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Sentenze sull'applicazione del l’art. 2087 c.c. Fonte: sito Ing. Porreca. Cassazione Penale Sez. IV - Sentenza n. 19524 del 15 maggio 2008 (u. p. 13/3/2008) - Pres. Battisti – Est. Piccialli – P.M. Iannelli - Ric. B. A. .
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Sentenze sull'applicazione del l’art. 2087 c.c. Fonte: sito Ing. Porreca
Cassazione Penale Sez. IV - Sentenza n. 19524 del 15 maggio 2008 (u. p. 13/3/2008) - Pres. Battisti – Est. Piccialli – P.M. Iannelli - Ric. B. A. • IL DATORE DI LAVORO E’ IL GARANTE DELL’INCOLUMITA’ FISICA E DELLA SALVAGUARDIA DELLA PERSONALITA’ MORALE DEI PRESTATORI DI LAVORO OLTRE CHE PER LE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO ANCHE PER I DISPOSTI DI CUI ALL’ART. 2087 C.C.
Il datore di lavoro deve sempre attivarsi per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, e assicurarsi anche dell'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa. Tale obbligo discende oltre cha dalle specifiche disposizioni di prevenzione degli infortuni anche, più generalmente, dal disposto dell'articolo 2087 c.c., in base al quale il datore di lavoro è comunque il garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, gli viene imputato correttamente l’evento lesivo in forza del meccanismo previsto dall'articolo 40 comma 2 c.p. secondo il quale non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo.
E’ questa in sostanza la massima che discende dalla sentenza in esame della Sez. IV penale della Corte di Cassazione che in questo caso si è occupata di un infortunio occorso ad un lavoratore il quale mentre era intento a dei lavori di costruzione abusiva di un capannone industriale è rimasto mortalmente folgorato. • Dell’infortunio sul lavoro veniva ritenuto responsabile dalla Corte di Appello, contrariamente alle conclusioni della sentenza di primo grado, l’amministratore unico della società omonima che gestiva un'azienda agricola, per conto della quale si stava costruendo il capannone da adibire a deposito e la cui attività prevalente era quella della lavorazione e commercializzazione di agrumi e prodotti ortofrutticoli.
Contro le decisioni della Corte di Appello l’imputato ha fatto ricorso alla Corte di Cassazione sostenendo tra l’altro che il capannone, durante la costruzione del quale aveva perso la vita l'operaio, era oggetto di una costruzione abusiva e che l'attività illecita non rientrava nell'oggetto sociale della ditta di cui egli era amministratore. Sosteneva, inoltre, l’amministratore che, così come del resto aveva già fatto osservare il giudice di primo grado, egli non doveva essere considerato nella circostanza datore di lavoro dell’infortunato né destinatario dell’obbligo di controllare e sorvegliare il suo operato. non essendo stato individuato nel caso in esame il soggetto che aveva conferito l’incarico della costruzione abusiva e che doveva quindi rivestire la posizione di garanzia nei suoi confronti.
La Corte di Cassazione ha però ritenuto il ricorso inammissibile ed in risposta alle giustificazioni addotte dal legale difensore dell’imputato ha fornito delle interessanti considerazioni circa l’applicazione, con particolare riferimento alla tutela delle condizioni di lavoro, dell’art. 2087 c.c. e conseguentemente dell’art. 40 c.p. Sostiene, infatti, la Sez. IV che “in forza della disposizione generale di cui all'articolo 2087 c.c. e di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro” e, pur precisando che comunque il citato art. 2087 c.c. non configura di per sé una sorta di responsabilità oggettiva del datore di lavoro dovendo pur sempre ricollegarsi alla violazione di obblighi di legge o a soluzioni suggerite dall'esperienza e dalle conoscenze tecniche, ha aggiunto la Sez. IV che, di conseguenza, “il datore di lavoro, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l'opera”.
“In altri termini” - prosegue la Corte di Cassazione - “il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell'articolo 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'articolo 40 c.p., comma 2, (v. Sezione 4, 22 gennaio 2007, Pedone ed altri)”.
