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KIERKEGAARD (vita etica e religiosa). prof. Michele de Pasquale. vivendo momento per momento, l'uomo non trova mai in sé una sua propria identità:
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KIERKEGAARD(vita etica e religiosa) prof. Michele de Pasquale
vivendo momento per momento, l'uomo non trova mai in sé una sua propria identità: s'insinua il sentimento dell'inadeguatezza del suo modo di vivere; s'insinua la noia che apre la porta alla disperazione(il suo legarsi all'attimo, il suo incessante passaggio da piacere a piacere, non è che inconsapevole disperazione) l’esteta rimane sempre nel vertice delle infinite possibilità: può essere tutto ed in realtà non è niente; si affaccia costantemente sull’abisso del nulla la consapevolezza di questa situazione costituisce la condizione primaria per l'insorgenza del bisogno di cambiar vita: il salto nello stadio etico
la disperazione è diversa dal dubbio filosofico che coinvolge solo il pensiero, qui è coinvolta l’intera personalità (anche l’esistenza) “Il dubbio è la disperazione del pensiero, la disperazione è il dubbio della personalità; e per questo tengo tanto alla determinazione della scelta, che è diventata il mio motto, il nerbo della mia concezione di vita; e ho una concezione di vita, anche se non pretendo affatto di avere un sistema. Il dubbio è il movimento interno del pensiero stesso, e nel mio dubbio mi comporto piú impersonalmente che posso. Supposto che il pensiero, quando il dubbio si completa, trovi l’assoluto e si riposi in lui, esso riposa in lui non in seguito ad una scelta ma in seguito alla stessa necessità per cui dubitava; poiché il dubbio stesso è una determinazione di necessità, e cosí pure il riposo [...]. Il dubbio e la disperazione stanno dunque di casa in due sfere completamente diverse; sono corde assai diverse dell’anima che vengono messe in movimento. Ma questa conclusione non mi soddisfa affatto, perché il dubbio e la disperazione vengono in questo modo coordinati, e questo non deve avvenire. La disperazione è un’espressione molto piú profonda e completa, il suo movimento è molto piú ampio di quello del dubbio. La disperazione è l’espressione di tutta la personalità, il dubbio solo del pensiero.” (Kierkegaard, Aut-Aut)
nel momento in cui l'esistenza assume una dimensione etica, tutto cambia: l'uomo non è piú scelto dai piaceri, ora sceglie davvero, sceglie se stesso attribuendosi consapevolmente ed intenzionalmente ruoli e compiti a cui s'impegna di restar fedele a differenza dell'esteta, l'uomo etico concepisce la vita come impegno con sé e con gli altri, come impegno durevole e concreto apre la sua esistenza alla prospettiva del futuro, in quanto le scelte non valgono per l'attimo, ma costituiscono progetti per l'avvenire: sa che questi progetti non comportano piacere, ma obblighi; supera la dispersione di sé e desidera la stabilità del rapporto con sé e con gli altri
“Cosa è l’estetica nell’uomo, e cosa è l’etica? A ciò risponderò: l’estetica nell’uomo è quello per cui egli spontaneamente è quello che è; l’etica è quello per cui diventa quello che diventa... Scegli dunque la disperazione, poiché la disperazione stessa è una scelta. Si può dubitare senza scegliere il dubbio, non si può disperare senza scegliere la disperazione. E mentre si dispera, si sceglie di nuovo. E cosa si sceglie? Si sceglie se stessi, non nella propria immediatezza, non come questo individuo casuale, ma si sceglie se stessi nel proprio eterno valore.” (Kierkegaard, Aut-Aut)
