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San Marino, 3 aprile 2009 PAOLO GULISANO Medico Epidemiologo – Storico della Medicina Presidente Centro aiuto alla Vita di Lecco LA MEDICINA NEL RISPETTO DELLA DIGNITA’ DELL’UOMO. “Sia il corpo dell’uomo sia le sue azioni si possono vedere. Ma dentro di lui c’è molto di più, si tratta
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San Marino, 3 aprile 2009PAOLO GULISANOMedico Epidemiologo – Storico della MedicinaPresidente Centro aiuto alla Vita di LeccoLA MEDICINA NEL RISPETTO DELLA DIGNITA’ DELL’UOMO “Sia il corpo dell’uomo sia le sue azioni si possono vedere. Ma dentro di lui c’è molto di più, si tratta di cose che nessuno vede e conosce.” (Ildegarda di Bingen, XII secolo)
Cos’è la medicina? È la scienza che studia e cura le malattie
Cos’è la malattia? Nella letteratura in lingua inglese da anni si è risolto il problema di questa ambiguità utilizzando il termine disease per la concettualizzazione della malattia da parte del medico, il termine illness per indicare l'esperienza diretta del malato, la dimensione esistenziale/soggettiva, ed il termine sickness per determinare il riconoscimento della persona malata come tale da parte del contesto sociale non medico. In italiano per malattia si intende ogni alterazione dello stato di salute.
Cosa è la salute? Per l’Organizzazione Mondiale della Salute (W.H.O. o O.M.S.) essa è “Lo stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”.
Altre definizioni di salute sono state enunciate così: 1. La salute è il silenzio degli organi. 2. La salute consiste nell’assenza delle malattie. 3. La salute è il livello di efficacia funzionale e/o metabolico di un organismo, tanto a livello micro (cellulare) come nel macro (sociale). 4. La salute è un equilibrio dinamico in continuo movimento da uno stato di salute ad un altro di malattia, dipendendo queste oscillazioni da numerosi fattori o variabili, biologici, psicologici e/o sociali, in intima e continua interazione. 5 . La salute consiste nella capacità di reagire a fattori avversi di qualsiasi tipo, senza compromettere il sistema di vita. 6.La salute è un processo, è capacità e disposizione a vivere in forma autonoma, solidale e con capacità per l’allegria e la gioia. 7. Sotto il profilo mentale, si afferma che la salute è la capacità d’amare, gioire e tollerare.
Esaminando queste definizioni, o meglio, descrizioni della salute, troviamo che procedono dalla concezione che si ha dell’uomo, cioè che presuppongono tutta un’antropologia sottostante. Da un’antropologia meccanicista materialista non ci si può aspettare altro che una definizione di salute di tipo esclusivamente biologico che si enunci in termini meramente materiali. Così, alcune di queste definizioni hanno concepito la salute soltanto come la mancanza di malattie, oppure nell’ambito esclusivo delle sensazioni corporee. Quando si abbandona questa mentalità, la salute si contempla ormai non soltanto incentrata nella malattia, ma sul malato nella sua complessità. Sono delle definizioni che includono aspetti psicologici e sociali. Tra questi, la più accettata oggi è quella dell’OMS: “ uno stato di perfetto benessere, fisico, mentale e sociale, e non soltanto l’assenza di malattie”. Questa definizione ha il pregio di oltrepassare la concezione meramente meccanicista e di prendere in considerazione, per definire la salute, non soltanto le malattie, ma anche il malato. Da questo punto di vista, supera le altre definizioni che provengono da una cornice meccanicista e si apre alle dimensioni mentali e sociali.
Purtroppo, la suddetta definizione, rinchiudendo nel concetto di salute un benessere perfetto, esce dalla realtà e non supera un mero desiderio che, d’altra parte, è irraggiungibile. Conseguentemente, questa salute non si troverebbe da nessuna parte, e tutto quello che si concepisce, avendo come base questa definizione, rischia di essere un vero fallimento. Si pensi alla frustrazione di tutta la scienza medica, di tutti gli operatori sanitari che lavorano proprio perchè i pazienti accedano alla salute; eppure, questa non si potrà mai avere, giacchè lo stato di perfetto benessere non si raggiungerà mai; anzi, la morte inevitabile del malato sarà la frustrazione più grande.
