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Etica dello sviluppo a.a. 2012/2013. Ecologia dello sviluppo per uno sviluppo turistico sostenibile*. * Breve delucidazione del titolo.
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Etica dello sviluppoa.a. 2012/2013 Ecologia dello sviluppo per uno sviluppo turistico sostenibile*
*Breve delucidazione del titolo Con le slides che seguono si intende “aprire” l’idea dominante di sviluppo, di matrice prevalentemente economica, ad una dimensione ecologica1 ovvero ad una contestualizzazione ambientale che consenta di armonizzarla sia con la concezione “scientifica”, biologico-naturalistica dello sviluppo che con quella “filosofica”, etico-antropologica.
1Ecologia 1 L'ecologia (dal greco: οίκος, oikos, "casa" o anche "ambiente"; e λόγος, logos, "discorso" o “studio”) è la disciplina che studia l'ecosfera, ossia la porzione della Terra in cui è presente la vita in aggregati sistemici detti "ecosistemi", le cui caratteristiche sono determinate dall'interazione degli organismi tra loro e con l’ambiente circostante o porzioni dell'ecosfera stessa. Urie Bronfenbrenner ha elaborato una teoria ecologica dello sviluppo umano nel volume: Ecologia dello sviluppo umano, tr. it. per il Mulino“, Bologna 2002
I N D I C E . MODULO I Lo sviluppo tra filosofia ed economia - Appendice I : Sviluppo ed economia . MODULO II L’allarme-sviluppo nella filosofia del XX sec. (F. Nietzsche, E. Husserl, M. Weber) . MODULO III Ripresa del fattore antropologico dello sviluppo (M. Scheler, R. Spaemann, M. Tomasello, A.-T. Tymieniecka) . MODULO IV Conclusioni
MODULO I Lo sviluppo tra filosofia ed economia
Ristrettezza storico-disciplinare della nozione di sviluppo corrente C o m e la parola “sviluppo” compare solo nelle lingue moderne (développement, Entwicklung, development,desarrollo) al pari delle parole “lavoro” e “formazione”, relative ai principali fattori di sviluppo, c o s ì il tema dello “sviluppo” è oggi considerato di appannaggio prevalente dell’economia, che non di rado tenta anche di requisirlo nel proprio ambito disciplinare.
Origine moderna dell’idea di sviluppo Va riconosciuto, d’altro canto, che l’idea di sviluppo, come oggi noi la utilizziamo, affonda le sue radici proprio nella riflessione economica, a partire dalla quale tale idea divenne socio-politicamente rilevante, nel XVIII sec., quando si cominciò a pensare all’arricchimento delle nazioni in termini di dinamiche lavorative e di scambio, attuabili in vista di una «crescita» (growth), di un «perfezionamento» (improvement), di un «progresso» (progress). Ovvero: quando si cominciò a pensare che sullo sviluppo “naturale”, l’azione dell’uomo poteva produrre incremento e potenziamento “artificiali” (=dovuti all’azione dell’uomo o alla sua abilità/arte)
Archeologia dell’idea di sviluppo (1) Dal campo dell’economia, rientrava così nella cultura dell’Occidente, ancora tutta improntata al meccanicismo* della fisica dei grandi corpi celesti, appena costituitasi come sapere-guida (cfr.: H. Jonas), l’idea antica che nella natura si attuano mutamenti qualitativi e processuali di tipo organico, in cui cioè una certa identità iniziale di forma o di struttura formale mantiene legati, in una trasformazione, il punto di partenza con quello di arrivo, come è esemplificato dalla sequenza naturale attraverso la quale dal seme si passa al fiore e poi al frutto (cfr.: G. F. W. Hegel). * Cercare su Wikipedia!
Archeologia dell’idea di sviluppo (2) L’idea naturalistica di sviluppo era già stata aristotelica, come sottolinea W. Windelband, che intitola: «Sistema dello sviluppo», il capitolo della sua Storia della filosofia dedicato ad Aristotele. In Metaph., IX, 8, Aristotele aveva dato una rappresentazione finalistico-genetica del movimento naturale, sintetizzabile nella dottrina della superiorità dell’atto sulla potenza. Tale dottrina comportava che ogni movimento di genesi naturale andasse inteso come di “attuazione” della natura propria dell’ente in generazione, iscritta come finalità da perseguire fin dallo stato iniziale della genesi: la finalità presente nello stato iniziale dettava dunque i limiti dello sviluppo attuativo, di questo determinando il termine finale, inoltrepassabile.
