendere una brioche! I primi tempi sono duri, crudi. Loro non lo sanno, perché nessuno glielo spiega, perché nessuno li accompagna. In alcuni discorsi che abbiamo fatto con loro sulle cose che si aspettano, c’è stata la risposta bellissima di un ragazzo che ha detto:“Non si possono fare dei corsi sulla cultura italiana in cui voi ci spiegate come si vive in questo paese. Come si parla con la gente, come si esce…Come si fa ad approcciare una ragazza?” (Gina Bruno– operatrice volontaria del Naga Har (rifugiati politici, richiedenti asilo)

  18. Comunicare e informare (ii) • Probabilmente gli ostacoli sono soprattutto di tipo culturale. Devono sapere soprattutto che hanno dei diritti. […] Poi quando conoscono i servizi, molto dipende dal loro contesto familiare, quanta autonomia di movimento hanno. […] Per avere le straniere abbiamo scoperto che devi proprio invitarle. Noi abbiamo sperimentato un corso specifico per l’avvio di attività imprenditoriale per donne straniere l’anno scorso che ha avuto un ottimo successo, tanto che ci è stato chiesto di ripeterlo. Il problema con le donne straniere è che non tutte sono facilmente raggiungibili. […]. Le utenti straniere sono aumentate leggermente dall’anno scorso, ma noi non siamo ancora in contatto con tutte le associazioni esistenti per poter far conoscere i nostri servizi e poter aiutare loro a inserirsi in maniera efficace sul territorio. […] Perché per loro la cosa fondamentale è conoscere, poi sono bravissime ad organizzarsi. Ho visto che in molti casi non sanno che ci sono dei servizi per loro, o anche spesso se sono senza permesso di soggiorno non sanno di avere accesso al servizio sanitario gratuito, soprattutto se in gravidanza. E allora basta indicare loro a chi rivolgersi, e loro si sanno anche muovere molto bene in autonomia. (Marina Locatelli – operatrice e formatrice dello “Spazio Rosa” della Provincia di Milano)

  19. Incontrarsi (dove?) • C’è mancanza di informazione [anche] da parte nostra. Forse il tempo […]. Qua è un caos, soprattutto nelle città grosse come Milano e Roma dove si lavora e si fa tutto in fretta. Manca informazione, una specie di pubblicità mediatica. Non televisiva, più volantinaggio. La tv non si guarda perché non c’è tempo. Io per esempio non la guardo. Ci sono molti che lavorano dalla mattina alla sera, tornano la sera stanchi […]. Penso che si debba fare un altro tipo di pubblicità. Bisogna andare dove la gente c’è. Alle ambasciate vanno tutti e poi centri sportivi, supermercati. Oppure, andando al cuore del problema, all’uscita delle discoteche: lì non manca mai nessuno! (Patricia Bermeo – stilista, talent scout, manager di spettacolo che lavora con donne straniere) • Secondo me dei luoghi dove si potrebbe collaborare sono le scuole, oppure i consultori, i luoghi dell’associazionismo dove le donne si incontrano. Perché non è possibile andare a casa delle persone così. Si devono organizzare incontri, si chiede se qualcuno è disponibile a partecipare […]. Nelle comunità in cui le donne lavorano meno, il contatto sono i figli: la scuola, gli educatori. Se arriva qualcosa da fuori senza avere una conoscenza, sembra un coinvolgimento un po’ imposto. Tutti i comuni dovrebbero mandare lettere in lingua in cui invitano le famiglie interessate a rivolgersi ai servizi che ci sono. Bisogna trovare il modo di offrire dei servizi particolari per le donne straniere. Aiuto per i figli, per fargli fare i compiti, per la conciliazione, visto che spesso lavorano e non hanno assistenza per la cura dei figli, sia per questioni economiche, sia per mancanza di abitudine ad affidarsi ad una babysitter. Viene più spontaneo chiedere un favore o organizzarsi tra amiche, parenti, conoscenti. Le banche del tempo possono fare molto, non solo nell’accompagnamento, ma anche per seguire i compiti, che spesso è un compito complicato se si hanno difficoltà linguistica. Solo che le banche del tempo sono poco conosciute. • (Almira Myzyri, – mediatrice culturale – Telefono mondo)

