350 likes | 571 Views
FONTI Partenio di Nicea (sec. I a.C.) Amori infelici, XV, Dafne Hyginus ( sec. I o II d.C.) Fabulae , 203, Dafne Luciano (120-180 d.C.) Dialoghi , 15 (17), Ermete e Apollo Luciano (120-180 d.C.) Dialoghi , 16 (18), Era e Latona Luciano (120-180 d.C.) Dialoghi , 26, 8, Storia vera
E N D
FONTI Partenio di Nicea (sec. I a.C.) Amori infelici, XV, Dafne Hyginus ( sec. I o II d.C.) Fabulae, 203, Dafne Luciano (120-180 d.C.) Dialoghi, 15 (17), Ermete e Apollo Luciano (120-180 d.C.) Dialoghi, 16 (18), Era e Latona Luciano (120-180 d.C.) Dialoghi, 26, 8, Storia vera Pausania (160-177 d.C.) Graeciae Descriptio, VIII, 20, 1-4
sec. I a.C. Partenio di Nicea, Amori infelici, XV Intorno a Dafne, figlia di Amicla, si raccontano questi fatti. Lei non andava mai in città né si accompagnava con le altre vergini ma, equipaggiata di tutto punto, con molti cani partecipava a cacce in Laconia, spingendosi fino agli alti monti del Peloponneso: per questo motivo era molto cara ad Artemide che le consentiva di avere sempre la mira giusta.
S'invaghì di lei, mentre vagava nel territorio di Elis, Leucippo, figlio di Enomao, e senza ricorrere a qualche altro espediente, si abbigliò con vesti femminili e, simile a una fanciulla, andava a caccia con lei. E siccome le piaceva, Dafne non lo lasciava mai, gli stava sempre attorno e lo abbracciava in continuazione.
Apollo, pure lui infiammato dal desiderio per la fanciulla, era preso dall'ira e dall'invidia per la familiarità di Leucippo con Dafne e insinuò allora nella mente della ragazza l'idea di andare con le altre vergini a lavarsi alla fonte. Giunte lì, si svestirono, e vedendo che Leucippo non voleva farlo, gli strapparono di dosso le vesti: resesi allora conto dell'inganno e di quello che lui ordiva, scagliarono tutte insieme le aste contro di lui.
Leucippo però per volere degli dei scomparve e Dafne, vedendo Apollo che avanzava verso di lei, fuggì di corsa; e siccome il dio la inseguiva, pregò Zeus di strapparla dagli esseri umani, e così dicono che sia diventata quell'albero che da lei ha preso il nome di Dafne.
Giovanni Battista Tiepolo sec. I o II d.C., Hyginus, Fabulae, 203 Apollo stava inseguendo la fanciulla Dafne, figlia del fiume Peneo; ella chiese soccorso alla Terra che la accolse in sé e la trasformò nell'albero dell'alloro, dal quale allora Apollo strappò un ramo e se ne coronò il capo.
Luciano (120-180 d.C.), Dialoghi, 15 (17) Ermete e Apollo […] Apollo : Ma anche in altro modo ho sfortuna in amore: pensa ai due che ho amato di più, a Dafne e a Giacinto. Dafne mi odiò a tal punto, che preferì diventare un albero piuttosto che darsi a me; Giacinto lo perdetti ucciso dal disco ed ora invece di loro ho soltanto delle corone. Apollo e Giacinto, dipinto a olio di Méry-Joseph Blondel.
Luciano, Dialoghi, 16 (18) Era e Latona [...] Era : […] In realtà egli stesso, il Profeta, ignorava che avrebbe ucciso il suo amato e non previde che Dafne lo avrebbe sfuggito, nonostante la sua bellezza e la sua chioma.
Luciano, Storia vera […] Allora, attraversato il fiume (il fiume di vino) dove era guadabile, scoprimmo la natura prodigiosa delle viti: le parti che uscivano dal terreno, veri e propri fusti, erano floride e massicce, le parti superiori erano donne, perfette in tutto dai fianchi in su, così come da noi dipingono Dafne nell’atto di trasformarsi in alloro quando è raggiunta da Apollo […].
