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Lez . 2 . La fattispecie. Lezione n. 2 di diritto fallimentare Anno accademico 2013/2014. La fattispecie. Come già esaminato nell’analisi delle ragioni della specialità del diritto fallimentare, la disciplina del concorso si applica ad una fattispecie con i seguenti elementi costitutivi:
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Lez. 2. La fattispecie Lezione n. 2 di diritto fallimentare Anno accademico 2013/2014
La fattispecie Come già esaminato nell’analisi delle ragioni della specialità del diritto fallimentare, la disciplina del concorso si applica ad una fattispecie con i seguenti elementi costitutivi: • Imprenditore commerciale fallibile; • In condizioni di insolvenza o crisi.
L’accertamento costitutivo La disciplina speciale del diritto concorsuale non si applica al solo configurarsi della fattispecie con i suoi elementi costitutivi, ma necessita di un accertamento giudiziale che dia certezza alla sua esistenza e quindi all’applicazione del regime speciale (una pronuncia di natura costitutiva: la dichiarazione di fallimento; l’accertamento dell’insolvenza nella l.c.a.; l’ammissione al concordato).
Crisi e insolvenza Sinora è stata data una nozione molto generica di crisi, quale elemento obiettivo della fattispecie, ora questo concetto deve essere definito sul piano giuridico.
Insolvenza Si trae dall’art. 5, 2° comma: “inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” E’ il presupposto del fallimento in senso stretto, come autonoma procedura fallimentare.
Crisi Il concetto più generale di crisi si ricava dall’art. 160, 1° comma; ma particolarmente dall’ u.c. della disposizione: “ai fini di cui al primo comma, per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza” (modifica dovuta alla l. n. 51/06). Il riferimento normativo, pure nella sua genericità, fa capire che il concetto di crisi è un genus, a cui appartiene come species quello dell’insolvenza. La crisi è il presupposto del concordato preventivo e degli accordi concorsuali.
Interpretazione del concetto di insolvenza E’ necessario muovere dai riferimenti normativi dell’art. 5: • “inadempimenti”; • “incapacità di adempiere alle obbligazioni”; • “regolarmente”; • “fatti esteriori”.
Inadempimenti Per inadempimenti il legislatore non intende una pluralità di inadempimenti, ma anche un solo inadempimento, ovvero l’incapacità dell’imprenditore ad adempiere ad una sua obbligazione. L’inadempimento non deve essere originato da una contestazione del credito, poiché in tal caso fin tanto che non è accertato con sentenza passata in giudicato, giustifica un inadempimento. Ma il giudice del processo che accerta la fattispecie potrà condurre una cognizione incidentale e valutare se il credito è o meno fondato e trarne le dovute conseguenze.
Regolarmente Anche un inadempimento capace di estinguere l’obbligazione ma che non utilizzi mezzi normali, come il denaro o i titoli di credito (assegni, cambiali, ecc.) è da intendere come inadempimento agli effetti dell’insolvenza. Esempio: la cessione dei beni come modalità di pagamento (datio in solutum) è sintomatica di insolvenza.
I fatti esteriori Sono indicati come alternativi alla illiquidità dell’imprenditore ed integrano quei fatti, la cui rilevanza penale è attribuita solo a seguito della dichiarazione di fallimento alla quale è legittimato per questa ragione il pubblico ministero: • la fuga dell’imprenditore; • la chiusura dei locali dell’impresa; • il trafugamento o la sostituzione o diminuzione fraudolenta dell’attivo; • l’esagerazione fraudolenta del passivo.
Lo sbilancio patrimoniale Un imprenditore che manifesti un evidente sbilancio patrimoniale, con prevalenza del passivo sull’attivo, non è ancora in condizioni di insolvenza, poiché potrebbe avere agio di ricorrere al credito e quindi essere in grado di adempiere alle sue obbligazioni.
Il concetto giuridico di crisi Il legislatore non è così chiaro nel concetto giuridico di crisi, per il quale si rende necessaria un’interpretazione sistematica, che tenga conto anche del recente passato ante riforma.
Temporanea difficoltà ad adempiere Originariamente la legge del 1942 contemplava un autonoma procedura (amministrazione controllata), fondata sulla “temporanea difficoltà ad adempiere” (art. 187, oggi abrogato). La riforma ha assorbito nel concordato tale procedura: evidentemente il concordato muove anche dalla temporanea difficoltà ad adempiere.
Il concetto di crisi reversibile Mentre l’insolvenza coincide per lo più con il concetto di crisi irreversibile e conduce, come il fallimento in senso stretto, alla liquidazione ed estinzione dell’impresa; il concetto di crisi che contempla come ipotesi l’insolvenza, richiude in sé anche il concetto di temporanea difficoltà ad adempiere, da intendersi come crisi reversibile la quale non conduce normalmente alla liquidazione ed estinzione dell’impresa.