In virtù di tali indicazioni, già del resto fornite in passato dalla stessa Corte di Cassazione, questa ha quindi sostenuto che giustamente nel caso in esame è stato individuato dal giudice di merito un nesso eziologico fra l’evento dannoso ed il comportamento del datore di lavoro in quanto il capannone in corso di costruzione si trovava sul terreno di proprietà dell'imputato e lo stesso doveva essere utilizzato quale magazzino dell'azienda agricola della quale egli era l’amministratore unico. La stessa Sez. IV ha ritenuto irrilevante, inoltre, la circostanza addotta dalla difesa in base alla quale l'attività lavorativa nel corso della quale l’infortunato aveva perso la vita non rientrasse nell'attività propria dell'azienda agricola destinata alla lavorazione e commercializzazione di agrumi e prodotti ortofrutticoli e ciò in quanto in ogni caso la costruzione del capannone era funzionale e necessaria all'attività dell'azienda né era stata individuata una espressa delega di funzioni idonea a mandare l’imputato esente da responsabilità come datore di lavoro.
A seguito di quanto sopra affermato, prosegue la Suprema Corte, “non si comprende come si possa negare che all’imputato fosse attribuita una posizione di garanzia in relazione alla tutela della salute e della vita del lavoratore, essendosi l'incidente verificato all'interno del luogo di lavoro e nel corso di un'attività svolta nell'esclusivo interesse del datore di lavoro, quale era la costruzione di un capannone da adibire a magazzino”.
In merito poi alla osservazione che il datore di lavoro non fosse a conoscenza della costruzione del capannone, la Corte di Cassazione ha ribattuto che già i giudici di merito avevano fatto invece osservare la presenza in atti di documentazione dalla quale emergeva invece il contrario e consistente, per la precisione, nelle testimonianze rese dal figlio e dal fratello dell’infortunato ma soprattutto nel piano di sicurezza predisposto dallo stesso imputato, proprio in funzione della costruzione di quel capannone, dalla lettura del quale era emerso espressamente il divieto di esecuzione dei lavori in prossimità delle linee elettriche. • Conclude quindi la Sez. IV che è stata individuata giustamente una colpa a carico dell’imputato “riconducibile in ogni caso all'omesso controllo ed alla omessa vigilanza in ordine alla adozione di idonee misure protettive da parte del dipendente”.
Cassazione Sezione III Penale -Sentenza n. 44890 del 20 novembre 2009 (u. p. 21/10/2009) - Pres. Petti – Est. Fiale – P.M. Fraticelli – Ric. G. S. • ASSUNTA DALLA CORTE DI CASSAZIONE UNA POSIZIONE ABBASTANZA RIGOROSA ED IN UN CERTO SENSO CONTROCORRENTE IN MERITO ALLA DELEGA DI FUNZIONI IN MATERIA DI TUTELA DELLA SALUTE E DELLA SICUREZZA NEI LUOGHI DI LAVORO.
La presenza di una delega non perfetta in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro e quindi la sua invalidità non esonera il delegante da responsabilità ma non esclude neanche la responsabilità del destinatario della delega che di fatto abbia svolte le funzioni a lui delegate. E’ questa la massima che emerge dalla lettura di questa singolare sentenza della Corte di Cassazione III sezione penale. Nella stessa viene sostenuto, in altri termini, che il delegato che ritenga di non essere stato posto in grado di svolgere le funzioni delegate ovvero non si ritenga in condizioni di svolgerle adeguatamente deve chiedere al delegante di porlo in grado di farlo ed in caso di mancato accoglimento della richiesta deve rifiutare il conferimento dell’incarico.
La Corte di Appello ha confermato la sentenza emessa da un Tribunale monocratico che aveva affermata la responsabilità penale di un dirigente comunale delegato dal sindaco di un Comune in ordine alle contravvenzioni di cui all’art. 382 del D.P.R. n. 547/1955, all’art. 22, comma 1, all’art. 43, comma 3, ed all’art. 21 del D. Lgs. n. 626/1994 e lo aveva condannato alla pena complessiva di mesi tre di arresto, convertita nella corrispondente pena pecuniaria di euro 2.660,00 di ammenda (interamente condonata con concessione del beneficio della non menzione).
I reati contestati si riferivano all’infortunio occorso ad un lavoratore il quale, incaricato di eseguire la pulizia e la smerigliatura di una ringhiera sul lungomare della borgata, era stato attinto da una scheggia di ruggine penetratagli in un occhio in quanto non era stato munito di occhiali idonei a proteggere gli occhi da schegge e materiali dannosi e non aveva, altresì, ricevuto una adeguata informazione sui pericoli connessi alla propria attività lavorativa.
