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Libera Pluriversità di Napoli Non è Ufficiale ma Vera Napoli - Via del Parco Margherita, 35. Sabato 05 dicembre 2009 - Orario 18,00 - 19,00 Lingua e letteratura napoletana Origini e definizione la lezione è coordinata dal prof. pref. Nicola Terracciano dottornico@inwind.it.
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Libera Pluriversità di Napoli Non è Ufficiale ma Vera Napoli - Via del Parco Margherita, 35 Sabato 05 dicembre 2009 - Orario 18,00 - 19,00 Lingua e letteratura napoletana Origini e definizione la lezione è coordinata dal prof. pref. Nicola Terracciano dottornico@inwind.it
il termine "lingua" si riferisce a ogni idioma utilizzato da una comunità per comunicare al suo interno. Il termine dialetto indica "un sistema linguistico usato in zone geograficamente limitate e in un ambito socialmente e culturalmente ristretto, divenuto secondario rispetto a un altro sistema dominante e non utilizzato in ambito ufficiale o tecnico-scientifico" (Dizionario De Mauro-Paravia)
Il napoletano, come l'italiano, è una lingua derivata dal latino. Ha la presenza di tracce osche (si rinvengono a Pompei, ancora nel 79 d.C., per esempio) e greche (parlato a Napoli fino al II-III secolo)
Il napoletano ha inoltre subito nella sua storia, influenze e "prestiti" dai vari popoli che hanno abitato o dominato la Campania e l'Italia centro-meridionale, i coloni greci ed i mercanti bizantini nell'epoca del Ducato di Napoli fino al IX secolo, e, più recentemente, i normanni, i francesi gli spagnoli e perfino gli americani, durante la seconda guerra mondiale e la conseguente occupazione di Napoli, hanno contribuito con qualche vocabolo.
Sicuramente però lo spagnolo (dal 1503 al 1707) e soprattutto il francese lasciarono tracce profonde nella lingua e nella cultura napoletana. Tuttavia, qualsiasi somiglianza tra il napoletano e lo spagnolo va fatto risalire al latino volgare. ambedue lingue romanze o neolatine (in particolare la costruzione dell'accusativo personale indiretto e l'uso di tenere e di stare in luogo di avere e essere, e così via).
Similitudini con altre lingue Nella lingua napoletana troviamo moltissime parole simili o talvolta uguali a lingue straniere. Solitamente sono scritte in modo diverso ma spesso la pronuncia è molto simile o identica. Ciò è dovuto in parte alle conservazioni greche e latine e in parte alle diverse dominazioni che le Due Sicilie hanno subito. Troviamo in essa parole derivate dalle lingue castigliana, catalana, francese, araba (attraverso lo spagnolo o, in ambito culinario, grazie ai numerosi scambi commerciali che il Regno delle Due Sicilie intratteneva con l'area afro-mediterranea). Qualche parola deriva addirittura dall'inglese (anche con l'Inghilterra il Regno intratteneva rapporti commerciali) alcune delle quali introdotte durante l'occupazione americana della II guerra mondiale e forse per commistione linguistica con termini usati da emigranti in nazioni anglofone.
Il Napoletano è riconosciuto come lingua nella codifica ISO 639-1, ISO 639-2 oppure ISO 639-3, approvata nel 2005
Non esistono criteri scientifici o universalmente accettati per discriminare le "lingue" dai "dialetti", anche se esistono alcuni paradigmi, che danno risultati spesso contraddittori. • Le varietà linguistiche definite "lingue": • perché sono utilizzate per redigere documenti ufficiali • sono riconosciute come lingua letteraria, avendo una letteratura propria • alla comunità dei locutori della varietà corrisponde uno Stato a sé stante che la riconosca come propria, • un gruppo etnico che si riconosce e venga riconosciuto come tale • perché hanno prestigio presso i locutori e/o presso altri
La lingua napoletana (napulitano) è un idioma che per oltre un secolo è stata lingua ufficiale del regno di Napoli. Il volgare pugliese, altro nome con cui sono storicamente conosciuti il napoletano e i dialetti napoletani, sostituì il latino nei documenti ufficiali e nelle assemblee di corte a Napoli, dall'unificazione delle Due Sicilie, per decreto di Alfonso I, nel 1442. Nel XVI secolo il napoletano di stato sopravviveva solo nelle udienze regie, negli uffici della diplomazia e dei funzionari pubblici, nel 1554, si stabilì che in questi settori venisse sostituito dal volgare toscano.
