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Globalizzazione, neoliberismo e disparità di sviluppo. Globalizzazione (1) Il termine globalizzazione è utilizzato in modo molto generico per indicare l’elevata interdipendenza che attualmente esiste tra le diverse economie nazionali.
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Globalizzazione (1) Il termine globalizzazione è utilizzato in modo molto generico per indicare l’elevata interdipendenza che attualmente esiste tra le diverse economie nazionali. In parte la globalizzazione ha a che fare con la crescita del volume delle transazioni internazionali, ma è sbagliato ridurre il fenomeno alla crescita degli scambi. Come notato da molti studiosi, la quota relativa del valore degli scambi commerciali internazionali sul prodotto interno dei diversi paesi attualmente non è particolarmente elevata rispetto al passato. Il commercio internazionale negli anni novanta non è stato molto più grande, come quota del prodotto mondiale, rispetto al secolo precedente. Ad esempio negli USA nel 1993 la spesa per importazioni è stata pari all’11 per cento del reddito lordo interno, contro un valore dell’8% nel 1890 (Krugman, 1997, pag. 157).
Globalizzazione (2) Le economie nazionali sono interdipendenti non in virtù dei flussi di commercio internazionale, ma soprattutto in virtù delle strategie delle grandi imprese multinazionali. Agli inizi degli anni ottanta le dinamiche competitive interne a molti settori produttivi portarono ad una elevata concentrazione ed al conseguente bisogno delle imprese di espandere il proprio mercato di riferimento. La ricerca di nuovi mercati da colonizzare, il perseguimento di strategie di vantaggio di costo ottenuto con la delocalizzazione degli impianti in paesi a minor costo della manodopera e con ridotti standard ambientali, il processo di finanziarizzazione teso a sfruttare le opportunità di rendita offerte dalla riconfigurazione dei mercati finanziari su scala internazionale, hanno portato le grandi imprese ad operare, sia in termini di attività di vendita che di investimento e finanziamento, in qualsiasi parte del mondo offrisse loro le migliori opportunità.
Globalizzazione (3) Mano a mano che il raggio di azione delle grandi imprese transnazionali si è diffuso oltre il paese di origine, queste hanno chiesto (e ottenuto) alle istituzioni nazionali e sopranazionali garanzie via via maggiori sulla propria libertà di azione. Il rischio di impresa aumenta con l’aumentare delle turbolenze e dell’instabilità del quadro di riferimento istituzionale e pertanto le grandi imprese da sempre si sono assicurate posizioni eccellenti come lobby e gruppi di pressione capaci di influire sulle scelte di politica economica e sociale dei governi. In un contesto “globale” le grandi imprese hanno sostenuto e “guidato” lo sviluppo di organismi internazionali capaci di stabilizzare il quadro di riferimento istituzionale ed orientarne le regole a favore delle attività dei grandi capitali.
Globalizzazione (4) In definitiva, aumento degli scambi commerciali, raggio di azione sopranazionale delle grandi imprese, cessione ad una organizzazione sopranazionale della politica commerciale da parte dei singoli stati nazionali, sono i principali elementi che denotano il fenomeno della globalizzazione. A tali tre elementi ne va tuttavia aggiunto un quarto, quello della standardizzazione dei modelli di consumo (e insieme ad essi dei modelli culturali e di organizzazione sociale) indotto dalle strategie produttive e di marketing delle grandi imprese transnazionali. In parte il WTO è il frutto di tali dinamiche e la sua istituzione ha segnato effettivamente il passaggio ad una economia globale largamente intesa, vale a dire dove la dimensione globale (e sopranazionale) domina formalmente e di diritto su quella locale (e nazionale
IWTO (World Trade Organization) o OCM (Organizzazione del Commercio Mondiale) Nasce nel 1994 con il trattato di Marrakech che costituisce insieme il documento della nascita ufficiale del WTO e l’atto finale dell’Uruguay Round, l’ultima serie di negoziati (iniziata nel 1986) del Gatt. Il Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade, o accordo generale sulle tariffe doganali ed il commercio) fu istituito nel 1948 ed ha costituito un tavolo di contrattazione multilaterale permanente per la riduzione progressiva dei diritti doganali sui prodotti di manifattura. In 45 anni i paesi membri ed i loro esperti, riunitisi in occasione di round o cicli successivi di negoziati (Kennedy, Tokyo, Uruguay, ecc.) sono riusciti ad abbassare le tariffe doganali del 40-50%, fino ad una soglia del 4-5%. John Maynard Keynes, l’artefice della Banca mondiale e del FMI, aveva preparato prima della sua morte (1946) il terreno per un’organizzazione internazionale del commercio (ITO). Gli statuti dell’ITO furono effettivamente negoziati e la Carta dell’Avana, che li promulgava, fu firmata da 56 paesi in occasione di una conferenza internazionale tenutasi a Cuba nel 1947/48. Gli Stati Uniti tuttavia rifiutarono di ratificarla. Ciò che sopravvisse fu solo il capitolo IV di questa carta, che è il noto GATT (General Agreement on Tariffs and Trade , o accordo generale sulle tariffe doganali ed il commercio).