160-177 d.C., Pausania, Graeciae Descriptio, VIII, 20, 1-4 Il Ladone è tra tutti i fiumi della Grecia (Arcadia) quello che ha le acque più belle, ed è anche famoso per Dafne e per ciò che i poeti hanno detto di lei. Non voglio citare quello che i Siriani, che abitano le rive del fiume Oronte, raccontano di Dafne, ma quello che dicono gli Arcadi e gli Elei. Enomao, re di Pisa (città dell’Elide, Peloponneso), aveva un figlio di nome Leucippo, che era innamorato di Dafne. Egli disperava di averla come moglie a causa dell’avversione che nei confronti di tutti gli uomini. Ecco il trucco che architettò. Si lasciò crescere i capelli per consacrarli al fiume Alfeo (Peloponneso); li intrecciò come se fosse una ragazza, e dopo aver indossato abiti da donna, si recò da Dafne, le disse che era la figlia del re Enomao e che voleva andare a caccia con lei.
Facendosi quindi passare per una fanciulla e dimostrando di essere di gran lunga superiore a tutte le altre, sia per nascita e per l’abilità nella caccia, e in più non trascurando nulla che potesse far piacere a Dafne, ben presto inspirò in lei la più calda amicizia. A questo punto, coloro che hanno celebrato l'amore di Apollo per Dafne dicono che questo dio, invidioso della felicità di Leucippo, abbia voluto tendergli un tranello. Il dio fece in modo che Dafne e le altre ragazze che erano con lei scendessero al fiume Ladone per nuotare, e nonostante Leucippo non volesse, lo spogliarono, e quindi, riconoscendo il suo sesso, lo trafissero con frecce e pugnali e lo uccisero. Così raccontano questa storia.
Pan e la ninfa Siringa III sec. d.C. LONGO SOFISTA, Le avventure pastorali di Dafni e Cloe, II, 34 «Questa siringa anticamente non era uno strumento musicale, ma una splendida fanciulla dalla voce melodiosa: pascolava le capre, giocava con le Ninfe, cantava come ora quello strumento suona. Un giorno, mentre pascolava, giocava e cantava, Pan le si avvicinò e tentò di convincerla a cedere alle sue voglie: in cambio le promise che tutte le sue capre avrebbero partorito coppie di gemelli.
Lei si prese gioco del suo amore, e gli rispose che mai avrebbe accettato come amante uno che non era né tutto caprone né tutto uomo. Allora Pan prese ad inseguirla con l’intenzione di usare la forza, ma Siringa sfuggì al dio e alla sua violenza. Alla fine, stanca di correre, si nascose in un canneto e sparì nella palude circostante. Furibondo, Pan tagliò le canne, e, non riuscendo a trovare la ragazza, resosi conto della sciagura che aveva procurato, costruì lo strumento musicale unendo con la cera canne di lunghezza diversa, così come disuguale era stato tra di loro l’amore: e quello che un tempo era una bella fanciulla, adesso è una siringa melodiosa».
Da sempre l'albero, considerato manifestazione della presenza divina, è stato oggetto di culto. Esso, con le radici nel sottosuolo ed i rami protesi verso il cielo, sembra mediare fra i tre mondi, il divino, il terreno e l'infernale. Fra le piante e gli uomini vi è sempre stato uno strettolegame: nei secoli tutti gli aspetti della vita umana sono stati descritti con metafore, locuzioni e proverbi tratti dal mondo vegetale. L'uomo nasce da un ceppo. Se è robusto, si dice che è ben piantato. Se è buono, in lui allignano - ovvero mettono radici e fioriscono - le virtú, mentre egli si impegna a sradicare i vizi. Questo legame tra l'uomo e l'albero è testimoniato dai miti che descrivono la metamorfosi d'esseri umani in piante.