Esempi Esempi di crisi reversibile sono: • lo sbilancio patrimoniale, di cui abbiamo escluso la natura di sintomo di insolvenza; • il rischio di insolvenza: imprenditore che nell’adempimento delle proprie obbligazioni si trova in palese affanno nel reperimento della liquidità. Un’improvvisa perdita della capacità reddituale (un profitto o utile diminuito), non è indice di temporanea difficoltà
Irregolarità di gestione Esiste, invero, un ulteriore presupposto oggettivo, diverso dall’insolvenza o dalla crisi, sul quale si può fondare una particolare procedura concorsuale: la liquidazione coatta amministrativa. Si tratta della “irregolarità di gestione”, da intendere come gestione dell’impresa in violazione delle norme di legge e di regolamento.
Ratio La liquidazione coatta è la procedura concorsuale dedicata alle grandi imprese (bancarie, assicurative, fiduciarie, cooperative) nelle quali è prevalente l’intento di una continuità dell’impresa ma dove per il maggior rilievo dell’interesse generale coinvolto si tiene conto non solo dell’insolvenza o della crisi ma anche della grave irregolarità di gestione.
I casi di irregolarità di gestione - Nelle imprese fiduciarie o bancarie: la violazione di legge o di regolamento; - nelle imprese assicurative, l’esercizio dell’impresa in difetto di autorizzazione ministeriale; - nelle imprese bancarie e assicurative, le perdite patrimoniali o la mancata costituzione delle riserve di legge.
l’accertamento incidentale della insolvenza Tuttavia in sede di liquidazione coatta avviata su irregolarità della gestione è possibile richiedere l’accertamento della insolvenza, agli effetti della piena applicazione delle regole del fallimento in senso stretto (revocatorie fallimentari; speciali reati dell’imprenditore insolvente).
Imprenditore commerciale fallibile Il presupposto soggettivo della fattispecie richiama due concetti giuridici: • l’imprenditore commerciale; • l’imprenditore commerciale fallibile. Ne consegue che l’imprenditore commerciale non è di per sé fallibile se non rientra nelle categorie di fallibilità disciplinate nell’art. 1. Quindi l’imprenditore commerciale è categoria più ampia dell’imprenditore commerciale fallibile, che è una sua specificazione.
Il professionista intellettuale Ancorché organizzi la propria attività mediante universalità di beni reali e personali destinati alla produzione di beni e servizi, il professionista intellettuale non è fallibile (l’art. 2238 c.c. richiama il titolo secondo, art. 2082 c.c. e ss., ma non l’art. 2221 c.c. sulla fallibilità.)
L’imprenditore agricolo Per tradizione storica è escluso dal diritto concorsuale l’imprenditore agricolo, originariamente per essere soggetto, più di ogni altro imprenditore, al fattore di rischio ambientale che giustificava il beneficio. Oggi il rischio ambientale per l’imprenditore agricolo è fortemente diminuito, particolarmente in alcune fattispecie di imprenditore agricolo nella nozione ampia dovuta all’art. 2135 c.c., dopo la riforma con d. lgs. n. 228/2001.
La nuova nozione di imprenditore agricolo Infatti non costituisce più elemento essenziale dell’imprenditore agricolo l’inerenza al fondo propria delle originarie attività di coltivazione, allevamento e selvicoltura, che contraddistingueva la sottoposizione dell’impresa agricola al fattore ambientale (art. 2135, 1° comma c.c., che ipotizza dette attività tipiche)
segue Ciò che contraddistingue oggi la nozione di agrarietà dell’impresa è tuttavia lo sfruttamento di un ciclo biologico, di carattere vegetale o animale (“che utilizzano o possono utilizzare il fondo…”); pertanto l’inerenza al fondo non è più caratteristica necessaria neppure delle attività tipiche (art. 2135, 2° comma c.c.).
Esempi di imprenditori agricoli Sono esempi di sfruttamento di ciclo biologico senza inerenze al fondo: • l’acquacoltura; • l’allevamento di razze canine (attività cinotecnica); • l’allevamento di bachi da seta; • l’apicoltura; • le colture idroponiche; • l’allevamento industriale in batteria; • le coltivazioni in serra. Tutte attività in cui l’inerenza al fondo viene meno e il fattore ambientale è dunque meno significativo.
Le attività connesse Secondo una tecnica legislativa pregevole, l’art. 2135 c.c. contiene un terzo comma il quale introduce una clausola generale di estensione della nozione di agrarietà verso le attività connesse alle ipotesi tipiche, ove elemento essenziale è il carattere accessorio rispetto ad un’attività agricola principale. Si tratta di attività latusensuindustriali o commerciali che usano prodotti “prevalentemente” risultato delle attività tipiche. Rientrano nell’agrarietà anche le attività di valorizzazione dell’ambiente, ovvero le attività di ricezione ed ospitalità (c.d. agriturismo).