Avverso tale sentenza il dirigente comunale ha proposto ricorso alla Corte di Appello eccependo che la delega conferitagli dal sindaco in materia antinfortunistica e di sicurezza sul lavoro non poteva ritenersi "pienamente valida e produttiva di effetti giuridici" perchè non accompagnata dall'effettiva assegnazione, da parte del delegante, dei fondi necessari per l'espletamento delle funzioni delegate. Inoltre lo stesso ha sostenuto che gli occhiali dei quali era stato munito il lavoratore infortunato e che questi indossava al momento dell'infortunio erano correttamente dotati di stanghette e ripari laterali così come previsto dalla vigente normativa in materia di dispositivi individuali di protezione oltre al fatto che incongruamente la Corte di merito aveva ritenuto "superfluo" l'espletamento di perizia rivolta ad accertare se gli occhiali stessi di protezione fossero conformi alla normativa tecnica in materia di prevenzione degli occhi dei lavoratori dai rischi meccanici derivanti da lavori di smerigliatura.
La Corte di Cassazione ha però rigettato il ricorso perchè infondato. La stessa ha ritenuta priva di decisività la censura proposta dal ricorrente riguardante la validità della delega conferitagli in materia di sicurezza sul lavoro. “se anche fossero vere le circostanze dedotte nell'atto di gravame, infatti,” ha sostenuto la Sez. III, “non per questo verrebbe meno la responsabilità del delegato, poiché l'invalidità della delega - in base al principio di effettività - impedisce che il delegante possa essere esonerato da responsabilità ma non esclude la responsabilità del delegato che, di fatto, abbia svolto le funzioni delegate (vedi Cass., Sez. 4, 27.11.2008, n. 48295, Libori). In realtà il delegato che ritenga di non essere stato posto in grado di svolgere te funzioni delegate (ovvero non si ritenga in grado di svolgere adeguatamente quelle funzioni) deve chiedere al delegante di porlo in grado di svolgerle e, in caso di rifiuto o mancato adempimento, rifiutare il conferimento della delega”.
Per quanto riguarda, infine, la regolarità degli occhiali di protezione dei quali il lavoratore infortunato era stato dotato, i giudici del merito, secondo la suprema Corte, avevano giustamente dichiarata la loro inidoneità a proteggerne gli occhi da schegge e materiali dannosi prodotti nell'esecuzione all'aperto di lavori di smerigliatura ed in condizioni meteorologiche dove l'azione del vento, tra l’altro, era un fattore ben conosciuto e prevedibile. Detti occhiali, infatti, ha concluso la Sez. III, pure essendo stata certificata la loro resistenza alle particelle ad alta velocità ed alle temperature elevate, non possedevano l'importante requisito di una completa aderenza al volto in quanto restavano distanziati dallo stesso per oltre un centimetro consentendo in tal modo il passaggio di materiale che, così come è accaduto, poteva raggiungere gli occhi di chi li indossava.
Cassazione Sezione IV - Sentenza n. 6195 del 12 febbraio 2009 - Pres. Licari – Est. Foti – P.M. Geraci - Ric. Z. A. • IL DATORE DI LAVORO HA IL DOVERE, OTRE CHE DI FORMARE ED INFORMARE I LAVORATORI SUI RISCHI PRESENTI NELLA PROPRIA AZIENDA O UNITA’ PRODUTTIVA, DI VERIFICARE E CONTROLLARE CHE LE DISPOSIZIONI DA LUI IMPARTITE SIANO REALMENTE OSSERVATE DAGLI STESSI.
Vengono chiaramente ribaditi in questa sentenza degli obblighi a carico dei datori di lavoro ormai consolidati nelle vigenti normative in materia di salute e sicurezza sul lavoro e riguardanti in particolare la necessità da parte dei datori di lavoro non solo di formare ed informare i lavoratori ma anche di verificare e controllare che sia le disposizioni di legge che quelle impartite dallo stesso datore di lavoro siano realmente osservate dai lavoratori stessi durante la loro attività lavorativa.