Il napoletano possiede una ricchissima tradizione letteraria. Si hanno testimonianze scritte di napoletano già nel 960 con il famoso Placito di Capua (considerato il primo documento in lingua italiana, ma di fatto si tratta della lingua utilizzata in Campania, conosciuta come volgare pugliese) e poi all'inizio del '300, con una volgarizzazione dal latino della Storia della distruzione di Troia di Guido delle Colonne. La prima opera in prosa è considerata comunemente un testo di Matteo Spinelli, sindaco di Giovinazzo, conosciuta come Diurnali, un cronicon degli avvenimenti più importanti del Regno di Sicilia del XI secolo, che si arresta al 1268. Altre prose sono alcune volgarizzazioni della regola di San Benedetto, attuata nel monastero di Montecassino nel XIII e nel XIV secolo e alcuni mea culpa o confessioni rituali scritte dai monaci cassinati per permettere la comprensione dei sacramenti cattolici anche a chi non conosceva la lingua latina Placiti cassinesi. « Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti. » (Capua, marzo 960) « Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le possette parte sancte Marie. » (Teano, ottobre 963)
La «scuola siciliana» e il volgare pugliese. Alcune opere prodotte da un gruppo di poeti del Mezzogiorno, nel XIII secolo, sono considerate l'inizio della letteratura volgare italiana. I loro testi sono assemblati per le tematiche simili, nonché per il sublime lirismo che li caratterizza, e vengono considerati espressione di una corrente letteraria detta «scuola siciliana». Storicamente però furono trattati sempre come versi in lingua napoletana (volgare pugliese), dai grammatici coevi e dallo stesso Dante. Sono le poesie di Giacomo da Lentini, Rinaldo d'Aquino, Pier delle Vigne, Giacomino Pugliese e Guido delle Colonne.
Gli scrittori federiciani, sono trattati come il prodotto di un terreno artistico italiano uniforme su cui sarebbe maturata poi la letteratura italiana vera e propria. Inoltre, tanto coloro che adottarono il volgare pugliese quanto quelli che adottarono il volgare siciliano sono chiamati siciliani, perché con tale accezione si connotavano nel duecento, secondo il De Sanctis, coloro che provenivano dal Regno di Sicilia. La denominazione, non tiene conto delle differenze specifiche fra i vari gruppi di poeti, riduce l'importante patrimonio letterario meridionale ad un indistinta produzione letteraria che avrebbe poi aperto la strada allo «stilnovismo», attraverso la «transizione toscana». « Per la vertute de la calamita como lo ferro at[i]ra no si vede, ma sì lo tira signorevolmente; e questa cosa a credere mi 'nvita ch'amore sia; e dàmi grande fede che tuttor sia creduto fra la gente» (Pier della Vigna)
I siciliani costituirebbero un'importante svolta poetica rispetto alla tradizione provenzale, a cui si ispirarono, per aver sublimato ulteriormente le strutture simboliche dei trovadori, estraniando le tematiche cortesi dai motivi politici e religiosi che invece colorivano la poesia occitana. I toscani però, che spesso copiarono i siciliani, poterono evolvere ulteriormente l'esperienza meridionale, privilegiati dalla familiarità con la realtà cittadina e comunale, dove l'identità culturale era fortemente condizionata dall'appartenenza a fazioni politiche o dalla connivenza con corporazioni economiche: così la poesia italiana si arricchì di tutte le innovazioni tematiche e spirituali proprie dei primi ambienti borghesi. D'altra parte la poesia meridionale finì con il cristallizzarsi entro alcuni stereotipi, perché i letterati del Regno di Sicilia erano fortemente condizionati dal sistema centralista e burocratico dello stato unitario, secondo la critica idealista.