Ci sono altre definizioni che puntano piuttosto ad arrivare ad una certa armonia. Una definizione ci parla di armonizzare la salute con la malattia; un’altra asserisce che la salute è la capacità di non lasciarsi turbare dai fattori esterni negativi prorompenti nell’individuo; oppure la capacità di rimanere sempre in allegria e gioia, vivendo in forma autonoma e solidale. Queste definizioni “positive” tuttavia peccano di realismo, perché di fatto la persona malata si trova piuttosto turbata dalla malattia. Essendo realisti, l’armonia nella sua totalità non esiste in questo mondo, né nell’ambito individuale fisico o mentale, né a livello sociale. Da questo punto di vista, dalla consapevolezza che lo stato di perfetto benessere è un’utopia irraggiungibile, è più realistico cercare di arrivare a concepire sé stessi in relazione con la condizione di salute e quella di malattia; il tutto senza finzione,senza non si può parlare a chi soffre di armonia, di gioia e di allegria quando, nella realtà, la persona è schiacciata dalla malattia. Tuttavia è possibile vincere se non la malattia quantomeno la disperazione che spesso l’accompagna.
“La specifica missione che qualifica la vostra professione medica e chirurgica è costituita dal perseguimento di tre obiettivi: guarire la persona malata o almeno cercare di incidere in maniera efficace sull’evoluzione della malattia; alleviare i sintomi dolorosi che la accompagnano, soprattutto quando è in fase avanzata; prendersi cura della persona malata in tutte le sue umane aspettative. “ (Benedetto XVI, 20/10/08)
LA DIGNITA’ DELLA PERSONA MALATA “Ogni singolo paziente, anche quello inguaribile, porta con sé un valore incondizionato, una dignità da onorare, che costituisce il fondamento ineludibile di ogni agire medico. Il rispetto della dignità umana, infatti, esige il rispetto incondizionato di ogni singolo essere umano, nato o non nato, sano o malato, in qualunque condizione esso si trovi. In questa prospettiva, acquista rilevanza primaria la relazione di mutua fiducia che si instaura tra medico e paziente. Grazie a tale rapporto di fiducia il medico, ascoltando il paziente, può ricostruire la sua storia clinica e capire come egli vive la sua malattia. E’ ancora nel contesto di questa relazione che, sulla base della stima reciproca e della condivisione degli obiettivi realistici da perseguire, può essere definito il piano terapeutico: un piano che può portare ad arditi interventi salvavita oppure alla decisione di accontentarsi dei mezzi ordinari che la medicina offre.” (Benedetto XVI)
L’ALLEANZA TERAPEUTICA “Quanto il medico comunica al paziente direttamente o indirettamente, in modo verbale o non verbale, sviluppa un notevole influsso su di lui: può motivarlo, sostenerlo, mobilitarne e persino potenziarne le risorse fisiche e mentali, o, al contrario, può indebolirne e frustrarne gli sforzi e, in questo modo, ridurre la stessa efficacia dei trattamenti praticati. Ciò a cui si deve mirare è una vera alleanza terapeutica col paziente, facendo leva su quella specifica razionalità clinica che consente al medico di scorgere le modalità di comunicazione più adeguate al singolo paziente. Tale strategia comunicativa mirerà soprattutto a sostenere, pur nel rispetto della verità dei fatti, la speranza, elemento essenziale del contesto terapeutico.” (Benedetto XVI)
Nei contesti altamente tecnologizzati dell’odierna società, il paziente rischia di essere in qualche misura "cosificato". Egli si ritrova infatti dominato da regole e pratiche che sono spesso completamente estranee al suo modo di essere. In realtà quando la medicina si prende cura del prossimo, realizza un po’ di più il nostro essere a immagine di Dio, poiché Dio si prende cura dell’uomo (cf Salmo 143 v. 3: Signore, che cos’è l’uomo perché te ne curi? un figlio d’uomo perché te ne dia pensiero? E anche il Salmo 8 v. 5: Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?) Questa straordinaria missione della Medicina è inscritta nel cuore dell’uomo, come dimostra un celebre documento redatto 500 anni prima di Cristo.