WTO (2) Il trattato di Marrakech nelle sue oltre seicento pagine definisce statuto e funzionamento della nuova organizzazione per il commercio mondiale e pone in una sola volta, e con rare eccezioni, tutti i campi dell’attività umana sotto il condizionamento immediato o programmato della nuova organizzazione. Il WTO segna un passaggio epocale nelle politiche di commercio internazionale, e nella politica internazionale in generale, grazie a due elementi: le norme definite dal WTO sono coercitive per una particolare materia rispetto alle norme nazionali (e il WTO definisce sanzioni e procedure di applicazione delle stesse in caso di defezione); rispetto al GATT, che si occupava delle attività manifatturiere, il WTO estende il suo campo di azione a pressappoco tutte le attività umane. Questi due elementi fanno del WTO una istituzione sopranazionale con ampi diritti di regolamentazione delle economie nazionali.
WTO (3) • Le attività del WTO, che attualmente conta circa 153 paesi membri, sono state inaugurate il primo gennaio 1995 negli ex uffici del GATT a Ginevra. • Gli organi istituzionali del WTO comprendono: • Una Segreteria composta da 533 persone, che svolge funzioni di carattere tecnico. • Un Direttore Generale, in carica per tre anni. • Una Conferenza Ministeriale, composta dai rappresentanti di tutti i paesi membri, che si riunisce almeno ogni due anni (la Conferenza definisce l’ordine del giorno dei negoziati e può istituire gruppi di lavoro permanenti su particolari temi). • Un Consiglio Generale, composto da rappresentanti permanenti (ambasciatori) dei paesi membri a Ginevra, che ha la facoltà di creare comitati e gruppi di lavoro permanenti.
WTO (5) Il potere decisionale spetta alla Conferenza Ministeriale. Questa tuttavia non fa che ratificare le proposte redatte dal Consiglio Generale. Poiché la partecipazione alle attività del Consiglio Generale da parte dei paesi più poveri è fortemente limitata dagli alti costi di mantenimento degli ambasciatori permanenti a Ginevra, tali paesi usufruiscono limitatamente di quella partecipazione democratica alle trattative prevista sulla carta Almeno 36 paesi non hanno ambasciatori permanenti al WTO. Fra i fattori che penalizzano la piena partecipazione al tavolo delle trattative da parte dei paesi più poveri va citato inoltre lo svantaggio proveniente dall’uso di lingue ufficiali che non sono quelle di origine. Benché il WTO riconosca tre lingue ufficiali (inglese, spagnolo e francese), la lingua che predomina è l’inglese.