l’uomo etico si sottopone ad una forma, adegua la sua individualità ad un tipo di vita universale, scegliendo in luogo della eccezionalità la normalità nel matrimonio l’esperienza del primo amore dell’esteta viene vissuta stabilmente nella continuità della vita matrimoniale grazie all’esperienza che si fa del possesso (diversa dalla conquista dell’esteta) nella vita etica l'uomo recupera la dimensione del suo passato: si giudica e si pente, e il pentimento lo induce di nuovo a porre in questione se stesso, a cercare radicalmente se stesso; percepisce infatti la distanza che separa sé, quello che esiste, da sé, quello che dovrebbe essere, e dal resto del mondo
s'accorge che neppure con la vita etica ha conquistato pienamente se stesso, neppure essa riesce a colmare la sua insoddisfazione di sé: l'adeguamento ad un tipo, ad una forma, infatti lo spinge alla ripetizione abitudinaria, alla ritualità dei comportamenti, in cui non riesce a ritrovarsi il suo vero sé sta ancora oltre: con la vita etica ha scelto se stesso, ma questa scelta non è radicale, assoluta: deve ancora cercare
è il momento in cui rispunta la disperazione assolutache induce l'uomo a centrarsi su di sé, che non gli lascia altra prospettiva che uscire fuor di sé, aprirsi ad altro, aprirsi anzi ad un altro che sia Assoluto, cioè a Dio “ Eppure è mia intima convinzione che la vera salvezza dell'uomo è nel disperarsi. Qui appare di nuovo l'importanza di volere la propria disperazione, di volerla in senso infinito, in senso assoluto, poiché un simile volere è identico all'assoluta dedizione. Se invece voglio la mia disperazione in senso finito, la mia anima ne soffre, poiché cosí il mio essere piú profondo non giunge a prorompere nella disperazione, ma al contrario si richiude in essa, si indurisce. Cosí la disperazione finita è un rinchiudersi nel finito, la disperazione assoluta un dischiudersi all'infinito.” (Kierkegaard, Aut-Aut)
l’etica addita l’idealità come scopo e presuppone che l’uomo sia in grado di raggiungerla, ma ciò non è possibile perché l’uomo è gravato dal peccato: la vera scelta etica deve passare attraverso la dolorosa accettazione della propria colpa (il pentimento è l’espressione dell’amore per Dio) la disperazione assoluta è la condizione del passaggio allo stadio religioso: la vita religiosa non nasce come continuazione della vita etica, ma, al contrario, dal naufragio di questa; come rottura, conversione, abbandono anche degli stessi criteri e valori etici lo strumento che permette la vita etica è la ragione, quello che guida la vita religiosa è la fede
il dramma della scelta di Abramo: scegliere i comandi della morale del suo popolo o la volontà di Dio? “… quando mi metto a riflettere su Abramo sono come annientato. Ad ogni istante i miei occhi cadono sull’inaudito paradosso ch’è la sostanza della sua vita. Ad ogni istante sono respinto indietro e, malgrado il suo appassionato accanimento, il mio pensiero non può penetrare quel paradosso neppur per un capello. Tendo ogni muscolo nella ricerca di una via di uscita. E, simultaneamente, sono paralizzato. Ci furono uomini grandi per la loro energia, per la saggezza, la speranza o l'amore. Ma Abramo fu il piú grande di tutti: grande per l'energia la cui forza è debolezza, grande per la saggezza il cui segreto è follia, grande per la speranza la cui forma è demenza, grande per l'amore ch'è odio di se stesso. Fu per fede che Abramo lasciò il paese dei suoi padri e fu straniero in terra promessa. Lasciò una cosa, la sua ragione terrestre, e un'altra ne prese: la fede. Altrimenti, pensando all'assurdità del suo viaggio, non sarebbe partito. Fu per fede uno straniero in terra promessa ove nulla gli ricordava quel che egli amava, mentre la novità di tutte le cose gli poneva in cuore la tentazione d'un doloroso rimpianto ... %