  20. Incontrarsi (come?) • Bisognerebbe fare degli incontri su tematiche comuni. Parliamo insieme dell” “x”, scopriremo il “delta” in più. I problemi sono il lavoro, il rapporto con la famiglia (la donna nella famiglia, divorzi e separazioni, violenza). È da li che nasce tutto. Poi la salute del corpo. […]. [Creare momenti di confronto] dove ognuna racconta la sua storia di vita. Con un’introduzione su come funzionano le cose in Italia. Non “il problema delle donne immigrate” […] ma parlare dei problemi che ci sono in generale, aprire il dialogo e poi chiedere quali sono i problemi e pensare insieme a delle possibili soluzioni. A partire dalle storie di vita, dagli aneddoti. Le persone sono interessate a questo.[…]. E poi magari bersi un the insieme. A latere di questi incontri si potrebbero creare momenti conviviali di scambio (cucina, vestiti, usi e costumi…). Secondo me questo permetterebbe di abbattere delle barriere. […]. Bisognerebbe pensare a iniziative a lungo termine, a innescare un processo. Non fare le cose a spot. Percorsi pensati che si rendono disponibili a cambiare e rivedersi nel tempo, creare interazione. (Ouejdane Mejri – Presidente dell’Associazione Tunisini a Milano) • Ci vorrebbero momenti di incontro e scambio di esperienze, perché ci si rende conto che poi le difficoltà sono le stesse nell’affrontare il ruolo di madre, di donna che lavora, il ruolo nostro nell’attuale società. Se le “mie donne”, io le chiamo così, riuscissero ad avere questo confronto con le donne italiane, si renderebbero conto che non sono delle marziane, ma sono semplicemente delle donne. Non essendoci la conoscenza dell’altro, e essendoci anche tantissima timidezza da parte delle donne arabe…ti basta guardare fuori dalle scuole, il gruppo di donne arabe con il velo da un lato, e il gruppo di donne italiane da quest’altro lato. (Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia)

  21. Incontrarsi (buone prassi) • C’è da un anno una sperimentazione molto interessante all’Ufficio stranieri del Comune di Milano: gruppi di auto-aiuto che sono si sono formati tra donne, a partire dal tema del ricongiungimento familiare. L’ufficio Stranieri ha organizzato delle riunioni pubbliche dalle 18 alle 20 per dare informazioni sul ricongiungimento familiare con un approccio multidisciplinare (psicologi, assistenti sociali, esponenti dell’associazionismo). Gli inviti sono stati fatti circolare in tutti i consolati in diverse lingue. Ci sono state 20/30 persone per serata. La maggior parte delle richieste era, all’inizio, di tipo procedurale, ma poi si riusciva sempre ad inserire dei momenti di riflessione su cosa significa dal punto di vista pratico e psicologico l’arrivo di un figlio che non si vede magari da anni. Questo lavoro ha portato con il tempo alla richiesta da parte delle donne straniere di continuare a ritrovarsi. È stato allora organizzato un secondo gruppo, sempre con la presenza delle assistenti sociali italiane. La maggioranza sono donne del sud america. Ma non solo. Si è ragionato sulla cosa che le accomunava tutte: l’essere madri e avere i figli lontani. […] Ci sono state grandi feste ogni volta che si concludeva un ricongiungimento, c’è un forte sostegno del gruppo, indipendentemente dalle questioni politiche che ci sono nei loro paesi di provenienza. (Carmen Marchetti –coordinatrice del servizio sociale dell’Ufficio stranieri del Comune di Milano) • Secondo me non basta identificare un luogo fisico, ma bisogna starci dietro. Perché anche la modalità di accesso e gli orari sono molto diversi. C’è un mondo da scoprire e bisogna investire abbastanza come tempo e pazienza per identificare modalità di accesso e di frequenza. Ma anche di quello che si offre. Ci sono già esperienze positive […] a Cologno Monzese c’era un esperienza di questo tipo di donne italiane e straniere. Non so come sia andata a finire. Ma se si riesce a mettere insieme donne straniere da cinque continenti, il fatto di inserire anche donne italiane non crea una difficoltà in più. Io credo che le esperienze miste compresa la popolazione autoctona siano sempre positive. (Almira Myzyri, – mediatrice culturale – Telefono mondo)

  22. Ascoltare e dare voce • Non bisogna “parlare per”, ma “dare voce”. Lasciare spazio all’ascolto. Non si deve cedere alle proprie rappresentazioni che si hanno sull’altro/a. Il bagaglio con il quale un immigrato arriva in Italia è diverso. Voi avete una storia di libertà, mentre spesso nei paesi da cui proveniamo non esiste la libertà di espressione. Non puoi guardarmi solo con i tuoi occhi! […] Non puoi guardare da fuori e dire poi di cosa abbiamo bisogno. […] (Ouejdane Mejri – Presidente dell’Associazione Tunisini a Milano) • Noi offriamo ma non ascoltiamo mai le esigenze. Ascolto per produrre e migliorare i servizi e non clonare mille sportelli che nascono e muoiono. C’è l’interesse di vivere e capire quella molla che fa fare ad alcune donne alcune cose e ad altre no. C’è curiosità da parte delle donne arabe nei confronti delle donne sud americane, per esempio. O la voglia di confrontarsi con le donne filippine che mandano i figli a studiare in patria per capire cosa spinge una donna a rinunciare a stare con i suoi figli. (Dounia Ettaib – Presidente Associazione Donne Arabe d’Italia)