WTO (6) Current members of the WTO (in green)
WTO (8) • Principi del WTO • Nessuna eccezione (ogni decisione si applica indistintamente ad ogni paese ed in ogni situazione). • Liberalizzazione progressiva e crescente (fino ai servizi anche di base come sanità e istruzione). • Trasparenza (i membri sono tenuti ad informare tempestivamente il WTO di qualsiasi disposizione interna che possa ripercuotersi sul commercio internazionale; tale principio si traduce di fatto in una forte limitazione della sovranità nazionale). • Principio della nazione più favorita e definizione dei prodotti similari (ogni paese deve trattare allo stesso modo i “prodotti similari” esportati da un altro paese membro, vale a dire che non può essere favorito un particolare paese fornitore- sono esclusi solo i prodotti di detenuti-). • Trattamento nazionale non discriminante (ai fornitori interni deve essere riservato un trattamento pari a quello per i fornitori esterni; tale principio si traduce in una limitazione delle scelte di politiche specifiche). • Diritti antidumping (i paesi minacciati da politiche di dumping possono applicare tasse compensatrici -diritti antidumping- alla frontiera). • Eliminazione delle quote (applicato anche al paese esportatore).
Neoliberismo (1) L’idea che le libertà individuali siano garantite dalla libertà di mercato e di scambio rappresenta un aspetto fondamentale del pensiero neoliberista, il fulcro dell’ideologia con cui gli USA guardano al resto del mondo. Il primo esperimento di uno stato neoliberista si verificò in Cile dopo il golpe di Pinochet, l’11 settembre 1973 contro il governo democraticamente eletto di Salvador Allende. Privatizzazioni, sfruttamento senza regole delle risorse naturali, libertà di investimento da parte di società straniere con il diritto di rimpatriare gli utili, crescita basata sulle esportazioni, privatizzazione dei servizi pubblici, riduzione della spesa pubblica.
Neoliberismo (2) • Negli anni ottanta si ha la svolta neoliberista in UK e USA. • Le parole d’ordine sono: • Privatizzazioni • Riduzione della spesa pubblica • Deregolamentazione dei mercati • Liberalizzazione del commercio
Neoliberismo (3) Dopo la seconda guerra mondiale si diffuse l’opinione che per garantire la pace bisognasse raggiungere una qualche forma di compromesso di classe tra capitale e lavoro (Dhal, Lindblom, 1953). Si consolidò l’idea, che fu alla base anche delle istituzioni internazionali che nacquero con gli accordi di Bretton Woods (1944), che l’unica soluzione possibile per ottenere tale obiettivo fosse una commistione di stato, mercato e istituzioni democratiche che assicurasse la pace, l’allargamento della partecipazione, il benessere e la stabilità. La maggioranza dei governi che governarono nei paesi capitalistici dopo la seconda guerra mondiale, fossero essi socialdemocratici, cristiano-democratici, democratici-liberali o che altro accettarono l’idea di quello che oggi viene definito come embedded liberalism, in base al quale lo stato doveva operare liberamente al fianco del mercato per cercare di conseguire gli obiettivi prioritari dell’azione pubblica: piena occupazione, benessere, sicurezza e pace sociale. Politiche di redistribuzione, welfare state, controlli sulle libertà di movimento dei capitali, nazionalizzazione di settori chiave strategici per lo sviluppo e la coesione sociale, furono tratti salienti dell’embedded liberalism che garantì crescita e pace per oltre un trentennio nei paesi a capitalismo avanzato (altrove come in Africa non si instaurò mai una tale forma di governo e la povertà non fu mai “curata”).
Neoliberismo (4) Negli anni settanta la crisi dell’accumulazione di capitale e la stagflazione richiesero un rinnovamento dell’azione dei governi in economia. Una soluzione era quella di estendere il controllo dello stato e la regolamentazione dell’economia, anche con misure di austerità e politiche dei redditi re-distribuissero reddito ai profitti. L’altra soluzione, quella che di fatto fu scelta era quella di dare maggiore potere e “libertà” alle imprese e al capitale privato. La volta neoliberista va letta come la vittoria della battaglia delle classi dominanti per il recupero del potere economico che ad esse era stato sottratto durante il periodo dell’embedded liberalism. Negli USA ad esempio la percentuale del reddito nazionale percepita dall’ì1 per cento che si trovava in testa alla scala delle entrate era precipitata dal 16% dell’anteguerra all’8% nei trenta anni successivi alla seconda guerra mondiale.