Nel caso in esame con una sentenza del giudice monocratico di un Tribunale, poi confermata dalla Corte di Appello, il direttore di uno stabilimento, delegato dal datore di lavoro all'adozione, all’osservanza ed al controllo del rispetto delle norme di sicurezza, veniva dichiarato colpevole del delitto di lesioni personali colpose gravissime in danno di un lavoratore e condannato alla pena ritenuta di giustizia oltre che al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio in favore della parte civile costituita.
All’imputato veniva attribuita la colpa generica e specifica in ragione del mancato rispetto, in particolare, dell’art. 35 comma 2 del D. Lgs. n. 626/1994 per aver provocato ad un dipendente della società, addetto al funzionamento di una cesoia, un infortunio a seguito del quale lo stesso riportava l'amputazione del piede destro e della gamba fino al terzo medio, per il sopraggiungere di necrosi cutanea, nonché una ferita da scoppio alla mano sinistra.
L’infortunio era accaduto in quanto il lavoratore, addetto al controllo della macchina, dopo aver scavalcata una ringhiera alta circa un metro che si estendeva lungo il perimetro della macchina, era salito su di una pedana disposta su dei rulli di avvolgimento di una lamiera per controllare che tutto procedesse regolarmente e, sportosi però in avanti aveva perso l’equilibrio e, per evitare di cadere, aveva finito con l'appoggiarsi su di una lamiera in movimento venendo trascinato verso dei rulli che gli schiacciavano il piede destro e la mano sinistra.
Il giudice di primo grado aveva rinvenuto dei profili di colpa a carico dell'imputato anzitutto per aver omesso di istruire adeguatamente il lavoratore circa le proprie mansioni e le modalità d'uso della macchina al cui funzionamento era addetto nonché di informarlo sui rischi connessi all'uso della stessa. L'obbligo della formazione del lavoratore era stato, peraltro, ritenuto ancor più doveroso nel caso particolare poiché l’infortunato era un giovane inesperto, assunto da soli tre mesi con contratto di formazione lavoro, e che aveva finito con l'apprendere "sul campo" la natura delle proprie mansioni, sulla base delle indicazioni dei colleghi anziani. Ulteriore profilo di colpa era stato rinvenuto nell'avere l'imputato tollerato una prassi consolidata che prevedeva l'accesso alla linea di produzione superando le protezioni e con la macchina in movimento.
Il giudice, pertanto sulla base degli elementi probatori acquisiti, costituiti in buona parte dalle testimonianze dei colleghi di lavoro della vittima, aveva ritenuto che l'infortunio fosse stato causato dalla negligenza dell'imputato e dalla violazione, da parte sua, degli obblighi che gravavano su di lui in ragione del ruolo ricoperto all'interno dello stabilimento ed in particolare della violazione del dovere di formazione e di informazione del lavoratore, nonché del dovere di vigilanza, non essendo emerso che egli si fosse attivato per assicurarsi che le disposizioni impartite fossero realmente osservate, in tal guisa avendo consentito l'instaurarsi di una prassi lavorativa ad alto rischio.
Le decisioni del primo giudice sono state successivamente confermate dalla Corte di Appello ed avverso le stesse l’imputato ha fatto ricorso alla Corte di Cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza e sostenendo da un lato che la cesoia alla quale era stato addetto il lavoratore infortunato era certamente idonea sotto il profilo della sicurezza, essendo dotata di una recinzione e di accessi muniti di microinterruttori che, all'apertura dei cancelli, determinavano l'automatico blocco dell'impianto e dall’altro che gli interventi sulla macchina era soggetti al rispetto di una specifica procedura.
In merito alla carenza di informazione sull'uso della macchina e sui rischi connessi allo svolgimento dell'attività, l’imputato sosteneva che nei pressi della macchina erano stati sistemati apposti cartelli che prevedevano l'espresso divieto di operare su organi in movimento, divieto ben noto ai lavoratori come dagli stessi confermato anche in dibattimento. Il problema, inoltre, della formazione e dell'informazione era, secondo il ricorrente, del tutto estraneo alla dinamica dell'infortunio poiché le procedure previste ed i cartelli segnalatori garantivano la perfetta informazione.