Archeologia dell’idea di sviluppo (3) E’ nel XVIII sec. che, complici la crisi della metafisica e il diffondersi della sensibilità naturalistico-evoluzionistica, si assiste a una curiosa integrazione della rappresentazione antica dello sviluppo come genesi, che a quest’ultima fissava come fine/termine la corrispondente forma d’atto predeterminata nel suo stato germinale originario. Ora, infatti, sullo sviluppo naturale, metafisicamente codificato da Aristotele in chiave di “determinismo” finalistico-genetico, si applica, a potenziarlo illimitatamente e ad orientarlo in senso antropologicamente positivo, l’attività “morale” dell’uomo.
L’economia politica al posto della metafisica Già in J. Bodin e negli economisti del mercantilismo* si può trovare all’opera la convinzione giusnaturalista,* che solo nel XVIII sec. verrà esplicitamente estesa all’economia dai Fisiocratici,* raccolti intorno al Quesnay,* secondo la quale nei fenomeni economici viene in luce un “ordine naturale” non deterministico, ma anzi affidato nel suo compimento all’umana iniziativa: esso può infatti essere conosciuto e perseguito con efficacia, istituendo appropriate regole per il comportamento delle società umane e instaurandovi un adeguato ordre positif.** **P. P. Mercier De La Riviere, L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques, P. Genthner, Paris 1910, p. 355. * Cercare su Wikipedia!
L’economia politica al posto della metafisica (2) Si può perciò elaborare, secondo Dupont De Nemours* una “scienza dell’ordine naturale” come quella illustrata dal Tableau Economique di Quesnay (1758) o recepita dalle Refléxions sur la formation et la distribution des richesses di Turgot (1776) .* Se è vero, infatti, che gli uomini non possono penetrare nei disegni dell’Essere Supremo né comprendere per quali fini Egli ha istituito le regole immutabili che presiedono alla formazione e conservazione della sua opera (cfr. crisi volontaristica della verità metafisica del XIV sec.), è nondimeno verificabile che: * Cercare su Wikipedia!
L’economia politica al posto della metafisica (3) “se esaminiamo queste regole con attenzione si nota almeno che le cause fisiche degli svantaggi fisici sono esse stesse le cause dei vantaggi fisici, che la pioggia che disturba il viaggiatore, rende fertile le terre; e se si procede ad un calcolo, liberi da ogni prevenzione, si vedrà che queste cause producono infinitamente più bene che male, e che esse sono istituite per il bene; che il male che esse causano incidentalmente risulta necessariamente dall’essenza stessa delle proprietà mediante le quali operano il bene […] Il bene fisico e il male fisico, il bene morale e il male morale hanno dunque evidentemente la loro origine nelle leggi naturali […] L’uomo dotato di intelligenza ha la prerogativa di poterle contemplare e conoscere per trarne il più grande vantaggio possibile, senza essere refrattario a queste leggi e a queste regole sovrane”. (F. Quesnay, Le droit naturel, in: François Quesnais et la physiocratie, INED, Paris 1958, p. 729 e ss.).
L’economia politica al posto della metafisica (4) Dunque, pur rimanendo nell’ignoranza dei fini ultimi verso i quali la divina sapienza orienta il corso cosmico e storico, gli uominipossonoelaborare ed esprimere una logica di ottimalità da imprimere alla vita, una volta che i comportamenti rivolti a procurarsi i beni per la sussistenza si sviluppano in conformità alle leggi naturali e morali volute da Dio e a partire da esse. E’ chiaro che la concezione naturalistico-finalistica dello sviluppo, in chiave metafisica, è considerata ormai vetusta e obsoleta, oltre che superata in quanto inadeguata a rispondere alle nuove esigenze socio-politiche di arricchimento delle nazioni, appena emerse.