Fu per fede che Abramo ricevette la promessa che tutte le nazioni della terra sarebbero state benedette nella sua posterità. Il tempo passava, la possibilità rimaneva Abramo credeva. Il tempo passò, la speranza diventò assurda, Abramo credette. È pure esistito nel mondo colui che ebbe una speranza. Il tempo passò, la sera fu al suo declino, e quell'uomo non ebbe la viltà di rinnegare la sua speranza... Poi conobbe la tristezza; e il dolore, invece di deluderlo come la vita, fece per lui tutto quel che poté e, nella sua dolcezza, gli dette il possesso della sua speranza ingannata. È umano conoscere la tristezza umano condividere la pena di chi è afflitto, ma è cosa piú grande credere, e piú confortevole e benefica cosa contemplare chi crede. Abramo non ci ha lasciato lamentazioni. Non ha contato tristemente i giorni man mano che trascorrevano; non ha guardato Sara con occhio inquieto per vedere se gli anni incidevano rughe sul suo volto; non ha fermata la corsa del sole per impedire a Sara di invecchiare, e Sara fu schernita nel paese. %
Eppure era l'eletto di Dio e l'erede della promessa... Non sarebbe forse stato meglio che egli non fosse stato l'eletto di Dio? Che cosa significa dunque essere l'eletto di Dio? Significa vedersi rifiutare nella primavera della vita quello che è il desiderio della giovinezza, per essere esaudito in vecchiaia dopo grandi difficoltà. Ma Abramo credette e serbò fermamente la promessa, cui avrebbe rinunciato se avesse dubitato. Avrebbe detto a Dio, allora: «Forse non è nella tua volontà che questo mio desiderio si realizzi. Rinuncio dunque al mio desiderio, all'unico mio desiderio, nel quale riponevo la mia felicità. La mia anima è onesta, e non nasconde nessun astio segreto per il tuo rifiuto». Non sarebbe stato dimenticato. Avrebbe salvato molti col suo esempio ma non sarebbe diventato il padre della fede, perché è grande cosa rinunciare al proprio desiderio piú caro, ma è cosa piú grande serbarlo dopo averlo abbandonato. Grande è cogliere l'eterno, ma è piú grande cosa riavere il transeunte, dopo averne fatto rinuncia.” (Kirkegaard, Timore e tremore)
la scelta di Abramo è assurda e paradossale: rivela la collisione tra etica e religione, tra immanenza e trascendenza
“È evidente la differenza che separa l’eroe tragico da Abramo. L’eroe tragico rimane ancora nei confini della morale. Per lui ogni espressione della morale ha il suo télos in una espressione superiore della morale; egli riduce il rapporto morale tra padre e figlio o tra figlio e padre a un sentimento, la cui dialettica si riferisce all’idea di moralità. Non è possibile, quindi, che qui si tratti di una sospensione teleologica della morale, in quanto tale. Con Abramo, è tutta un’altra cosa. Col suo atto egli ha varcato i confini di tutta la sfera morale. Il suo télos è piú in alto, al di sopra dell’etica; in vista di questo télos egli sospende la morale. Perché vorrei sapere come è possibile ricondurre la sua azione al Generale, e se è possibile scoprire, fra la sua condotta e il Generale, un rapporto qualsiasi che non sia quello di aver oltrepassato questo ultimo. Egli non agisce per salvare un popolo, né per difendere l’idea dello stato, né per placare gli dei irritati. Se fosse possibile parlare del corruccio della divinità, quella collera si rivolgerebbe solo contro Abramo, il cui comportamento è tanto strettamente privato e tanto estraneo al Generale. Cosí mentre l’eroe tragico è grande per la sua virtú morale, Abramo lo è per una virtú affatto personale. Nella sua vita la morale non trova espressione piú elevata di questa: il padre deve amare suo figlio. Se nella condotta di Abramo vi fosse traccia del Generale, ciò sarebbe concentrato in Isacco e come nascosto nei suoi fianchi, e griderebbe allora per bocca sua: “Non lo fare, tu distruggi tutto!”. %