Le piante a volte avevano origine da un essere semidivino di cui la specie portava il nome e che si presumeva averle dato vita; il più delle volte era una ninfa che aveva subito una metamorfosi. Queste storie erano correnti tra gli antichi e Ovidio ha dedicato loro tutta l’opera Le metamorfosi. Egli attinse ad un ricco sostrato tradizionale che rifletteva credenze molto arcaiche. Di solito la metamorfosi rappresentava l’unico mezzo per sfuggire a un rischio incombente: inseguita da un dio e sul punto di subire violenza, la ninfa invocava il fiume suo padre, che ne modificava l’aspetto; ingannando l’attesa dell’amante, essa perdeva all’istante l’apparenza carnale e si ritrovava al riparo da qualsiasi concupiscenza. Non tutte le ninfe si trasformavano in qualsiasi specie. Esisteva un rapporto preciso tra l’albero da una parte e la ninfa e suo padre dall’altra, come se appartenessero alla stessa famiglia, come se la ninfa stessa fosse già in partenza l’albero che sarebbe diventata, così da chiedersi se l’essere di carne non fosse solo l’incarnazione provvisoria in forma umana dell’anima dell’albero.
L’identificazione di certi alberi con ninfe, i rapporti di questi con un dio, le condizioni delle loro metamorfosi consentono di capire i pregi e le caratteristiche che gli antichi attribuivano a quelle specie. Le metamorfosi corrispondono ad una lettura e ad una interpretazione della natura nell’ambito della quale tutto ha un preciso significato e che definisce il rapporto dell’uomo con ogni specie. La più celebre delle metamorfosi vegetali è quella che fece di Dafneil lauro di Apollo, l’arbusto sacro che aveva una parte importantissima in tutte le manifestazioni religiose e civiche. Ovidio descrive mirabilmente tale metamorfosi, ma tralascia una parte del mito che era stato sviluppato dai suoi predecessori greci e che gli conferisce un altro spessore.
MITOGRAFI GRECI Dafne era in Tessaglia una sacerdotessa della TerraMadre e a questa essa si rivolge implorandola. Allora, come per incantesimo, la dea la rapisce portandola a Creta, dove Dafne diventa Pasifae, e al suo posto lascia un lauro. Elementi da notare: la storia si svolge in un primo tempo in Tessaglia, paese di Aria, ninfa del sughero, la quale fu sedotta precedentemente da Apollo stesso e da cui generò un figlio di nome Mileto; la storia si conclude a Creta, dove Mileto seduce Minosse, che poi lo caccerà e sposerà Pasifae, dalla quale avrà Arianna.
Apollo è figlio di Leto (Latona), anch’essa divinità orientale di un albero, la palma. Egli aveva provocato la morte del suo rivale Leucippo, che si era travestito da fanciulla per vincere le resistenze della ninfa Dafne e si era mescolato alle compagne che percorrevano con lei i selvaggi valloni. Il dio consigliò alle donne di fare il bagno nude, così l’impostore fu scoperto e fatto a pezzi dalle terribili vergini. Il travestimento aggrava sicuramente la colpa di Leucippo e significa una cosa sola: il culto del lauro era rigorosamente vietato agli uomini. Apollo non è riuscito ad appropriarsene direttamente, ma solo a collegare al suo culto l’albero oracolare.
Al santuario di Delfi la masticazione delle foglie del lauro sacro, che produceva l’estasi necessaria all’enunciazione dell’oracolo, era permessa esclusivamente ad una sacerdotessa, la Pizia. Siamo comunque di fronte all’appropriazione di un antico culto da parte di un dio nuovo. Leucippo (“cavallo bianco”) era figlio di Enomao, famoso per il suo amore per i cavalli, e padre di Ippodamia (“domatrice di cavalli”). Questa storia si riferisce, forse, all’invasione, ad opera dei cavalieri ellenici, della valle di Tempe (Tessaglia), dove scorre il Peneo, e da dove, secondo la leggenda, Apollo portò il lauro a Delfi.