L’economia politica al posto della metafisica (5) Tuttavia, si ritiene inutile e superfluo applicarsi a re-impostare il quadro metafisico o di senso, a fronte dei successi pratici di sviluppo che si conseguono, semplicemente promuovendo la cultura e l’azione economica. Nella vita – sembrano ragionare gli uomini del XVIII sec. - bisogna operare come nel caso di un terreno incolto: esso è di per sé privo di valore, ed è quindi inutile ogni indagine “metafisica” a suo riguardo; opportunamente trattato consente però al proprietario terriero di guadagnare un utile netto, formarsi un capitale e produrre investimenti finanziari, trainanti per l’intera comunità produttiva, che non a caso per i Fisiocratici si regge sulla classe dei proprietari terrieri.
L’economia politica al posto della metafisica (6) E’ su tale logica pratica di coltivazione/lavoro per lo sviluppo del valore, che deve perciò costituirsi la nuova e vera scienza umana,l’economia politica, che ambisce a rimpiazzare la metafisica tradizionale. Essa, infatti, utilizzando le “leggi del valore”* o costanti esibite dall’agire economico e lavorativo, in modo autonomo rispetto ad ogni sapere metafisico, consente di avviare l’instaurazione di un ordine sociale da cui gli individui possano ragionevolmente attendersi di conseguire il massimo grado di benessere, compatibile con le risorse sempre limitate di cui dispongono. * Cfr.: W Letwin, The origins of scientific economics. English economic thought 1660-1776, Methuen, London 1963, pp. 171-181.
L’economia politica al posto della metafisica (7) Ciò che venne del tutto sottostimato in tale apertura di entusiasmanti scenari di trasformazione, dai quali gli uomini concreti potevano ragionevolmente attendersi effettivi e generalizzati miglioramenti della vita, è il fatto che, alla loro origine, c’era comunque un nuovo modo di essere che si faceva strada nell’essere, guadagnando un primo piano che fino ad allora non aveva mai avuto. La nuova scienza economico-politica e la conseguente promozione dello sviluppo in termini di delineazione delle vie di incremento della ricchezza delle nazioni, che essa comportava, presupponeva, infatti, l’avvenimento di una vera e propria innovazione metafisica.
L’economia politica al posto della metafisica (8) Degli effetti positivi del nuovo corso spirituale si ebbe ampia consapevolezza nel XVIII sec. e di essi si volle godere pienamente. Sul principio che vi avrebbe sovrainteso, invece, si preferì non indagare, forse per evitare di sottrarre energie alla pratica stessa dello sviluppo, così brillantemente avviatasi, una volta abbandonata la priorità metafisica. Solo molto più tardi, nel XX sec., e per causa di forza maggiore, con l’affermarsi del pensiero della crisi e poi di quello post-metafisico, anche la novità metafisicaall’origine dell’economicismo moderno comincerà ad essere posta a tema.
L’economia politica al posto della metafisica (9) Proprio un atteggiamento tutto teso alla pratica dello sviluppo e ultimamente incurante di ciò che tale pratica ha “improvvisamente” reso agibile, sembra segnalare il ricorso da parte di Adam Smith alla metafora della “mano invisibile”. In tale metafora si esprime una sorta di “newtonianesimo* morale”** che, semplicemente dichiarando conforme alla natura, ovvero razionale e morale, l’esigenza di conseguire l’utilità economica, conferiva legittimità alle imprese e alle riflessioni più ardite volte a moltiplicare e diffondere la ricchezza. ** U. Meoli, Lineamenti di storia delle idee economiche, UTET, Torino 1991, p. 162. * Cercare su Wikipedia!
L’economia politica al posto della metafisica (10) Si prospetta così, in Adam Smith, una situazione paradossale: da un lato, egli attribuisce la formazione e l’incremento della ricchezza delle nazioni al fattore umano, in particolare al lavoro e all’avvento della sua configurazione industriale di divisione, più produttiva ma anche più disumanizzante; dall’altro, egli confida per il successo ultimo dello sviluppo, così indotto, nell’opera armonizzatrice di una “mano invisibile” e ignota, che fa provvidenzialmente volgere a vantaggio di tutti quanto è mera espressione dell’interesse individuale.