GIURAMENTO di IPPOCRATETesto "classico" del Giuramento Ippocratico. (V° Secolo avanti Cristo) Giuro per Apollo medico e per Asclepio e per Igea e per Panacea e per tutti gli Dei e le Dee, chiamandoli a testimoni che adempirò secondo le mie forze e il mio giudizio questo giuramento e questo patto scritto. Terrò chi mi ha insegnato quest' arte in conto di genitore e dividerò con Lui i miei beni, e se avrà bisogno lo metterò a parte dei miei averi in cambio del debito contratto con Lui, e considerò i suoi figli come fratelli, e insegnerò loro quest'arte se vorranno apprenderla, senza richiedere compensi né patti scritti. Metterò a parte dei precetti e degli insegnamenti orali e di tutto ciò che ho appreso i miei figli del mio maestro e i discepoli che avranno sottoscritto il patto e prestato il giuramento medico e nessun altro. Scegliero' il regime per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, e mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale, e non prenderò mai un' iniziativa del genere; e neppure fornirò mai a una donna un mezzo per procurare l'aborto. Conserverò pia e pura la mia vita e la mia arte. Non opererò neppure chi soffre di mal della pietra, ma cederò il posto a chi è esperto di questa pratica. In tutte le case che visiterò entrerò per il bene dei malati, astenendomi ad ogni offesa e da ogni danno volontario, e soprattutto da atti sessuali sul corpo delle donne e degli uomini, sia liberi che schiavi. Tutto ciò ch'io vedrò e ascolterò nell'esercizio della mia professione, o anche al di fuori della della professione nei miei contatti con gli uomini, e che non dev'essere riferito ad altri, lo tacerò considerando la cosa segreta. Se adempirò a questo giuramento e non lo tradirò, possa io godere dei frutti della vita e dell' arte, stimato in perpetuo da tutti gli uomini; se lo trasgredirò e spergiurerò, possa toccarmi tutto il contrario.
Possiamo dire che il desiderio di ogni religione è che la divinità ci dia la salute. Questa salute si perde o per cause naturali degli eventi cosmici, oppure per la cattiva storia degli uomini, e si può riconquistarla quando culturalmente si dominano queste cause naturali, oppure gli uomini si liberano delle cattive azioni compiute. Tutto è diverso nella concezione cristiana della salute La concezione cristiana di salute è una concezione olistica che prende il tutto della persona umana, in tutte le sue dimensioni, presenti e future Tanto è così che la fine desiderata da ogni cristiano si chiama appunto salute eterna. Già nell’Antico Testamento appare il concetto di salute come: “fare uno spazio”, come “liberarsi dal nemico”, come arrivare alla vittoria”, come “aiutare”, come “guarire”, come “salvare”, e colui che dà la salute è il Signore. Egli è il rifugio contro le minacce alla salute, contro i nemici che possono togliere la salute. Egli è il Signore della vita e della morte, dona la vita e libera dalla morte.
Nel Nuovo Testamento la salute è data dal Salvatore. Tutta l’opera di Cristo si concepisce come salute, Egli presenta se stesso come la salute, e Colui che ci libera da tutto quello che avversa alla salute. La salute è il suo Regno. Non in altra forma s’interpretano i miracoli di guarigione compiuti da Gesù che, nonostante restituiscano la salute temporale, s’indirizzano alla fine come ad un annuncio della salute definitiva, proprio quello che il Salvatore ci viene a portare. Dobbiamo insistere che interessi la salute temporale, ma che questa non si distacca dalla salute intera, anzi, la salute della quale ci parla il Nuovo Testamento non è soltanto qualcosa di spirituale, ma è totale, che arriva anche al rinnovamento totale del cosmos
Fin dai primi secoli, i cristiani hanno sentito come loro dovere primario la cura dei malati e quando, dopo la svolta di Costantino (dall’editto del 313 d.C. la religione cristiana non è più perseguitata), nel secolo IV sorgono i primi ospedali, questi sono espressione di assistenza secondo gli insegnamenti di Gesù. I cristiani, cioè, non si dedicano alla ricerca, non fanno scoperte scientifiche, apprendono dalla medicina dei greci e da quella antica tutto quello che allora si sapeva per curare le malattie, ma non considerano più il malato qualcuno da emarginare ed evitare perché immondo e punito da Dio, ma un fratello da assistere. Successivamente la medicina cristiana viene coltivata e praticata nei monasteri, soprattutto benedettini. E’ nel medioevo che la cura dei malati viene annoverata tra le "artes", diventa cioè una professione. Se è vero che Historia magistra vitae, ciò dovrebbe valere particolarmente per la storia della Medicina.