Perché dunque Abramo lo fa? Per volontà, di Dio, come anche, in modo assolutamente identico, per volontà propria. Egli lo fa per volontà di Dio, perché Dio esige questa prova dalla sua fede, e per volontà propria, per poterla fornire, quella prova. L’unità di questa doppia situazione è ben indicata dalla parola che l’ha sempre designata: è una prova, una tentazione. Ma che cosa vuol dire una tentazione? Vuol dire qualcosa che pretende, di solito, distogliere l’uomo dal suo dovere. Ma qui essa è la moralità stessa, vogliosa di impedire ad Abramo di compiere la volontà di Dio. Che cos’è allora il dovere? L’espressione della volontà di Dio. A questo punto, se si vuol comprendere Abramo, appare la necessità di una nuova categoria. Il paganesimo ignora questo genere di rapporto con la divinità; l’eroe tragico non entra in relazione privata con essa. Per lui la morale è il divino, onde il paradosso lo riconduce al Generale per via di mediazione. Abramo si rifiuta alla mediazione. In altri termini: non può parlare. Dal momento in cui parlo, io esprimo il Generale e, se taccio, nessuno può comprendermi. Se Abramo vuol esprimersi nel Generale, deve dire che la sua situazione è quella del dubbio religioso; perché non c’è nessuna espressione piú alta, ricavata dal Generale, che sia al di sopra del Generale che egli trasgredisce. Perciò egli mi spaventa, pur suscitando la mia ammirazione. Chi rinnega se stesso e si sacrifica al dovere, rinuncia al finito per afferrare l’infinito. E va con sicurezza. L’eroe tragico rinuncia al certo per il piú certo e lo sguardo di chi lo contempla si posa fiducioso su di lui. Ma colui che rinuncia al Generale per afferrare una cosa piú elevata che non è il Generale, che cosa fa mai? E se non fosse altro che una crisi? E se la cosa è possibile, ma l’individuo si inganna, che salvezza ci può essere per lui?%
Egli soffre tutto il dolore dell’eroe tragico, annienta la sua gioia terrestre, rinuncia a tutto, e, forse nel medesimo istante, si chiude la via della gioia sublime, tanto preziosa ai suoi occhi da averla voluta conquistare ad ogni prezzo. Lo spettatore non può assolutamente comprenderlo, né contemplarlo con fiducia. Forse ciò che è nelle intenzioni dell’uomo di fede non può essere compiuto, perché non può essere concepito. E se pur è eseguibile, ma l’Individuo si inganna, sulla volontà divina, che salvezza gli rimane? L’eroe tragico ha bisogno di lacrime e reclama le lacrime. E quale uomo che contemplasse Agamennone con uno sguardo d’invidia avrebbe gli occhi asciutti e potrebbe non piangere con lui? Ma quale anima potrebb’essere tanto disviata da osar piangere con Abramo? L’eroe tragico compie il suo atto in un preciso momento del tempo; ma con la sua azione, egli vive e compie nelle generazioni future un azione non meno grande: visita l’anima piegata sotto la tristezza, colui il cui petto oppresso non può respirare né soffocare per i sospiri, nel turbamento dei suoi pensieri nutriti di lacrime; si mostra a costui, strappa il triste sortilegio, scioglie i legami, asciuga le lacrime; perché l’oppresso dimentica le proprie sofferenze in quelle dell’eroe. Non è possibile piangere su Abramo. Ci si avvicina a lui con un horror religiosus, come Israele si avvicina al Sinai.” (Kierkegaard, Timore e tremore)
per Abramo la fede è esperienza propria del singolo, vissuta in piena solitudine non è mai un possesso stabile, ma una ricerca continua, un rapporto con Dio che deve rinnovarsi momento per momento è un rapporto paradossale, perché implica lo scontro con la propria ragione, coi propri affetti e sentimenti, e perché è aperto sull'ignoto e quindi angoscioso è dono di Dio e non in potere dell'uomo: all'uomo manca la certezza di questo rapporto, mancano le possibilità di verifica all'uomo non resta altro che rinunciare a sé per trovare il vero se stesso