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B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano , IV 67.
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B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano, IV 67 «Lo amante […], se tra sé anderà considerando come stretto legame sia il star sempre impedito nel contemplar la bellezza d’un corpo solo, […] cumulando insieme tutte le bellezze farà un concetto universale e ridurrà la moltitudine d’esse alla unità di quella sola che generalmente sopra la umana natura si spande; e così non più la bellezza particolar d’una donna, ma quella universale, che tutti i corpi adorna, contemplerà». [concetto universale = «la forma unica e autentica, assoluta ed eterna, oltre e contro le variabili fenomenologiche diacroniche e diatopiche» (A. Quondam)]
Platone, Simposio, 210E-211C Guidato fino a questo punto sul cammino dell'amore, il nostro uomo, contemplando le cose belle nella loro successione e nel loro esatto ordine, raggiungerà il vertice supremo dell'amore e allora improvvisamente gli apparirà la Bellezza nella sua meravigliosa natura, quella stessa, Socrate, che era il fine di tutti i suoi sforzi: eterna, senza nascita né morte. Essa non si accresce né diminuisce, né è più o meno bella se vista da un lato o dall'altro. Essa è senza tempo, sempre egualmente bella, da qualsiasi punto di vista la si osservi. E tutti comprendono che è bella. […] Essa apparirà all'uomo che è giunto sino a lei nella sua perfetta natura, eternamente identica a se stessa per l'unicità della sua forma. Tutte le cose belle sono belle perché partecipano della sua bellezza, ma esse nascono e muoiono - divenendo quindi più o meno belle - senza che questo abbia alcuna influenza su di lei. Iniziando il proprio cammino dal primo gradino della bellezza sensibile, l'uomo si eleva coltivando il suo fecondo amore […] e così impara a percepire in loro i segni della pura e perfetta bellezza: allora potrà dire di non essere lontano dalla meta. Così, da soli o sotto la guida di un altro, la perfetta via dell'amore ha inizio con la bellezza sensibile ed ha per fine la contemplazione della Bellezza pura: l'uomo deve salire come su una scala, da una sola persona bella a due, poi a tutte, poi dalla bellezza sensibile alle azioni ben fatte e alla scienza, fino alla pura conoscenza del bello, e ancora avanti sino alla contemplazione della Bellezza in sé. Questo, mio caro Socrate - mi disse la straniera di Mantinea -, è il momento più alto nella vita di una persona [che rende la vita degna di essere vissuta]:l'attimo in cui si contempla la Bellezza pura.
Machiavelli, Il principe, cap. 15 Ma sendo l'intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si doverrebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità.
B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano, IV 68 Talor, quando le virtù motive del corpo si trovano dalla assidua contemplazione astratte, o vero dal sonno legate, non essendo da quelle impedita, [l’anima] sente un certo odor nascoso della vera bellezza angelica, e rapita dal splendor di quella luce comincia ad infiammarsi e tanto avidamente la segue, che quasi diviene ebria e fuor di se stessa, per desiderio d'unirsi con quella, parendole aver trovato l'orma di Dio, nella contemplazion del quale, come nel suo beato fine, cerca di riposarsi; e però, ardendo in questa felicissima fiamma, si leva alla sua più nobil parte, che è l'intelletto; e quivi, non più adombrata dalla oscura notte delle cose terrene, vede la bellezza divina; ma non però ancor in tutto la gode perfettamente, perché la contempla solo nel suo particular intelletto, il qual non po esser capace della immensa bellezza universale. Onde, non ben contento di questo beneficio, amore dona all'anima maggior felicità; ché, secondo che dalla bellezza particular d'un corpo la guida alla bellezza universal di tutti i corpi, così in ultimo grado di perfezione dallo intelletto particular la guida allo intelletto universale. Quindi l'anima, accesa nel santissimo foco del vero amor divino, vola ad unirsi con la natura angelica e non solamente in tutto abbandona il senso, ma più non ha bisogno del discorso della ragione; ché, transformata in angelo, intende tutte le cose intelligibili, e senza velo o nube alcuna vede l'amplo mare della pura bellezza divina ed in sé lo riceve, e gode quella suprema felicità che dai sensi è incomprensibile.