L’economia politica al posto della metafisica (11) Fin dall’origine smithiana emerge, dunque, nella concezione moderna dello sviluppo, una frizione irrisolta tra il fattore umano, industrioso e creativo ma ultimamente inadeguato a padroneggiare l’essere, e un fattore extra-umano, seppure antropomorfizzato, stabile e incombente, da cui guardarsi ma su cui, nello stesso tempo, appoggiarsi.
Thomas Robert Malthus (1766-1834)* Tale frizione tra fattore umano (soggettivo) e fattore naturale (oggettivo) è segnalata anche da T. R. Malthus nel suo saggio: An Essay on the Principle of Population (1798) CHAPTER XVI.Probable error of Dr. Adam Smith in representing every increase of the revenue or stock of a society as an increase in the funds for the maintenance of labour-Instances where an increase of wealth can have no tendency to better the condition of the labouring poor-England has increased in riches without a proportional increase in the funds for the maintenance of labour-[…] * Cercare su Wikipedia!
T. R. Malthus (1) Thomas Robert Malthus vedeva il conseguimento della ricchezza delle nazioni non come una marcia inarrestabile dal meno al più, ma come una marcia di avvicinamento all’inevitabile catastrofe, determinata dal principio di popolazione, in base al quale ogni aumento del salario reale si traduceva in un aumento di popolazione. Ralph Waldo Emerson lo criticò così: “Malthus, affermando che le bocche si moltiplicano geometricamente e il cibo solo aritmeticamente, dimenticò che la mente umana è anch’essa un fattore nell’economia politica e che i crescenti bisogni della società sarebbero stati soddisfatti da un crescente potere d’invenzione”
MODULO II L’allarme-sviluppo nella riflessione del XX sec.
Crisi della soggettività e crisi dello sviluppo E’ Max Weber* tra i primi a notare le conseguenze per lo sviluppo di quella frizione irrisolta, presente in A. Smith, tra il fattore umano e il fattore extra-umano, che consegnava la dimensione soggettiva alle sue oggettivazioni, fino a renderla immemore della loro origine e dispersa in esse. In ciò Weber era certo stato influenzato dalla profezia di F. Nietzsche, che prevedeva, per il XX e il XXI secolo, l’avvento del nichilismo, cioè di quella patologia antropologica che, attaccando l’istanza di trascendenza dell’uomo, radice della soggettività, volge al nulla ogni possibile sviluppo. * Cercare su Wikipedia!
Origine soggettiva del Capitalismo Weber, riflettendo sul poderoso fenomeno del Capitalismo, ne rinveniva l’origine soggettiva, risalente all’iniziativa di «un giovane di una delle famiglie di imprenditori» tradizionali: «ad un certo momento»si era ridestato in lui un nuovo spirito, che «improvvisamente» aveva cominciato a disturbare la vita tradizionale e «assai comoda» dei padri, «senza che fosse intervenuto alcun mutamento fondamentale nella forma dell’organizzazione – passaggio all’impianto industriale chiuso o al telaio meccanico o simili».* *M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, tr. it. di P. Burresi, Sansoni, Firenze 1965, pp. 124-125.
Dinamiche oggettivanti del Capitalismo Il nuovo spirito capitalistico comportò l’avvio, in Occidente, di uno sviluppo incredibile, supportato da dinamiche di “razionalizzazione” (EPSC, pp. 76-77) parcellizzante e calcolante dei processi naturali, che non avevano uguali altrove. Del resto, lo spirito del capitalismo proprio in Occidente si era risvegliato e, cercando di realizzarsi, si era procurato i capitali come mezzi della sua azione - e non viceversa – (EPSC, p. 126), perché qui da tempo immemorabile si era avviato quel processo, preparatorio di esso e divenuto ora invincibilmente ineluttabile, che Weber denomina della “separazione delle sfere” (economica, politica, estetica, erotica, intellettuale).* * M. Weber, Considerazione intermedia, tr. it. di A. Ferrara, Armando, Roma 1995, pp. 41-104
Il disincanto del mondo Ma, dopo secoli di impetuoso sviluppo socio-economico-culturale, dello slancio di quell’iniziativa individuale, resta ormai solo – osserva Weber nel 1920 - il “disincanto del mondo” (Entzauberung der Welt). Si tratta di una condizione, socialmente diffusa e condivisa, che ci segnala la fine irrevocabile di quel passato, che era scaturito in modo “magico” - quando la nostra creatività era ancora in grado di avvertire l’incantesimo del mondo e farsene sollecitare - e perciò non è riproducibile con i poveri strumenti della razionalità calcolante, di cui ora disponiamo, dopo la devastazione antropologica che ci siamo inferti, consegnandoci all’esecuzione di dinamiche oggettive e oggettivanti, senza curarci del loro senso per noi.