Del resto, sosteneva ancora l’imputato nel ricorso, l'infortunio non si è verificato a seguito di un uso improprio della macchina, bensì della violazione di precise norme di sicurezza. In sintesi, deduceva il ricorrente, la sola violazione del dovere di formazione non si poneva in rapporto di causalità con l'evento che era stato determinato, in realtà, da un'imprudenza, individuale o collettiva, incoraggiata forse da una prassi distorta e che si è posto quale causa sopravvenuta escludente il rapporto di causalità rispetto alla condotta del datore di lavoro.
Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Suprema Corte che ha ribadito totalmente le osservazioni sull’accaduto già fatte in merito dalla Corte di Appello. Nessun dubbio è stato rilevato sulla colpa addebitata all’imputato rappresentata “dalla violazione dei suoi doveri di vigilanza e di controllo del reale e costante rispetto, da parte dei lavoratori, delle norme di sicurezza, nonché di intervento per impedire il formarsi ed il consolidarsi di sistemi lavorativi che mettevano a repentaglio l'incolumità dei lavoratori. Doveri che derivavano dalle cariche ricoperte nello stabilimento, la cui violazione non potrebbe essere giustificata dalle dimensioni dell'azienda posto che, attraverso una corretta organizzazione ed opportune disposizioni, l'imputato ben avrebbe potuto essere costantemente informato sui temi della sicurezza e del rispetto, da parte degli stessi lavoratori, delle relative norme. Doveri e responsabilità che prescindono dalla circostanza che lo stesso imputato fosse, contrariamente a quanto oggi sostiene, realmente inconsapevole di quella prassi”.
Anche con riguardo alla colpa contestata in merito alla violazione dei doveri di informazione e formazione del lavoratore infortunato, la Sezione IV ha condiviso le decisioni della Corte territoriale ponendo in evidenza che sia l’infortunato che i suoi colleghi hanno negato di avere mai partecipato a corsi di formazione specificamente finalizzati al corretto utilizzo della macchina oggetto dell'infortunio, così come hanno negato che fossero mai state impartite precise istruzioni sulle modalità di lavorazione in condizioni di sicurezza. “All'imputato, invero, - prosegue la Corte - si è fatto carico non dell'inadeguatezza della macchina sotto il profilo della sicurezza, né dell'assenza di specifiche prescrizioni circa le modalità di utilizzo della stessa, bensì di non avere vigilato per assicurare il rispetto di quelle prescrizioni, se non di avere quantomeno tollerato una pericolosa prassi aziendale, ed ancora, di non avere adeguatamente curato la formazione professionale del lavoratore infortunato”.
“Né è possibile dubitare” conclude la Suprema Corte, “che l'infortunio sia stato determinato dalla violazione dei richiamati obblighi, essendo del tutto evidente che proprio il mancato rispetto degli stessi ha determinato l'infortunio. Considerazione che ha legittimamente indotto i giudici del merito ad escludere qualsiasi valenza causale alla condotta del giovane assunto da poche settimane, privo di specifica esperienza ed immesso nel ciclo lavorativo senza adeguata informazione e formazione professionale, indotto a ripetere operazioni per prassi seguite dai colleghi di lavoro e da essi apprese”.
Cassazione Penale Sez. III -Sentenza n. 4063 del 28 gennaio 2008 (u. p. 4 ottobre 2007) - Pres. De Maio – Est. Franco – P. M. (Conf.) Tindari Baglione – Ric. F. G. • UNA INSUFFICIENTE FORMAZIONE DEI LAVORATORI CORRISPONDE AI FINI SANZIONATORI AD UNA MANCATA VALUTAZIONE E FORMAZIONE DEI LAVORATORI.
Con questa sentenza la Corte di Cassazione fornisce degli utili chiarimenti in merito all’applicazione degli obblighi da parte del datore di lavoro di effettuare una idonea valutazione dei rischi presenti nei luoghi di lavoro e di fornire una sufficiente formazione ai lavoratori dipendenti pervenendo alla conclusione che una valutazione dei rischi non accurata o comunque non adeguata ed una insufficiente formazione dei lavoratori corrispondono ai fini sanzionatori ad una mancata valutazione dei rischi e ad una mancata formazione dei lavoratori.