Neoliberismo (5) L’attuazione delle politiche neoliberiste degli anni ottanta e novanta ha consentito un rapido recupero del potere economico della classe dominante. Lo 0,1% della popolazione statunitense che percepisce i redditi più alti ha visto crescere la propria fetta del reddito nazionale dal 2% del 1978 a oltre il 6% del 1999, mentre il rapporto tra i salari medi dei lavoratori e gli stipendi dei massimi dirigenti d’azienda è passato da 30 a 1 del 1970 al quasi 500 a 1 del 2000. La crescita delle disuguaglianze è stato il principale effetto del neoliberismo. Le disuguaglianze sono cresciute sia tra strati della popolazione all’interno dei singoli stati che tra paesi poveri e paesi ricchi. Il divario dei redditi tra il quinto della popolazione mondiale che vive nei paesi più ricchi e il quinto che vive in quelli più poveri era di 74 a 1 nel 97, 60 a 1 nel 90, 30 a 1 nel 1960.
Neoliberismo (6) È possibile interpretare la neoliberalizzazione come un progetto utopico finalizzato a una riorganizzazione del capitalismo internazionale, oppure come un progetto politico per ristabilire le condizioni necessarie all’accumulazione del capitale e ripristinare il potere delle èlite economiche. Harvey (2005) storico e critico del neoliberismo sostiene la seconda interpretazione. La tesi di Harvey può essere sostenuta in base a molti argomenti, ma uno è particolarmente evidente: quando i principi neoliberisti si scontrano con la necessità di ripristinar o sostenere le elites dominanti, vengono abbandonati e distorti. L’intervento dei governi nella recente crisi finanziaria è un valido esempio di ciò.
Neoliberismo (7) Un tratto importante dell’ideologia neoliberista che segna il passaggio da in liberalismo “di sinistra” ad uno di “destra” è proprio il valore e il significato dato all’ingiustizia sociale. Uno degli obiettivi dei governi del precedente liberalismo era la giustizia sociale, dove il concetto di giustizia non poteva essere scisso da quello di equità (è l’idea di Rawls, giustizia come equità) e di uguaglianza (l’uguaglianza sociale è una delle maggiori richieste del movimento del ’68). Con il neoliberismo si consolida una idea di giustizia come libertà, dove l’equità e l’uguaglianza non solo non sono obiettivi in sé, ma addirittura sarebbero tratti negativi dell’organizzazione sociale, in quanto minerebbero quei principi di competizione, ricerca dell’eccellenza, meritocrazia che sarebbero alla base del comportamento individuale “virtuoso” che porta al benessere della società.
Neoliberismo (8) Gli economisti al servizio del neoliberismo. L’ideologia del neoliberismo ha trovato la sua principale fonte di consenso attraverso la diffusione di quei risultati della “scienza economica” che ci dicono che il mercato (e quindi il controllo da parte del capitale privato di tutte le risorse e le attività produttive) è quella forma di organizzazione economica che massimizzerebbe il benessere sociale. La liberalizzazione del commercio mondiale, che ha contribuito alla globalizzazione, in particolare non può che portare benefici. In realtà gli economisti sanno benissimo che queste affermazioni sono vere solo sotto alcune ipotesi molto stringenti e sanno anche che anche se si riesce ad avare la massimizzazione del benessere complessivo questa non garantisce alcuna equità nella distribuzione della ricchezza (che dipende da come sono distribuiti i diritti di proprietà originari). Qualsiasi intervento redistributivo deve partire da una azione “politica” da parte dei governi.