L’allarme sviluppo di Max Weber Della ricca e viva razionalità con cui l’uomo animava, nel passato remoto, il suo rapporto con il mondo, traendone insieme l’incremento del proprio essere e l’ edificazione del mondo stesso, non resta nel XX secolo altro che la capacità di calcolare «che cosa dobbiamo fare se vogliamo padroneggiare la vita con la tecnica»*. Per soddisfare le esigenze spirituali Weber consiglia, infatti, di rifugiarsi nell’ambito dell’irrazionale e attingere da religioni e filosofie il dio cui, senza ragione ma per un irrefrenabile quanto inspiegabile necessità interiore, vogliamo assoggettarci per dare un senso almeno alla nostra esistenza individuale, mentre continuiamo ad attendere all’opera razionalizzatrice del nostro lavoro intellettuale e materiale, che spoglia sempre più il mondo del suo mistero e produce nelle persone scetticismo e disincanto.** *M. Weber, La scienza come professione, tr. it. di L. Volontè, Rusconi, Milano 1997, p. 103. ** Cfr.: Allegato V: D. Verducci, Etica e turismo per lo sviluppo. Note a: N. Tonini, Etica e turismo. La sfida possibile, San Paolo Editrice, Cinisello Balsamo, 2010.
L’allarme sviluppo di E. Husserl Nel 1935, anche la voce di Edmund Husserl si leva ad ammonire che «mere scienze di fatti producono meri uomini di fatti».* Nelle conferenze di Praga e di Vienna, infatti, egli affronta la drammatica situazione antropologica, che ha fatto seguito all’andamento dissennato dei saperi e delle pratiche da essi derivanti, compresa l’economia politica, nell’Europa moderna, dove con leggerezza si è lasciato che le scienze cedessero alla tentazione autonomistica e all’illusione di poter procedere proficuamente, pur avendo reciso i legami con la comune radice filosofica, che tutte le aveva generate, coinvolgendole in un’unica ricerca di senso umano. * E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, Milano, Il Saggiatore, 1961, p. 33.
Il nichilismo in F. Nietzsche* «Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli» e tale storia tratta dell’«insorgere del nichilismo» (die Heraufkunft des Nihilismus) (VdP, Prefazione, § 2, p. 3). «Cento segni», continua Nietzsche, annunciano che essa è un destino che va di necessità al suo compimento e se ora, nel 1887, il nichilismo è solo incipiente, ospite tra i più inquietanti ma ancora «davanti alla porta» (VdP, P. d. o., § 1, p. 7), in seguito esso sarà dispiegato e condurrà alla nientificazione dell’umano nella conoscenza e nell’azione, perché comporterà la completa svalutazione dei valori supremi, la totale mancanza di scopi, la assenza di risposte alla domanda: «a che fine?» (wozu) (VdP, I, § 2, p. 9), la mancanza di senso e il senso dell’invano (VdP, I, §11, p. 11).** ** F. Nietzsche, La volontà di potenza, tr. it. di A. Treves e P. Kobau, Bompiani, Milano 2000. * Cercare su Wikipedia!
L’allarme sviluppo in F. Nietzsche «Tutta la nostra cultura europea – osserva Nietzsche - si muove già da gran tempo con un tormento e una tensione che cresce di decennio in decennio, come se tendesse a una catastrofe: inquieta, violenta, impetuosa: come una corrente (Strom) che vuol giungere alla fine (ans Ende), che non riflette più (besinnt), che ha paura di riflettere (besinnen)» (VdP, Prefazione, § 2, p. 3). Quanto si sta producendo è, d’altro canto, ineluttabile secondo Nietzsche: si tratta infatti della conseguenza logica dell’«interpretazione del valore fin qui accordato all’esistenza» e dunque rappresenta l’effetto finale di cause che già da tempo hanno esercitato la loro azione e consolidato i loro risultati (VdP, I, 1, p. 9).