Critica La particolare ampiezza della nozione di impresa agricola, il venir meno dell’inerenza al fondo e del rischio ambientale, lo sconfinamento in attività latusensuindustriali, rende storica l’esclusione dell’imprenditore agricolo dalla fallibilità e costituisce una remora alla regola economica della eliminazione dell’impresa insolvente.
Il lento inserimento dell’imprenditore agricolo L’art. 182 – bis, laddove regola la procedura degli accordi di ristrutturazione, non richiama l’art. 1 della legge fallimentare e riferisce il procedimento agli imprenditori tout court: quindi anche all’imprenditore agricolo.
La nozione di imprenditore La esclusione del professionista intellettuale e dell’imprenditore agricolo, rende comunque necessaria l’individuazione dalla nozione di imprenditore (art. 2082 c.c.), come colui che esercita: • “professionalmente”, ovvero non occasionalmente; • “un’attività economica organizzata” (donde il rilievo dell’organizzazione dei beni, ovvero dell’azienda, come elemento precipuo dell’impresa commerciale); • “al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi” (corrispondente alle attività economiche in senso stretto di natura industriale o agricola – produzione – e di natura commerciale – scambio).
…e quella di imprenditore commerciale L’art. 2195 c.c. specifica poi le attività proprie dell’imprenditore commerciale: • l’attività industriale in senso stretto; • l’attività commerciale in senso stretto; • alcune attività di servizio non corrispondenti alle prime, come il trasporto, l’attività bancaria e quella assicurativa; • altre attività ausiliarie, secondo il criterio elastico di adattamento all’evoluzione della fattispecie: è il caso dell’esercizio di impresa da parte di un agente di commercio, di un mediatore, di un intermediario finanziario; l’attività di estrazione mineraria.
La spendita del nome Ricavandosi il concetto dall’art. 147, 2° comma, sulla fallibilità del socio di fatto illimitatamente responsabile, anche l’imprenditore occulto, ovvero che non appare all’esterno dei rapporti usando un prestanome, è fallibile, facendosi leva su un rapporto sociale di fatto tra imprenditore occulto e imprenditore apparente e costruendo la fallibilità di entrambi.
La nozione di imprenditore commerciale fallibile La nozione di imprenditore commerciale non coincide esattamente con la nozione di imprenditore fallibile, che è più ristretta come si è detto: è una sua species. A tal proposito, dopo la riforma, nella sua ultima evoluzione dovuta alla novella del 2007, non è più utilizzabile nella individuazione dell’ imprenditore commerciale non fallibile, il concetto, desumibile dall’art. 2083 c.c., di piccolo imprenditore, su cui ha fatto leva la dottrina e la giurisprudenza prima della riforma.
La sopravvivenza dell’art. 2221 c.c. L’art. 2221 c.c. non è stato colpito dalla riforma ed ancora oggi esclude dalla fallibilità gli imprenditori commerciali coincidenti con un ente pubblico e i piccoli imprenditori. Tale disposizione, su cui avevano fatto leva i nostalgici del concetto di piccolo imprenditore, è stata tacitamente abrogata dall’art. 1. Quest’ultimo fuoriesce da un concetto qualitativo di imprenditore esente dal fallimento, in favore di un concetto puramente quantitativo, e non usa più il termine “piccolo imprenditore”.
La pluralità delle fonti del passato Sulla nozione di piccolo imprenditore nel passato vi era dibattito tra la nozione qualitativa dell’art. 2083 c.c. e la nozione quantitativa dell’art. 1, vecchio tenore, e di alcune leggi speciali. L’art. 2083 sanciva un concetto qualitativo di piccolo imprenditore: l’artigiano, il piccolo commerciante e il coltivatore diretto. Poi poneva il concetto elastico, secondo la nota tecnica legislativa, della prevalenza del lavoro proprio e dei propri familiari sugli altri fattori della produzione.
La contraddizione con la nozione quantitativa Le altre disposizioni, come l’art. 1, vecchio tenore, ponevano una nozione quantitativa: - imponibile dell’imposta di ricchezza mobile; capitale investito (requisiti l’uno abrogato dalla riforma tributaria e l’altro dichiarato incostituzionale); mentre la legge sull’artigianato (l. n. 443/85) fissava requisiti numerici legati al numero degli occupati nell’impresa che contraddicevano il requisito della prevalenza del lavoro proprio e della propria famiglia, di cui all’art. 2083 c.c.