Il caso in esame riguarda un datore di lavoro rinviato a giudizio e condannato dal giudice del Tribunale di B. per i reati di cui • - all’articolo 4, comma 2, del D. Lgs. n. 626/1994 per avere omesso, quale titolare di un laboratorio di confezioni, di effettuare una idonea valutazione dei rischi reali e specifici presenti nell'ambiente di lavoro e legati alle particolari situazioni lavorative, per aver omesso di adottare una collaborazione fattiva con il medico competente ed il responsabile dei lavoratori per la sicurezza per la redazione del documento di valutazione dei rischi, per la mancanza di misure di prevenzione da adottare e di un programma per realizzare le stesse, ed • - all'articolo 22, comma 1, dello stesso D. Lgs. n. 626/1994 per non avere progettato ed attuato una adeguata attività formativa per tutti i lavoratori, contenente gli obiettivi specifici, la definizione di moduli didattici e gli strumenti per la verifica di apprendimento.
L’imputata, nel fare ricorso alla Corte di Cassazione, poneva in evidenza che, così come era emerso dalle dichiarazioni rilasciate in giudizio dal teste dell’accusa, era stato riscontrato solo un mancato adeguamento annuale del documento di valutazione dei rischi e non anche l’assenza del documento stesso come contestato nel capo di imputazione, che invece dagli atti risultava essere stato redatto fin dal 1996 e che inoltre in merito alla attività di formazione dei dipendenti questa era stata pur attuata ma ritenuta “insufficiente”.
La Sezione III penale della Corte di Cassazione ha però rigettato il ricorso osservando che con il capo di imputazione relativo alla valutazione dei rischi “è stato contestato all'imputata di ‘non avere effettuato una idonea valutazione dei rischi presenti nell'ambiente lavorativo’, il che comprendeva non solo l'ipotesi in cui il documento di valutazione non fosse stato redatto, ma anche quelle in cui non fosse stato aggiornato o non fosse comunque adeguato”. “Il giudice del merito, poi, - prosegue la Corte di Cassazione - “ha ritenuto sussistente il reato di cui al capo a) appunto perchè il documento di valutazione dei rischi (pur essendo stato redatto) non era sufficiente ed adeguato, in quanto non individuava gli specifici pericoli cui i lavoratori erano sottoposti in relazione alle diverse mansioni svolte e non specificava quali misure di prevenzione dovevano essere adottate”.
Analogamente, per quanto riguarda la imputazione relativa alla formazione dei dipendenti, la Sezione III ha ritenuto sussistere il reato contestato “perchè è stata accertata una insufficiente attività formativa, per la mancanza di una attività di istruzione e informazione inerente ai rischi cui i lavoratori erano esposti, circostanza questa del resto nemmeno contestata nella sua oggettività” ed ha concluso che “era stato contestata non solo la mancanza di attuazione e progettazione di attività formativa, ma anche di non aver assicurato ‘adeguata attività formativa’, il che comprendeva pure le ipotesi di attività formativa insufficiente ed inadeguata”.
Cassazione Sezione IV Penale - Sentenza n. 1834 del 15 gennaio 2010 (u. p. 16/12/2009) - Pres. Mocali – Est. Licari – P.M. (Parz. conf.) De Sandro - Ric. G. C. • STIGMATIZZATA DALLA CORTE DI CASSAZIONE LA EVOLUZIONE CHE HA SUBITA NEL TEMPO LA RESPONSABILITA’ DEL RSPP DOPO L’INTRODUZIONE DELL’OBBLIGO DEL POSSESSO DEI REQUISITI PROFESSIONALI.
In passato la Corte di Cassazione penale si è più volte espressa, anche in maniera diversa ed altalenante, in merito alla funzione assunta dai servizi di prevenzione e protezione nell’ambito della organizzazione della sicurezza sul lavoro nelle aziende ed in particolar modo sulla responsabilità della figura del coordinatore di tali servizi individuata nel RSPP e cioè nel responsabile del servizio di prevenzione e protezione (si citano ad esempio come espressioni a favore le sentenze Cass. Pen. Sez. IV n. 27420 del 4/7/2008 Pres. Visconti e Cass. Pen. Sez. IV n. 38430 del 22/11/2006 Pres. Marini e contro le sentenze Cass. Pen. Sez. IV n. 19523 del 15/5/2008 Pres. Battisti e Cass. Pen. Sez. IV n. 15226 del 17/4/2007 Pres. Marini).