lo «stilnovismo» non è l'esito o un superamento della poesia meridionale: i rimatori in volgare pugliese sarebbero infatti ispirati da una weltanschauung* diversa da quella degli artisti toscani, coloro che scrissero in siciliano invece fecero propria la tradizione popolare della Sicilia che esprimeva in contrasti amorosi le continue lotte fra fazioni e gruppi politici che per secoli hanno spaccato l'isola, ora araba, ora normanna, ora ortodossa, ora cattolica, con il trionfo finale della civiltà e della tradizione locale contro usurai, feudatari e latifondisti. * "concezione del mondo"
Giulio Cesare Cortese (Napoli, 1570 – Napoli, 1640). Il più celebre poeta napoletano d'età moderna è Giulio Cesare Cortese. Egli è molto importante per quella che è la letteratura dialettale e barocca, in quanto, con Basile, pone le basi per la dignità letteraria ed artistica della lingua napoletana moderna. Di costui si ricorda la Vaiasseide, un'opera eroicomica in cinque canti, dove il metro lirico e la tematica eroica sono abbassati a quello che è il livello effettivo delle protagoniste: un gruppo di vaiasse, donne popolane napoletane, che s'esprimono in dialetto. È scritto comico e trasgressivo, dove molta importanza ha la partecipazione corale della plebe ai meccanismi dell'azione.
La Vaiasseide È un'opera eroicomica in cinque canti, dove il metro lirico e la tematica eroica sono abbassati a quello che è il livello effettivo delle protagoniste:un gruppo di vaiasse, donne popolane napoletane, che s'esprimono in dialetto. È scritto comico e trasgressivo, dove molta importanza ha la partecipazione corale della plebe ai meccanismi dell'azione. Il lettore è letteralmente catapultato nella vita quotidiana di un gruppo di vaiasse dove l'elemento "culto" è da ricercare nel viaggio che il Cortese stesso compie in un mondo che non è il suo e che descrive con ironia e tragicità. Il viaggio di Parnaso L'opera, dialettale, è diagnosi della condizione della letteratura e del letterato,con varie allusioni autobiografiche, piene d'amarezza e pessimismo. Il tutto è ambientato sul Parnaso dove Apollo e le sue Muse risiedono e dove il poeta può mettere in risalto i peccati della poesia, compiuti in una società degradata, dove è all'ordine del giorno un reato come il furto letterario. Il tutto comunque si risolve con un finale fiabesco e con l'amara delusione del poeta che si vede negate le proprie ambizioni
Giambattista Basile (Giugliano in Campania, 1566 o 1575 – Giugliano in Campania, 1632) è stato un letterato e scrittore italiano di epoca barocca, primo a utilizzare la fiaba come forma di espressione popolare. La prosa in volgare napoletana diviene celebre grazie Giambattista Basile, vissuto nella prima metà del Seicento. Basile è autore di un'opera famosa come Lo Cunto de li Cunti, ovvero lo trattenimiento de le piccerille, tradotta in italiano da Benedetto Croce, che ha regalato al mondo la realtà popolare e fantasiosa delle fiabe, inaugurando una tradizione ben ripresa da Perrault e dai fratelli Grimm.
http://www.bibliotecaitaliana.it/exist/ScrittoriItalia/show-text.xq?textID=mets.si034http://www.bibliotecaitaliana.it/exist/ScrittoriItalia/show-text.xq?textID=mets.si034
http://www.bibliotecaitaliana.it/repository/ScrittoriItalia/si034/si034_0438.jpg','438')http://www.bibliotecaitaliana.it/repository/ScrittoriItalia/si034/si034_0438.jpg','438') Le Muse Napolitane Egloghe* de Gian Alesio Abattutis *L'egloga, o ecloga, è un componimento della poesia bucolica in forma dialogica, con significato allegorico e celebrazione della vita agreste.
« L'Italia possiede nel Cunto de li cunti o Pentamerone del Basile il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari... » (Benedetto Croce, Le sue opere più famose sono scritte in lingua napoletana e si intitolano "Le muse napolitane" e "Lo cunto de li cunti overo Lo trattenemiento de peccerille", noto anche come il "Pentamerone", benché sia stato chiamato così da un editore e non per scelta del Basile, si ispira evidentemente al Decameron di Boccaccio. I narratori sono dieci vecchiette caratterizzate da difetti fisici (Zeza è sciancata, Cecca storta, Meneca gozzuta, Tolla nasuta, Popa gobba, Antonella bavosa, ecc.). fiabe tratte in genere dalla tradizione popolare, che l'autore trasforma però in prodotti letterari, con l'uso di un dialetto più colto di quello effettivamente parlato e con l'inserimento di notazioni ironiche e commenti moralistici. L'opera di Basile fu una fonte di ispirazione per altri autori di fiabe e favole, come Charles Perrault o i fratelli Grimm.