Neoliberimo (10) Ma gli economisti sanno anche che dal punto di vista storico ed empirico i mercati lasciati operare liberamente portano ad un progressiva concentrazione della ricchezza e quindi all’aumento delle disuguaglianze. In particolare il principio dell’agglomerazione, che è stato studiato fin dal diciannovesimo secolo dalla geografia economica e dalla teoria del commercio internazionale, così come la regola 80/20 identificata già da Pareto, sono le manifestazioni più evidenti delle disuguaglianze prodotte dal “libero” mercato”. Nel 1897 Pareto, studiando la distribuzione dei redditi, dimostrò che in una data regione solo pochi individui (il 20%) possedevano la maggior parte (l’80%) della ricchezza.
Neoliberismo (11) Negli ultimi cinquanta anni la liberalizzazione degli scambi e lo sviluppo del commercio internazionale sono andati di pari passo con una accelerazione dell’uso delle risorse non rinnovabili e del degrado ambientale. Dal 1960 ad oggi l’economia globale è quadruplicata, mentre il commercio internazionale è cresciuto 12 volte. Nello stesso periodo sono aumentate le disparità nella distribuzione della ricchezza. Attualmente l’un per cento della popolazione mondiale dispone di una ricchezza pari a quella disponibile per la fetta più povera, pari al 57% della popolazione mondiale. Il reddito medio a livello mondiale è pari a 5100 dollari annui, ma 2,8 miliardi di persone (pari ai due quinti della popolazione mondiale) vivono con meno di due dollari al giorno. Negli ultimi cinquanta anni le emissioni di biossido di carbonio sono quadruplicate, spingendo i cambiamenti climatici verso un vicino punto di catastrofe (tippingpoint). Le risorse idriche sono state abusate e distrutte e tal punto che si stima che nei prossimi venti anni tre miliardi e mezzo di persone soffriranno per carenze idriche. Attualmente ogni giorno 6000 persone muoiono per carenza di servizi igienici connessi alla scarsità di acqua. Il tasso di estinzione delle specie viventi è di mille volte superiore a quello “naturale” stimato.
Neoliberismo (12) Per spiegare tali principi gli economisti hanno dovuto necessariamente considerare il fatto che le ipotesi sono irrealistiche e che i sistemi economici reali siano molto più complessi di quelli teorici. Myrdal che negli anno 30 e 40 studiava i fenomeni di agglomerazione li spiegò con il principio della cumulative causation, affermando esplicitamente che l’organizzazione economica è solo un aspetto dell’organizzazione sociale e che pertanto lo studio del’economia non può prescindere da quello della società (è in ciò un antesignano dalla nuova sociologia economica nata negli anni ottanta dopo il famoso lavoro di Granovetter). Gli studiosi della nuova geografia economica, tra i quali il premio nobel Krugman hanno invece tentato di spiegare l’agglomerazione senza rinunciare ai modelli di equilibrio generale dell’apparato teorico neoclassico e di fatto ne hanno dato interpretazioni parziali (Helpman ha riconosciuto maggiormente l’importanza della politica e della sociologia, ma non ha rinunciato molto all’astrazione e alla semplificazione). Questi ultimi economisti sono arrivati ad una visione quasi schizofrenica del mondo nel quale vivono, appellandosi a politiche “stataliste” di welfare per la giustizia sociale (si veda uno degli ultimi bestseller di Krugman), nello stesso tempo in cui a livello teorico-accademico difendevano di fatto le tesi dell’ideologia neo-liberista.