Riattivare lo sviluppo umano secondo Nietzsche Nietzsche, proprio mentre avverte di essere assediato dal nulla e di avere «il nichilismo dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé»(VdP, Prefazione, § 4, p. 4), scopre di essere il detentore di un fattore che, per saper cogliere il nulla, si manifesta potente antagonista di esso e forse capace non solo di fronteggiarlo ma anche di attraversarlo. Nietzsche si dichiara infatti pronto a instaurare un «contromovimento», rispetto a quello richiesto da quanto finora è stato considerato principio e compito ed è convinto che «in un qualche futuro [tale contromovimento] risolverà quel nichilismo compiuto», proprio per il fatto che esso «lo presuppone, logicamente e psicologicamente» e perciò «assolutamente non può venire se non dopo il nichilismo e dal nichilismo» (La volontà di potenza, “Prefazione”, § 4, p. 4).
Tornare in se stessi per riattivare lo sviluppo (Nietzsche) Ciò che Nietzsche cava da dentro di sé come antagonista efficace al nulla, e ne è capace perché «sinora non ha fatto altro [che questo,] riflettere (zu besinnen)» (VdP, Prefazione, § 3, p. 4), è appunto l’esercizio della facoltà di «riflettere» (besinnen) ovvero del pensiero nella sua radicale attitudine a cogliere l’essere e operarne il ri-orientamento di senso. Esattamente ciò che la cultura europea nel suo tempo e nel nostro ha avuto paura di esercitare in pienezza, ma di cui invece c’è estremo bisogno e anzi rappresenta l’unica possibilità per la ripresa dello sviluppo umano ed economico, dopo l’oggettivizzazione estrema che abbiamo subito anche nell’espressione delle nostre energie evolutive.
Riattivare lo sviluppo Ipotizza Nietzsche che per riattivare lo sviluppo: «Ogni caratteristica fondamentale, che è alla base di ogni avvenimento, e che in ogni accadimento si esprime, dovrebbe, se fosse sentita da un individuo come propria caratteristica fondamentale, spingere questo individuo ad approvare trionfalmente ogni attimo dell’esistenza in generale. L’importante sarebbe appunto sentire con piacere dentro di sé questa caratteristica fondamentalmente come buona e pregevole».* * F. Nietzsche, Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide, Adelphi, Milano 2006, § 8, p. 15
Modulo III Ripresa del fattore antropologico dello sviluppo
L’uomo come fattore di sviluppo Siamo così risospinti al punto dal quale la ricerca dello sviluppo economico si era avviata: all’individuo umano vivente e alla inevasa domanda di senso circa le sue produzioni! (Cfr.: MODULO I, slides 17+88) Ora però, nel XX sec., gli studi antropologici possono offrire alla questione quel supporto teoretico che essa non aveva trovato nella metafisica tradizionale di stampo aristotelico in fase di dissoluzione. L’antropologia filosofica può infatti documentare la fecondità evolutiva dell’essere nell’opera dell’essere umano, il quale “fa essere”in proporzione del grado di umanità conseguito.
Natura e natura umana Dal paesaggio concettuale dell’antropologia filosofica l’uomo emerge come un vivente che oltrepassa i limiti della diretta derivazione dall’animale, per esprimersi quale «progetto globale della natura», unico nel suo genere (A. Gehlen)*. Max Scheler* rappresenta così la condizione umana, rapportata alla condizione animale: A A (A=animale; A=ambiente; = metabolismo) U M (U=uomo; M=mondo; =trascendenza) * Cercare su Wikipedia!