CULTO PRIMITIVO Un culto primitivo unisce la luna, un albero e un cavallo. Nel luogo ancor oggi selvaggio della valle di Tempe (Tessaglia), un collegio di Menadi, masticando foglie di lauro, celebrava un culto bacchico (Enomao significa appunto “amico appassionato del vino”) in onore di una certa dea Dafene (“rosso porpora”, ovvero “sanguinaria”), secondo Nonno di Panopoli (Dionisiache, 14, 80). Pare si trattasse di una Dea Madre con la testa di giumenta, dalla quale dipendeva un re consacrato al culto dell’albero e del cavallo, che si chiamava probabilmente Leucippo.
Leucippo regnava un solo anno e poi veniva fatto a brandelli dalle Menadi infuriate. Secondo Plutarco, le sacerdotesse di Dafene, cacciate dalla Tessaglia, si sarebbero rifugiate a Creta e qui avrebbero adorato la dea con il nome di Pasifae (“quella che fa luce a tutti”), epiteto della luna, con la quale Dafne aveva quindi attinenza. Ovidio, infatti, la paragona a Febe, la Luna appunto.
Si tratta di una fanciulla che, inseguita da Ade, si trasformò in un pioppo bianco, Leuke appunto. Poiché Ade non abbandonava la preda, ella dovette rimanere sulla soglia degli Inferi, accanto al fiume Mnemosyne (Memoria) del quale forse era la figlia. Tale fiume costituiva il confine tra il Tartaro, soggetto ad Ade, e l’Eliseo, soggiorno dei beati, governati da Crono (dio del tempo, figlio di Urano e Gea e padre di Zeus). Le acque di questo fiume permettevano ai defunti di accedere all'immortalità degli eroi. Leuke è anche il nome di una delle isole dei Beati, una sorta di paradiso popolato da animali selvatici addomesticati, dove gli eroi si recavano a riposarsi dopo la morte. Questo si dice fosse il significato simbolico che i Greci attribuivano al pioppo bianco, albero della morte luminosa, contrapposto al pioppo nero, che era invece funesto. I mitografi greci e latini riferiscono altre tre storie di ninfe che non sfuggirono alle brame divine se non ottenendo di essere trasformate in alberi. LEUKE
Filira era una ninfa, figlia di Oceano, che viveva nell'isola del Ponto Eusino che porta il suo nome. Un giorno Crono si unì a lei, ma, colto sul fatto dalla moglie Rea, prese le sembianze di uno stallone e fuggì al galoppo, abbandonando Filira al suo destino. Ella rimase incinta e partorì un figlio mezzo uomo e mezzo cavallo, il centauro Chirone. La vergogna e l'orrore che Filira provò furono tali che pregò suo padre di trasformarla in un albero. Il genitore acconsentì e la ninfa divenne un tiglio. Il tiglio era in Grecia e ancor prima a Creta (la parola Philyra è cretese) l’albero medicinale per eccellenza e i suoi fiori erano utilizzati come rimedio. Si utilizzava il tiglio o liber (sempre chiamato Philyra) per farne la carta; tagliato a strisce, serviva per la divinazione. FILIRA, IL TIGLIO
Un altro mito greco racconta le vicende della casta ninfa Pitis, che Pan tentò di violentare come Siringa. Per sfuggirgli ella chiese ed ottenne d'essere trasformata in un pino nero. Secondo un'altra versione della leggenda, Pitis aveva due prediletti: Pan e Borea, il vento settentrionale. Quando Pitis scelse il primo, Borea si vendicò col suo soffio impetuoso, precipitando la poveretta dall'alto di una roccia. Allora la Terra, impietosita, trasformò il suo corpo in un pino e Pan, addolorato, decise d'adornarsi la fronte con corone intrecciate con rami di questo albero. Quando in autunno soffia Borea, dalle pigne del pino sgorga una resina trasparente: le lacrime di Pitis. PITIS, IL PINO NERO
Dafne vittima di un amore che non corrisponde Apollo non tiene conto della volontà di Dafne e la insegue fino alle estreme conseguenze. Alla fine egli si pente della triste fine della fanciulla e, cingendosi il capo delle odorose fronde dell’albero, proclama che l’alloro sarà sacro al suo culto e segno di gloria sul capo dei vincitori. Al contrario nella celebre ode ad Afrodite, la poetessa greca Saffo invoca la dea perché ristabilisca gli equilibri e faccia rispettare la legge cosmica dell’amore, secondo la quale chi è amato ha il dovere di ricambiare con altrettanto amore. Il rifiuto costituisce un atto di ingiustizia (adikia). Nell’immaginazione della poetessa, prontamente Afrodite le offre aiuto e consolazione.