La nuova divisione internazionale del lavoro (vale a dire il grado di specializzazione economica unitamente alla localizzazione delle attività economiche) si fonda su tre elementi: • l’organizzazione produttiva delle commodity chains • la finanziarizzazione dell’economia. • Tali elementi sono visti dagli economisti (neo)liberisti come un risultato (tutto sommato positivo) del processo di razionalizzazione conseguente alla liberalizzazione del commercio mondiale che avrebbe portato ad un migliore sfruttamento dei cosiddetti vantaggi comparati e quindi ad un aumento complessivo del benessere per la popolazione mondiale. Ovviamente i “sottoprodotti” di tale processo, tra cui l’accresciuta diseguaglianza o non sono presi nella dovuta considerazione (d’altronde il principio di agglomerazione no trova spiegazione nei modelli formali più astratti) o sono visti come problemi di cui la “politica” (senza analizzare come la ricetta neoliberista abbia di fatto ridotto al lumicino gli spazi per gli interventi correttivi) e la società possono e devono in qualche modo farsi carico (c’è chi come Bagwathi si appella la buon Dio ed alla “coscienza” e al senso del bene dei coraggiosi capitani di industria)
Neoliberismo, globalizzazzione e Finanziarizzazione dell’economia “La mia preoccupazione non è di natura tecnica, non riguarda l’efficienza del sistema, ma sociale e politica, circa le possibili conseguenze per la gente comune a cui non è stato chiesto se fosse disposta a giocarsi il lavoro, i risparmi e il reddito nel grande casinò del capitalismo globale. Il fatto che qualcuno, per pura fortuna, ci abbia guadagnato qualcosa, non allevia in alcun modo le sofferenze e lo sconcerto di coloro che hanno subito perdite immeritate.” (Susan Strange, 1998, p. 6)
Globalizzazione finaziarizzazione dell’economia e nuova divisione internazionale del lavoro • La globalizzazione ha portato ad un nuovo assetto economico-istituzionale globale i cui tratti essenziali sono: • 1. • Una nuova divisione internazionale del lavorobasata su: • la dispersione spaziale delle attività produttive di tipo manifatturiero, attraverso le commodity chains, vale a dire le reti internazionali che collegano le attività di produzione-lavoro e consumo-distribuzione; • la centralizzazione delle attività di direzione e controllo, con la nascita delle città globali (Sassen, 1991) dove si trovano le centraline del potere finanziario e manageriale, vale a dire i centri direzionali delle grandi corporations ed il settore dei servizi finanziari.
2. Una riconfigurazione dei poteri statuari nazionali, con la subordinazione degli ordinamenti costituzionali agli imperativi delle istituzioni globalizzate, dettati a loro volta dagli interessi “privati” della nuova classe capitalistica transnazionale. In tale ambito è relativamente sbagliato parlare di affievolimento del controllo degli stati nazione, perché più che altro si ha un cambiamento degli attori e delle istanze rispetto a cui tale controllo viene esercitato
La cosiddetta finanziarizzazione dell’economia globale è uno degli aspetti della nuova divisione internazionale del lavoro. Con questo termine ci si riferisce al peso crescente delle transazioni finanziarie sul totale delle transazioni economiche. “Tra il 1985 1 il 1995, periodo di lancio di una nuova fase globale, l’ammontare totale dei patrimoni finanziari è cresciuto a velocità tripla rispetto al PIL aggregato dei 23 più sviluppati paesi dell’OCSE, e il volume degli scambi in valuta, titoli obbligazionari e azioni ordinarie, è cresciuto ad una velocità di circa cinque volte superiore. Questo PIl aggregato ammontava a 30000 miliardi di dollari alla fine degli anni novanta, mentre il valore mondiale dei derivati commerciali sul piano internazionale ammontava a circa 65000 miliardi, valore che sale nel 2004 a 290000 miliardi”. (Sassen, 2008, p. 89).
E’ bene ricordare le cinque principali conclusioni circa l’effetto dalla finanziarizzazione cui Strange arrivava nell’ultimo capitolo del suo libro del 1998 intitolato “quale futuro ci attende?”(pp. 267-72): • “La finanza dirige l’orchestra” , vale a dire che tutti i settori dell’economia reale devono piegarsi ai dettami dei mercati finanziari. • I governi nazionali esercitano sempre meno controllo sulle proprie economie e sulle proprie società. La perdita di controllo è particolarmente forte rispetto al controllo della tassazione quale strumento di politica fiscale e al controllo del crimine organizzato.
La finanziarizzazione accelera i processi di concentrazione delle imprese e offre alla grande impresa nuove leve di vantaggio competitivo rispetto alle piccole e medie imprese. • La finanziarizzazione contiene in sé una contaminazione morale. • Un effetto è la crescente sperequazione nella distribuzione del reddito e il crescente ineguale accesso delle piccole e grandi imprese al credito