Natura e natura umana (1) Si riprende in ciò l’idea aristotelico-tomistica della natura umana, “estatica”, come la definisce R. Spaemann,* idea non più compresa dal tardo Medioevo in avanti. Secondo tale concezione la natura produce nell’uomo qualcosa che è “di più” (nobilior) della natura stessa e tale potenziamento avviene grazie all’amicizia, che consente di condividere e moltiplicare ciò che fa bene (Aristotele, Etica a Nicomaco; Tommaso, Summa theologiae) . L’uomo non è questo “di più”, ma è colui in cui la natura ha la possibilità di trascendere se stessa per arrivare a questo “di più”, che per S. Tommaso è la beatitudine (Summa theologiae, I-II, q. 5, a. 5, ad 1) e per Aristotele (De Anima, II, 4, 415a 29-b 1) la metèxis/partecipazione “all’eterno e al divino” * R. Spaemann, Natura e ragione. Saggi di antropologia, Università della Santa Croce, Roma 2006, p. 32.
Auto-trascendimento della natura nell’uomo Ovvero: l’uomo, compiendo atti di trascendimento della natura sua e dell’intero cosmo, la conduce per la prima volta a se stessa e rende visibile quello che la natura è davvero, nella sua integralità potenziale e attuale. Infatti, soltanto nell’uomo la struttura tendenziale propria della natura si presenta come libero volere e riconoscimento di un motivo e di un fine oggettivi.
Natura e natura umana (2) Affermare che l’uomo per natura trascende la natura sua e del cosmo significa definire l’uomo non tanto in base a ciò che egli è effettivamente, come facciamo per tutti gli altri enti, quanto attraverso ciò che egli non è ancora, ma può divenire per mezzo dei suoi atti. Così facendo, emerge la qualità specifica dell’uomo che, a differenza di tutti gli altri enti-oggetto, è “soggetto” i cui atti “fanno essere”, slatentizzando anche le potenzialità inespresse sue e del mondo, in forza del suo essere sorprendentemente corrispondente all’essere naturale e incidente su di esso. Qui si esprime il paradosso dell’umano! Infatti, mentre ogni essere vivente è “centrato” sul proprio ambiente, con il quale è determinato a “metabolizzare” (A↔A), l’essere umano risulta “eccentrico” (U M ), in quanto non fissato ad un unico centro ma libera controparte di una molteplicità di ambienti=l’intero mondo e come trascendente anche rispetto a quest’ultimo, perché in rapporto con l’infinito e l’assoluto, attraverso le sue idee.
La funzione finalizzante Rispetto alla sicurezza istintuale dell’animale, fornito di un ambiente specifico e di una modalità di vita rigidamente determinata (J. Uexkühll)*, nell’uomo compare infatti una sorta di «manchevolezza», che lo costringe ad elaborare la sua stessa singola naturacome «opera propria» (G. Herder)*. Proprio a causa di tale suo specifico biologico, segnato da una inadeguatezza alla vita, che esula dalle spiegazioni fornite dalle leggi evolutive della selezione e dell’adattamento (cfr.: teoria del ritardamento morfologico)*,l’uomo è dotato dalla natura della qualità speciale di porre fini a se stesso (L. Bolk)*. * cercare su Wikipedia!
Natura e creatività nell’uomo Si delinea in queste acquisizioni della ricerca antropologica recente, filosofica e scientifica, una specifica concezione della vita dell’uomo nel mondo: essa non è soltanto un processo secondo natura, che si possa cogliere per via di analisi oggettiva, in quanto il costruttivismo della vita umana è veicolato dall’atto creativo, che la caratterizza.
Natura e creatività nell’uomo «Per trovare l’indizio del vasto, apparentemente disperso eppure cogente macrocosmo dell’universo umano in mutamento», bisogna «colpire al cuore della datità-in-divenire, dove tutto si differenzia a partire dai poteri virtuali», cioè occorre sapersi attestare sul punto sintetico rappresentato dall’atto creativo dell’uomo –che è anche ciò che lo rende “umano” – perchè è quello il luogo in cui «i fattori differenziali del macrocosmo della vita si differenziano».* *A.-T. Tymieniecka, Creative Experience and the Critique of Reason, “Logos and Life”, Book 1, Kluwer Dordrecht 1988, p. 6. *Cfr. Allegato: D. Verducci, La questione dello sviluppo in prospettiva ontopoietica, in “Etica ed economia”, 1 (2007), pp. 45- 58. + Allegato: SCHEDA-TYMIE
Natura e creatività nell’uomo (1) Raggiungendo il livello della condizione umana, la vita consegue un grado di individualizzazione per cui prende coscienza di sé e si esplica come capacità di etero-auto-plasmazione, conferendo al vivente uomo la capacità di riconoscere, selezionare, portare a realizzazione le proprie virtualità ontologiche e di gestire in modo creativo le funzioni e gli automatismi psico-fisici, suoi e dell’ambiente che lo circonda, sia animato e inanimato che umano.