Preghiera ad Afrodite Afrodite immortale dal trono variopinto, figlia di Zeus tessitrice d’inganni, ti prego, non piegarmi con affanni ed angosce l’animo, o veneranda; orsù vieni qui, se mai anche un’altra volta udendo il mio grido da lontano, (l’) ascoltasti e, abbandonata la casa dorata del padre, giungesti dopo aver aggiogato il carro: ti conducevano i bei passeri veloci sulla nera terra sbattendo fitte le ali dal cielo attraverso l’aere; subito giunsero: e tu, o beata, sorridendo col volto immortale (mi) domandavi che cosa ancora avessi patito e perché ancora (ti) chiamassi e che cosa soprattutto desiderassi ottenere con animo folle: “Chi di nuovo devo convincere ad accettare il tuo amore? Chi, o Saffo, ti fa torto? E infatti, se fugge, presto inseguirà, e se non accetta doni, poi (ne) offrirà, e se non (ti) ama, presto (ti) amerà anche contro voglia” Vieni ancora da me e liberami dai penosi affanni e quanto il cuore desidera compiere, compilo per me e tu stessa sii (mia) alleata.
Ifigenia in Aulide (Ἰφιγένεια ἡ ἐν Αὐλίδι) di Euripide, scritta tra il 407 e il 406 a.C. In Aulide, sulla costa della Beozia, le barche dirette verso Troia sono bloccate a causa di una bonaccia. L'indovino Calcante afferma che solo sacrificando alla dea Artemide una figlia di Agamennone, Ifigenia, i venti torneranno a spirare.
Ifigenia però non è con loro, è rimasta a casa, così Agamennone, persuaso da Odisseo, le scrive una lettera in cui le prospetta un matrimonio con Achille, chiedendole quindi di raggiungerli in Aulide (Beozia). In seguito però, pentito di questo inganno, cerca di avvertire la figlia di non mettersi in viaggio scrivendole un altro messaggio. Il secondo messaggio viene intercettato da Menelao, che lo toglie di mano al vecchio che lo portava con sé e rimprovera aspramente Agamennone per il suo tentativo di tradimento. Arrivano quindi in Aulide Ifigenia e la madre Clitemnestra, con il piccolo Oreste, per le nozze. A quel punto emerge la verità, sicché le due donne si ribellano furiosamente: Clitemnestra biasimando aspramente il marito, Ifigenia chiedendo pietà con parole toccanti. Anche Achille, nello scoprire che il suo nome era stato usato per un atto tanto infame, minaccia vendetta. Ifigenia tuttavia, nel vedere l’importanza che la spedizione ricopre per tutti i greci, cambia atteggiamento e offre la propria vita, calmando la madre e respingendo l’aiuto di Achille. Al momento del sacrificio, però, la ragazza scompare ed al suo posto la dea Artemide invia una cerva, tra lo stupore e la felicità dei presenti, che in tal modo capiscono che la ragazza è stata salvata dagli dei ed ora dimora presso di loro. Il vento torna a spirare e la flotta può finalmente salpare verso Troia.
Durante un viaggio in Grecia, nel luglio 1895, Gabriele D’annunzio visitò il tumulo di Maratona, che si leva alto più di dodici metri in onore dei caduti ateniesi. In quel luogo, sospeso tra mito e realtà, alcune bacche tra il nero e l’azzurro di una pianta d’alloro, di cui aveva reciso un rametto, gli fanno tornare alla memoria la lucentezza della testa della rondine, in cui era stata trasformata Philomela. Io sul tuo tumulo grande colsi una rama d'alloro che dure avea foglie di bronzo ma bacche tra nere e azzurrigne rilucenti come la testa della rondinella cecròpia. (Gabriele D’Annunzio, Maia)