Con questa sentenza ora la stessa Corte di Cassazione penale sembra aver voluto tirare un po’ le somme su quelli che sono stati gli orientamenti assunti nel tempo in materia, specie dopo che il legislatore ha inteso introdurre per le figure degli addetti e del responsabile di tali servizi di prevenzione e protezione l’obbligo del possesso di capacità e di requisiti professionali, e torna nuovamente ad esprimersi su di un argomento che forse a tal punto merita l’intervento della Corte di Cassazione a sezioni riunite. Secondo tale sentenza, infatti, il RSPP, ancorché privo di poteri decisionali e di spesa, pur rimanendo ferma la posizione di garanzia del datore di lavoro, può essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio ogni volta che questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare dovendosi presumere che, nel sistema elaborato dal legislatore, alla segnalazione dovrebbe seguire l’adozione da parte del datore di lavoro medesimo delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione.
La figura del RSPP, sostiene la suprema Corte in questa sentenza, non aveva assunto inizialmente, in base allo schema originario del D. Lgs. 19/9/1994 n. 626, una posizione di garanzia in quanto la responsabilità faceva prevalentemente capo al datore di lavoro. Le cose però, con l’entrata in vigore del D. Lgs. 23/6/2003 n. 195, che ha previsto in capo alla figura del RSPP la necessità di una qualifica specifica ed il possesso di capacità e di specifici requisiti professionali, sono cambiate. Dopo l’emanazione di tale decreto legislativo, infatti, secondo la suprema Corte, la mancata individuazione e segnalazione dei fattori di rischio nelle lavorazioni, la mancata elaborazione delle procedure di sicurezza nonché la mancata informazione e formazione dei lavoratori costituiscono una omissione definita “sensibile” tutte le volte in cui un sinistro sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa ignorata dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione stesso.
Un ingegnere, designato responsabile del servizio di prevenzione e di protezione di una azienda, imputato del delitto di lesioni colpose gravi verificatesi in danno di un operaio dipendente dell’azienda stessa il quale, mentre effettuava, in orario notturno ed in assenza di luce artificiale nonché di cinture di sicurezza, delle operazioni di posizionamento dei ganci di un carrello elevatore all'estremità di un tubo metallico per gasdotto sovrapposto ad altri in quinta fila, perdeva l'equilibrio, precipitando da un'altezza di m 3,15 dal suolo, è stato assolto dal Tribunale in composizione monocratica con la formula "per non aver commesso il fatto".
Successivamente la Corte di Appello, in accoglimento del ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale della stessa città, ha riformata la sentenza assolutoria ritenendo invece l’imputato colpevole in ordine al reato ascrittogli e lo ha condannato, ritenute le concesse attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, alla pena ritenuta di giustizia, con concessione del beneficio di cui all'articolo 163 c.p..
Il RSPP ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza di condanna sostenendo che la Corte territoriale aveva interpretate erroneamente le disposizioni di cui al D. Lgs. n. 626/1994, in quanto egli non era un dipendente dell'impresa, ma un professionista esterno che collaborava con l'imprenditore. Lo stesso riteneva, altresì, di non essersi sostituito al datore di lavoro nell'assolvimento dei suoi obblighi in materia di prevenzione degli infortuni che per legge gli competevano. Il RSPP ha sostenuto, inoltre, che i giudici di secondo grado erroneamente avevano individuata a suo carico una condotta colposa per aver omesso di prevedere il rischio specifico connesso alla attività di movimentazione dei tubi in quanto egli non aveva ricevuta alcuna segnalazione dal coordinatore del cantiere, al quale era stata affidata la diretta sorveglianza sul sito produttivo, ponendo in evidenza, altresì, che il rischio non valutato non aveva riguardato l’attività di pertinenza della ditta che gli aveva dato l’incarico oltre al fatto che lo stesso non era stato portato a sua conoscenza.