Natura e creatività nell’uomo (2) Il costruttivismo che promana dalla condizione umana della vita non consiste, infatti, né nel semplice «sviluppo del corso di vita [dell’uomo]» (development of his life-course), secondo il naturalismo antico, né si esaurisce nell’aggiunta del fatto che l’uomo è «un agente che conferisce significato, l’autore del suo mondo-di-vita», come il moderno cartesianesimo ha affermato. Ciò che si mostra, a ben guardare il fenomeno della comparsa della condizione umana nel corso dell’evoluzione dei viventi, è che «la vita propria [dell’uomo] è in se stessa l’effetto della sua autoindividualizzazione nell’esistenza per autointerpretazione inventiva della sua più intima movenza di vita» (Tymieniecka, op. cit., p. 5).* * Cfr.: Allegato PDF, “Etica ed Economia”, D. Verducci, cit., p. 53.
Natura e creatività nell’uomo (3) Se dunque ci poniamo nella prospettiva della creatività umana come fattore originale e specifico di sviluppo, guadagniamo il nuovo punto archimedeo che ci consente di cogliere l’essere nella sua evolutività non solo autopoietica (=riproduttrice di essere, cfr.: F. Varela*) ma anche ontopoietica (=produttrice di essere): l’evolutività dell’essere risulta infatti marcata da un logos che procede auto-individualizzandosi e che, senza cambiare natura, ma passando dallo statuto deterministico della natura a quello libero dell’uomo, percorre l’intero universo inorganico, organico, umano e abilita l’uomo ad operare per uno sviluppo ecologico (= armonicamentesuo e di tutto il cosmo).** * Cercare su Wikipedia! ** Cfr.: Allegato PDF, “Etica ed Economia”, D. Verducci, cit., p. 51-57.
Il logos della vita nella vita umana Seguendo il filo conduttore del costruttivismo della vita, ci si manifesta così una teleologia ontologica, per la quale il dispiegamento della vita naturale trova il suo telos (=fine) nella vita umana; di qui si avvia, infatti, una fase di sviluppo nuova, in quanto l’auto-individualizzazione non procede più deterministicamente, ma secondo una modalità immaginativamente creativa: «the creative function guided by its own telos generates Imaginatio Creatrix in man, as the means par excellence, of specific human freedom: that is freedom to go beyond the framework of the life-world, the freedom of man to surpass himself» (Tymieniecka, op. cit., pp. 25-26).
Il contributo della paleo-antropologia La paleoantropologia ci offre documentazione di ciò, allorchè ci indica la rivoluzione agricola del neolitico (10.000-3.500 a. C.) come il punto di avvio della culturalità umana o l’emergere del “secondo uomo”, come lo chiama A. Gehlen,* per il quale l'ambiente naturale diventa un ambiente culturale, influenzato e plasmato cioè non solo dalla semplice presenza umana, ma soprattutto dal fattore “creativo” propriamente umano, che si intreccia inestricabilmente con il puro dato biologico in una azione combinata tanto sui singoli individui che sulle pressioni selettive che ne plasmano le linee genetiche. * A. Gehlen, Le origini dell’uomo e la tarda cultura, Il Saggiatore, Milano 1996, p. 62.
L’agricoltore/allevatore del neolitico L’agricoltore/allevatore del neolitico scoprì, infatti, cioè sperimentò ed apprese che la natura, sottoposta alle sue cure di coltivazione, “fioriva”, fruttificando secondo una fecondità, impensabile nel suo stato selvaggio. A seguito dell’esperienza sorprendentemente positiva della coltivazione dei campi, quale potenziamento “artificiale” dello sviluppo naturale, gli uomini estesero la pratica della coltivazione o curaanche alla natura propria e dei propri simili (culto dei morti, educazione/formazione, lavoro).* *Cfr.: MODULO I, slides 11-16 sui Fisiocratici