Negli ultimi tre secoli è sorta una fiorente letteratura in napoletano, in settori anche diversissimi tra loro, che in alcuni casi è giunta anche a punte di grandissimo livello, come ad esempio nelle opere di Salvatore di Giacomo, Raffaele Viviani, Ferdinando Russo, Eduardo Scarpetta, Eduardo de Filippo, Antonio De Curtis. Sarebbero inoltre da menzionare nel corpo letterario anche le canzoni napoletane, caratterizzate da grande lirismo e melodicità, i cui pezzi più famosi (es. 'O Sole mio) sono noti nel mondo. Esiste inoltre un fitto repertorio di canti popolari (vilanelle) oggi considerati dei classici. Va infine aggiunto che a cavallo del XVII e XVIII secolo, nel periodo di maggior fulgore della c.d. scuola musicale napoletana, questa lingua sia stata utilizzata per la produzione di interi libretti di opere liriche, alcune delle quali ('O frate 'nnammurato es.) hanno avuto una diffusione ben al di fuori dei confini partenopei.
Vocabolari rigorosi sono quello di Raffaele D'Ambra (un erudito ottocentesco) e quello di Antonio Altamura (studioso novecentesco). Interessante è anche la grammatica del Capozzoli (1889). Anche negli ultimi anni sono stati pubblicati dizionari e grammatiche della lingua napoletana, ma non si è mai pervenuti a una normativa concorde dell'ortografia, della grammatica e della sintassi, sebbene si possa comunque ricavare deduttivamente, dai testi classici a noi giunti, una serie di regole convenzionali abbastanza diffuse.
Fonetica e sintassi Spesso le vocali non toniche (su cui cioè non cade l'accento) e quelle poste in fine di parola, non vengono articolate in modo distinto tra loro, e sono tutte pronunciate con un suono centrale indistinto che i linguisti chiamano schwa e che nell'Alfabeto fonetico internazionale è trascritto col simbolo /e/ (in francese lo ritroviamo, ad esempio, nella pronuncia della e semimuta di petit). Nonostante la pronuncia (e in mancanza di convenzioni ortografiche accettate da tutti) spesso queste vocali, nei solchi della tradizione letteraria in lingua, sono trascritte sulla base del modello della lingua italiana, e ciò, pur migliorando la leggibilità del testo e rendendo graficamente un suono debole ma esistente, favorisce l'insorgere di errori da parte di coloro che non conoscono la lingua e sono portati a leggere come in italiano.
Altri errori comuni, dovuti a somiglianze solo apparenti con l'italiano, riguardano l'uso errato del rafforzamento sintattico, che segue, rispetto all'italiano, regole proprie e molto diverse, e la pronuncia di vocali chiuse invece che aperte, o viceversa, l'arbitraria interpretazione di alcuni suoni. Alcune ulteriori differenze di pronuncia con l'italiano sono: * in principio di parola, e soprattutto nei gruppi gua /gwa/ e gue /gwa/, spesso la occlusiva velare sonora /g/ seguita da vocale diventa approssimante /?/. * la fricativa alveolare non sonora /s/ in posizione iniziale seguita da consonante viene spesso pronunciata come fricativa postalveolare non sonora /?/ (come in scena ['?e:na] dell'italiano ) ma non quando è seguita da una occlusiva dentale /t/ o /d/ (almeno nella forma più pura della lingua). * le parole che terminano per consonante (in genere prestiti stranieri) portano l'accento sull'ultima sillaba. * la /i/ diacritica presente nei gruppi -cia /-e?a/ e -gia /-e?a// dell'italiano, viene talvolta pronunciata: per es. na cruciera [nakru'?iera]. * è frequente il rotacismo della /d/, cioè il suo passaggio a /r/, come in Maronna. * la vocale aperta arrotondata a è pronunciata /?/ piuttosto che /a/ come in italiano.
Ma de parla’ me so’ stracquato e me manca mo lo sciato; Sicchè dateme licenza, graziosa e bella audienza, ’nfi’ che sorchio na meza de seje, a la saluta de lujo e de leje, Ca se secca lo cannarone Sbacantannose lo premmone. Bonnì ‘A maronna v’accumpagna.