Il ricorso presentato dall’imputato è stato rigettato dalla Corte di Cassazione che ha dato ragione alla Corte di Appello condividendo la sua posizione interpretativa sulle norme di sicurezza in base alla quale la mancanza di “poteri di amministrazione attiva in materia di adeguamento dei luoghi di lavoro, e segnatamente di intervento e di spesa” non esclude una responsabilità per colpa in relazione al verificarsi di un infortunio. La stessa Corte di Cassazione, in merito alla figura del RSPP, ha fatto inoltre osservare che, secondo lo schema originario del D. Lgs. n. 626/1994, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è una figura che non si trova in posizione di garanzia, in quanto la responsabilità fa capo al datore di lavoro, tanto è vero che il medesimo decreto non prevede nessuna sanzione penale a carico di tale figura, mentre in base all’articolo 89 del D. Lgs. n. 626/1994 è il datore di lavoro che viene punito per non avere valutato correttamente i rischi
. Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è, in altri termini, una sorta di consulente del datore di lavoro ed i risultati dei suoi studi e delle sue elaborazioni, come pacificamente avviene in qualsiasi altro settore dell'amministrazione dell'azienda, vengono fatti propri dal datore di lavoro che lo ha scelto, con la conseguenza che quest'ultimo delle eventuali negligenze del consulente è chiamato comunque a rispondere.
Senonché, prosegue la suprema Corte, tale schema originario ha subito nel tempo una evoluzione, che ha indotto il legislatore ad introdurre con l’articolo 8 bis del D. Lgs. n. 195/2003 una disposizione che prevede la necessità in capo alla figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione di una qualifica specifica. Pertanto, sostiene la Sez. IV,“la modifica normativa ha comportato in via interpretativa una revisione della suddetta figura, nel senso che il soggetto designato ‘responsabile del servizio di prevenzione e protezione’, pur rimanendo ferma la posizione di garanzia del datore di lavoro, possa, ancorché sia privo di poteri decisionali e di spesa, essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere, nel sistema elaborato dal legislatore, che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione”.
“Con particolare riguardo alle funzioni che il Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 9, riserva al responsabile del servizio di prevenzione e protezione”, prosegue la Sez. IV, “l'assenza di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale non esclude che l'inottemperanza alle stesse - e segnatamente la mancata individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e la mancata elaborazione delle procedure di sicurezza, nonché di informazione e formazione dei lavoratori possa integrare un'omissione "sensibile" tutte le volte in cui un sinistro sia oggettivamente riconducibile a una situazione pericolosa ignorata dal responsabile del servizio”. “Per altro verso”, conclude la suprema Corte, “considerata la particolare conformazione concepita dal legislatore per il sistema antifortunistico, con la individuazione di un soggetto incaricato di monitorare costantemente la sicurezza degli impianti e di interloquire con il datore di lavoro, deve, come si è detto, presumersi che, ove una situazione di rischio venga dal primo segnalata, il secondo assuma le iniziative idonee a neutralizzarla”. • .
Cassazione Sezione IV – Sentenza n. 11216 del 13 marzo 2009 - Pres. Rizzo – Est. Marzano – P.M. Fraticelli - Ric. D. B. A. • CHIUNQUE ASSUMA UNA POSIZIONE DI PREMINENZA RISPETTO AGLI ALTRI LAVORATORI COSI’ DA POTER IMPARTIRE ORDINI O DIRETTIVE SUL LAVORO DA ESEGUIRE DEVE ESSERE CONSIDERATO TENUTO, PER CIO’ STESSO, ALLA APPLICAZIONE ED AL CONTROLLO DELLE MISURE DI SICUREZZA.
Bene si inquadra questa sentenza della Corte di Cassazione nel discorso in atto relativo alla determinazione delle responsabilità del preposto in virtù anche delle disposizioni emanate di recente su tale figura con il D. Lgs. 9/4/2008 n. 81 e sulla individuazione delle responsabilità in materia di salute e sicurezza sul lavoro in una azienda ed in ogni organizzazione di lavoro nonché sulla istituzione di un sistema finalizzato all’attuazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Nel caso in esame il Tribunale prima e la Corte di Appello successivamente avevano condannato per imputazione di cui all'articolo 589 cod. pen. il marito della titolare di una impresa alla quale erano stati affidati dei lavori di rifacimento di una conduttura sotterranea per lo scarico di acque piovane, in quanto durante tali lavori un operaio dell’impresa medesima che si era introdotto all'interno di una trincea lunga circa dieci metri, larga metri uno e trenta, profonda metri tre e sessanta circa realizzata dall’imputato a mezzo di una macchina escavatrice, era rimasto schiacciato dalla intervenuta frana del terreno circostante particolarmente friabile.