Nel corso della sua storia, l’umanità ha dovuto affrontare più volte la minaccia delle malattie,delle epidemie, delle stragi causate da un responsabile microscopico e sconosciuto, e la nostra memoria ancestrale conserva forse ancora tracce del terrore antico delle pestilenze. Dalle citazioni della Bibbia alle descrizioni di Tucidide e Lucrezio, dalla “Morte nera” medievale fino alla peste del ‘600, per giungere infine al ‘900 con le speranze suscitate da una scienza medica che sembrava destinata a trionfare su virus e batteri grazie a farmaci e vaccini, ma che si ritrova oggi ad affrontare nuovi ed inquietanti pericoli, la storia della Medicina ci fornisce preziosi insegnamenti
Il 1348, l’anno in cui esplose la spaventosa pandemia di Peste chiamata Morte nera, che uccise un terzo della popolazione europea, secondo molti studiosi rappresentò l’anno del concepimento dell’uomo dell’età moderna: fu la peste a mettere in moto il cambiamento d’epoca che segnò la fine del Medioevo ed aprì le porte al Rinascimento.
Questo cambiamento tuttavia comportò non solo progressi tecnici, ma anche un regresso nel pensiero, a scapito di quella ragione con cui il Medioevo aveva cercato di mettere ordine nel caos. Ci fu un’irruzione di irrazionalità, un ritorno di fantasmi psichici che appartenevano ad antiche culture e ad un retaggio pre-cristiano. Tra il Medioevo e il rinascimento, in un periodo di circa cento anni, si verifica uno stravolgimento del pensiero attinente al rapporto tra i viventi e i morti, al morire e alla precarietà della vita, assumendo connotati destinati a influenzare a lungo le età successive.
La morte segna la conclusione del percorso terreno, ma la dottrina cristiana aveva da sempre affermato che il credente non deve essere preoccupato per la sorte del corpo dopo la sua dipartita, poiché più importante è la sua salvezza spirituale.Per gli uomini della fine del Medioevo, per le generazioni seguenti la Morte Nera, invece l'accresciuto attaccamento ai beni terreni, alla fama, al successo e al potere, è tale da non riuscire a tollerare il pensiero di un distacco forzato dalle gioie dell'immanente.La conseguenza di questo fenomeno è un acceso incitamento al godere della vita terrena, la pratica del motto "carpe diem", uno sconfinamento nel vizio. Si intravedono davvero i germi della modernità, dove la morte verrà messa al bando, scongiurata, esorcizzata, e perfino i cimiteri allontanati dalla vista, cacciati dai paesi per decreto napoleonico.
I comportamenti "edonistici" descritti dal Boccaccio nel Decamerone e da altri autori acquistano, sullo sfondo di questo processo, una valenza anticipatrice. Ridere, scherzare e festeggiare in compagnia, poiché, come si sarebbe scritto qualche tempo dopo nella stessa Firenze, "di doman non c’è certezza”. La paura stessa della morte era vista come l’inizio della malattia.
C’è un cambiamento non solo culturale, ma anche psicologico, che va ad incidere profondamente sull’immaginario collettivo. L’atteggiamento nei confronti della morte, durante tutto il Medioevo, era stato influenzato dalla fede nella risurrezione, una fede che generava speranza, e soltanto con l'avvento dell'età moderna fanno la loro prima apparizione tutte le raffigurazioni culturali della morte: l'immagine dell'oscura creatura armata di una lunga falce, lo scheletro umano, la Parca che recide il filo della vita, l'ospite indesiderato sulla scena della vita. Solo nell'autunno del medioevo la morte compare con tutto il suo pathos: la morte come cavaliere, falciatore, cacciatore, suonatore e danzatore della macabra danza; come cavaliere dell'Apocalisse, scheletro con falce e clessidra, megera dalle ali di pipistrello e spettro del cimitero. Solo a questo punto l'arte di vivere si converte in arte di morire e il morire diventa un motivo stilistico della famosa ars moriendi barocca. Il rapporto con la morte rimanda alla concezione dell'esistenza terrena, ma soprattutto a quella della vita dopo la morte, dell'aldilà, e con la fine del medioevo, l' "aldilà" si trasforma sempre più da luogo di beatitudine in un luogo terrificante, che non ha più alcun conforto da offrire .