L’evoluzione giurisprudenziale La giurisprudenza innanzi alla conflittualità delle fonti, preferiva adottare il criterio qualitativo dell’art. 2083 c.c., anche se corretto da ultimo (giurisprudenza degli anni 90 in poi) con il criterio quantitativo in via interpretativa ricavato da una valutazione sul patrimonio e la redditività dell’impresa. Solo se superanti certe soglie prestabilite dai tribunali, l’imprenditore poteva dirsi fallibile.
La riforma del 2006 Con la prima riforma dovuta al d. lgs. n. 5 del 2006, senza escludere l’applicabilità del criterio qualitativo dell’art. 2083 c.c., che fu ritenuto rilevante (il legislatore usava ancora il linguaggio di piccolo imprenditore non fallibile) si introducono i concetti di : • Investimento non superiore alla somma di € 300.000,00; • Ricavi lordi – comprensivi dell’imposta – nella media degli ultimi tre anni,inferiore a € 200.000,00. Sarebbe stata sufficiente la presenza di uno dei due requisiti per escludere la fallibilità, facendosi rientrare l’imprenditore nella nozione di piccolo imprenditore non fallibile.
Segue. L’onere della prova La disposizione non chiariva a carico di chi fosse l’onere probatorio (il carattere impeditivo delle circostanze faceva pensare che fosse l’imprenditore convenuto in giudizio per la sua dichiarazione di fallimento, ad avere il relativo onere, anche per la vicinanza alla prova).
I dubbi interpretativi Oltre alla concomitanza dell’applicazione residuale dell’art. 2083 c.c. (secondo alcuni solo la mancata applicazione di questo criterio poteva consentire l’applicazione dei criteri residuali dell’art. 1) i presupposti erano tutt’altro che chiari: • Non vi era alcun riferimento temporale alla nozione di capitale investito (attuale? nella media degli ultimi tre anni?) Inoltre non era chiaro se il capitale investito fosse riferito al capitale fisso o al capitale circolante. • Dei ricavi lordi, non era chiaro se fossero ricompresi anche attività non derivanti strettamente all’impresa e se nel periodo triennale fosse o meno compresa l’annualità del deposito della domanda per la dichiarazione di fallimento.
La novella del 2007 Stante i dubbi interpretativi della novella del 2006, ma soprattutto causa una improvvisa caduta quantitativa dei fallimenti, il legislatore dovette intervenire con la novella del 2007 non utilizzando più la nozione di piccolo imprenditore, ma la nozione da noi usata di imprenditore non fallibile, escludendo alla radice dunque l’applicabilità dei criteri di cui all’art. 2083 c.c.
L’imprenditore non fallibile dell’art. 1 L’art. 1, unico applicabile, fissa tre requisiti che devono essere tutti rinvenuti nell’imprenditore non fallibile, il cui onere della prova è totalmente a carico dell’imprenditore convenuto.
Attivo patrimoniale “Avere avuto nei tre esercizi antecedenti il deposito dell’istanza… un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad € 300.000,00”. Si risolvono i nodi del passato in quanto si rimette un limite temporale e si definisce l’attivo patrimoniale come capitale fisso: richiamandosi i valori dell’attivo riportati nello stato patrimoniale, ai sensi dell’art. 2424 c.c.
Ricavo lordo “Avere realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data del deposito dell’istanza di fallimento…ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad € 200.000,00”. Si risolvono i problemi interpretativi: esclusione dell’anno di esercizio del deposito della domanda; superamento del concetto di media; ricomprensione anche di attività non tipiche dell’impresa. Il carattere lordo ricomprende l’imposta e le spese.
Debiti “Avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad € 500.000,00”. Il riferimento è al momento della domanda e riguarda anche debiti non esigibili.
I debiti esigibili al momento della domanda I debiti esigibili devono ammontare almeno a € 30.000,00 al momento della domanda, secondo l’ulteriore criterio dell’art. 15 u.c. e in tal caso l’onere della prova non è dell’imprenditore convenuto, ma del richiedente attore.
Ratio L’art. 15 si spiega per evitare che la procedura fallimentare diventi un recupero crediti.
L’imprenditore sociale escluso dal concorso L’art. 1 abroga altresì la preesistente regola su una fallibilità senza limiti delle società commerciali, in quanto definite ex legecome imprese non piccole. Il criterio poneva un’evidente disparità di trattamento e per tale ragione già ante riforma il legislatore era intervenuto per escludere dalla fallibilità le piccole società artigiane organizzate nelle forme della snc, della sas, della coop e della srl con unico socio (l. n. 133/97), ma restava fuori da una disciplina analoga la piccola società commerciale, sempre fallibile.
Il nuovo tenore dell’art. 1 L’art. 1 non contiene più oggi l’esclusione dall’annovero della piccola impresa delle società commerciali e assimila il regime dell’imprenditore persona fisica al regime dell’imprenditore sociale agli effetti della fallibilità.