Raffaello, Il sogno del cavaliere, London, National Gallery, 1504, olio su tavola
Raffaello, Il sogno del cavaliere, London, NG, 1504, olio su tavola Raffaello, Le tre Grazie, Condilly, MuséeCondé, 1504, olio su tavola
B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, I 38 A me non po caper nella testa che d'una lingua particulare, […] non sia più ragionevole imitar quelli che parlan meglio, che parlare a caso e che, così come nel latino l'omo si dee sforzar di assimigliarsi alla lingua di Virgilio e di Cicerone, più tosto che a quella di Silio o di Cornelio Tacito, così nel vulgar non sia meglio imitar quella del Petrarca e del Boccaccio, che d'alcun altro; ma ben in essa esprimere i suoi proprii concetti ed in questo attendere, come insegna Cicerone, allo instinto suo naturale; e così si troverà che quella differenzia che voi dite essere tra i beni oratori, consiste nei sensi e non nella lingua». Allor il Conte, «Dubito, disse, che noi entraremo in un gran pelago e lassaremo il nostro primo proposito del cortegiano. Pur domando a voi: in che consiste la bontà di questa lingua?» Rispose messer Federico: «Nel servar ben le proprietà di essa e tôrla in quella significazione, usando quello stile e que' numeri che hanno fatto tutti quei che hanno scritto bene». […] «Adunque, disse il Conte, "a voi non par che le parole di Silio e di Cornelio Tacito siano quelle medesime che usa Virgilio e Cicerone, né tolte nella medesima significazione? […] E se d'un libro di Cornelio e d'un di Silio si levassero tutte quelle parole che son poste in altra significazion di quello che fa Virgilio e Cicerone, che seriano pochissime, non direste voi poi che Cornelio nella lingua fosse pare a Cicerone, e Silio a Virgilio? e che ben fosse imitar quella maniera del dire?»
Raffaello, Il sogno del cavaliere, London, NG, 1504, olio su tavola
Lorenzo Lotto,Il bivio tra vizio e virtù, Washington, National Gallery, 1505
Raffaello, Il sogno del cavaliere, London, NG, 1504, olio su tavola
B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, I (lettere e armi) • Cap. 17: «Estimo che la principale e vera profession del cortegiano debba esser quella dell'arme; la qual sopra tutto voglio che egli faccia vivamente e sia conosciuto tra gli altri per ardito e sforzato e fidele a chi serve». • Cap. 42: «Ma, oltre alla bontà, il vero e principal ornamento dell'animo in ciascuno penso io che siano le lettere, benché i Franzesi solamente conoscano la nobilità delle arme e tutto il resto nulla estimino; di modo che non solamente non apprezzano le lettere, ma le aborriscono, e tutti e litteratitengon per vilissimi omini». • Cap. 43: «E s'io parlassi con essi o con altri che fosseno d'opinion contraria alla mia, mi sforzarei mostrar loro quanto le lettere, le quali veramente da Dio son state agli omini concedute per un supremo dono, siano utili e necessarie alla vita e dignità nostra; né mi mancheriano esempi di tanti eccellenti capitani antichi, i quali tutti giunsero l'ornamento delle lettere alla virtù dell'arme. Ché, come sapete, Alessandro ebbe in tanta venerazione Omero, che la Iliade sempre si teneva a capo del letto; e non solamente a questi studi, ma alle speculazioni filosofiche diede grandissima opera sotto la disciplina d'Aristotele. […] Ma questo dire a voi è superfluo, ché ben so io che tutti conoscete quanto s'ingannano i Francesi pensando che le lettre nuocciano all'arme».
B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, I (lettere e armi) • Cap. 43: «Non vorrei già che qualche avversario mi adducesse gli effetti contrari per rifiutar la mia opinione, allegandomi gli Italiani col lor saper lettere aver mostrato poco valor nell'arme da un tempo in qua, il che pur troppo è più che vero; ma certo ben si poria dir la colpa d'alcuni pochi aver dato, oltre al grave danno, perpetuo biasmo a tutti gli altri, e la vera causa delle nostre ruine e della virtù prostrata, se non morta, negli animi nostri, esser da quelli proceduta». • Cap. 44: «Ed oltre a ciò, farannolo questi studi copioso e, come rispose Aristippo a quel tiranno, ardito in parlar sicuramente con ognuno. Voglio ben però che 'l nostro cortegiano fisso si tenga nell'animo un precetto: cioè che in questo ed in ogni altra cosa sia sempre avvertito e timido più presto che audace, e guardi di non persuadersi falsamente di saper quello che non sa». • Cap. 46: «Io biasmo i Franzesi che estiman le lettre nuocere alla profession dell'arme e tengo che a niun più si convenga l'esser litterato che ad un om di guerra; e queste due condizioni concatenate e l'una dall'altra aiutate, il che è convenientissimo, voglio che siano nel nostro cortegiano; […] i litterati quasi mai non pigliano a laudare se non omini grandi e fatti gloriosi, i quali da sé meritano laude per la propria essenzialvirtute donde nascono».
Raffaello, Il sogno del cavaliere, London, NG, 1504, olio su tavola
Raffaello, Il sogno del cavaliere, disegno preparatorio, London, BritishMuseum