  23. Creare agio • È importante il clima che si crea per poter raccontare la propria esperienza. Far sì che chi ha bisogno di parlare lo faccia tranquillamente.[…] La capacità sta alla persona che gestisce il corso o l’incontro. Tant’è che noi insistiamo molto sui relatori. […] È fondamentale perché la persona si senta libera di parlare/non parlare, fare quello che si sente lei. […] Noi cerchiamo di fare un’attenta selezione precedente. Ecco anche perché ci muoviamo molto prima per creare un’aula omogenea, perché ci possa essere agio. Il relatore deve saper gestire l’aula. Il relatore ha un programma, ma il bravo relatore sa adeguarsi a chi ha di fronte. È fondamentale la capacità di chi sta in aula di capire come passare le informazioni corrette.[…] Le utenti devono poter partecipare in maniera attiva e segnalare tutto nel bene e nel male, per riuscire a capire cosa tenere e cosa migliorare. (Marina Locatelli – operatrice e formatrice dello “Spazio Rosa” della Provincia di Milano)

  24. Dare visibilità • Elementi qualificanti per la costruzione di una rete come l’incontro e la condivisione, lo scambio e la progettazione paritetica e partecipata […] sono strumenti e formule che io caldeggio e sposo. Manca però fondamentalmente una cosa: non si può continuare a trattare l’argomento, accogliere le persone senza poi lasciare spazio alla comunicazione. In Italia c’è un grosso problema di racial profiling: non si può parlare di migrazione e chiamare gli esperti che guarda caso sono sempre italiani. • Dopo il caso di Abdul noi siamo terrorizzati per i nostri figli/ie di seconda generazione […] Se dovessero fare una monellata verrebbero sprangati? Perché la televisione ci vuole solo analfabeti, che non parliamo italiano? Io parlo perfettamente italiano, come molti altri, potrei andare in tutte le serate televisive […] non posso demandare la mia angoscia al solito cinese o africano che non sa spiccicare una parola. Non è così! I nostri figli non accettano più queste cose. Sono cittadini italiani. Parlano la lingua e vivono qui. Questo è il loro habitat e sono cittadini. Fateci parlare!!! Fateci vedere!!! Lasciamo emergere le differenze politiche e umane tra migranti. Che sia regolamentato in maniera democratica anche questo aspetto, altrimenti non si capisce più dove si sta andando e salta tutto. Una delle regolamentazioni che possono dare molto aiuto in questo è il voto amministrativo. […] I nostri figli e figlie sono arrabbiati, che la loro possa essere una rabbia costruttiva: che possano essere giornalisti, industriali, annunciatori televisivi…Noi li stiamo preparando per questo, perché l’Europa ci sta dando questa possibilità di crescita. Bisogna dare visibilità pubblica in positivo, non solo in negativo! (Marian Ismail – Presidente Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace)

  25. Formare e valorizzare le competenze esistenti • La lingua è in assoluto il primo fattore di integrazione. Senza non vai da nessuna parte. Sei sempre un escluso e una persona che si brucia tante possibilità. Quindi potenziare l’insegnamento della lingua. Fare corsi di alfabetizzazione continua. E poi corsi di formazione professionale finalizzata all’orientamento. Le persone che noi incontriamo ce lo chiedono continuamente. Vengono fatti anche dei corsi di formazione, ma nel momento in cui il corso di formazione è fine a se stesso non ha tanto senso. E allargare le prospettive di questi corsi, non fare solo quelli per tornitore. I corsi di formazione sono finalizzati all’inserimento lavorativo là dove c’è l’offerta. Quindi le grandi aziende metalmeccaniche, siderurgia, carico scarico merci […]. Soprattutto lavori di basso profilo, non necessariamente in senso dispregiativo. Però implicitamente si va a sostenere che l’immigrato può essere manovalanza soltanto per quel tipo di professionalità. Il che non è vero. Noi vediamo persone pluridiplomate, molti hanno la laurea. Persone che facevano anche lavori di insegnamento, lavori di segreteria, alcuni erano anche politici. Sono persone che possono fare molto. Quindi valutare di più le loro capacità e potenzialità e indirizzare i corsi di formazione in relazione alle potenzialità di ciascuno. Empowerment ma anche valutazione del potenziale. Capire che cosa abbiamo, non considerarli tutti braccia. Questo crea il problema molto grave che è quello della depressione. (Gina Bruno– operatrice volontaria del Naga Har (rifugiati politici, richiedenti asilo)

  26. Dare voce • Io sono un animale politico da quando ho iniziato a respirare. Non c’è nessuna azione se non viene da una riflessione politica sulla mutazione e il cambiamento di questa società. Fintanto che le porte della politica sono chiuse nell’ascoltare l’altro, ci sarà sempre uno scontro. Ciò a cui noi siamo chiamati, almeno io la considero una mia missione, é di bussare quelle porte. […]. La politica deve aprirsi nel confrontarsi coni diritti interessati. […] Non puoi fare una politica sulla confindustria senza sentire la confindustria, eccetera eccetera. È tutto così: ci sente. E allora perché con noi non ci si sente? […] Il nodo è un nodo politico. Noi immigrati e immigrate dobbiamo essere capaci di parlare senza paura con chiunque: dal “rifondarolo” al leghista più puro. Io non ho nessun problema a confrontarmi, non ho fatto nulla di male! (Marian Ismail – Presidente Associazione Donne in Rete per lo sviluppo e la pace)

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