Per tutto il Medioevo la medicina era stata l’arte del prendersi cura. Non c’era la pretesa di vincere la morte, di darle scacco nella grande partita, ma c’era stata la realistica e concreta presa in carico dell’uomo e dei suoi bisogni. Le malattie, in particolari le grandi epidemie infettive, avevano rivelato una potenza terrificante, soverchiante le povere risorse umane. Era realistico dunque affermare che la medicina non può sempre guarire, ma può sempre curare, farsi carico dei dolori, delle pene fisiche e psichiche dei malati e dei loro cari. La medicina medievale, messa a dura prova dalla grande pandemia, non ne uscì sconfitta, ma vide la nascita di una nuova visione della scienza medica che si sviluppava lontano dai centri che per secoli le erano stati propri, ossia gli ospedali, i conventi e le università. In particolare presso quest’ultime, che erano state un altro prodotto del genio cristiano medioevale, erano sorte fin dall’inizio facoltà di medicina prestigiose, a Bologna, a Padova, a Montpellier, a Oxford.
A partire dal Rinascimento le facoltà di Medicina si vedono affiancate da istituti di formazione che si separano dal resto del sapere umanistico cui in precedenza erano collegate. In questo fece da paradigma l’Inghilterra, dove nacquero accademie mediche, collegi specializzati che portarono all’elaborazione di una scienza medica autonoma dal resto del sapere e quasi autoreferenziale, recidendo sempre più i legami con la dimensione religiosa che la medicina aveva sempre avuto. In età medievale c’erano state intorno al problema fondamentale della malattia e della salute, oltre ai contributi scientifici di personaggi come Ildegarda di Bingen,anche delle elaborazioni filosofiche e teologiche prodotte dalla grande Scolastica, certo differenti, ma non meno interessanti rispetto a quelle artistiche delle danze macabre. Accanto quindi alle rappresentazioni letterarie e a quelle delle arti figurative, non si possono ignorare quelle provenienti dal pensiero, che tenta di concettualizzare l’immane potenza del negativo, per smussarne in qualche modo il pungiglione.
Così, se da una parte si celebravano i trionfi della morte, per altri versanti la medicina andava progressivamente allontanandosi dalla pratica popolare e dalla gente stessa, per ritirarsi nei collegi e nei laboratori, certamente facendo notevoli progressi sul piano meramente tecnico, ma anche perdendo di vista la sua finalità comunitaria e sociale. L’assistenza di base, quella di cui necessitavano le popolazioni non abbienti, venne proseguita dagli ordini religiosi, che proseguirono nella loro attività di accoglienza e cura negli ospedali. Sopravvissero come patrimonio comune le misure igieniche e preventive, anche se questa branca della medicina perse di importanza. Sopravvisse anche un grande fervore religioso, che al di là di tutte le leggende nere sulle visioni apocalittiche scaturite dal grande massacro pandemico, costellate di monaci flagellanti che predicavano la fine del mondo, non era mai venuto meno. Era una religiosità che aiutava le persone comuni a far fronte alla malattia, alla sofferenza.
La storia della medicina, privata di quei pregiudizi ideologici astiosi con i quali viene spesso presentata la medicina antica e medievale, a cui si contrappone la scienza dell’epoca illuminista e positivista, ci consente di ripercorrere il lungo cammino che l’uomo ha fatto nei suoi tentativi di dare risposta al problema della malattia e della sofferenza. Se la medicina è un’arte e non un semplice mestiere lo è proprio perché è chiamata, più che a risolvere, ad assestare creativamente equilibri divenuti precari, come afferma un adagio francese del XV secolo: “curare qualche volta, alleviare spesso, confortare sempre.” La società contemporanea ha cercato di escludere l’idea della morte, così come la paura della vecchiaia, in quanto sono vissute come aspetti negativi, ed implicano una totale alienazione dalla felicità e dall’appagamento che sono, invece, prerogative proprie di una persona giovane
Si è arrivati all'utopia della salute assoluta: un'ideologia che promette una condizione in cui i confini fra male e malattia, salute e salvezza, guarigione e redenzione diventano sempre più esigui. L'illusione dell'eliminazione di ogni malattia e della sofferenza, non solo del singolo individuo ma anche di tutto il genere umano. Una utopia che contraddice l'esperienza quotidiana del medico, ma anche di ogni uomo, che è quella della fragilità dell'esistenza umana: si possono trattare singole malattie, lenire sofferenze, ma malattia e sofferenza non possono essere eliminati completamente Dalle radici profonde della Medicina intesa come prendersi cura prendono vita le prospettive di un impegno per il futuro, con l’auspicio che la prima e forse unica garanzia che si deve chiedere alla società e alla medicina futura sia che non sia tolta la possibilità di amare la verità.
Qual è infatti il compito della Medicina? farsi carico, con piena consapevolezza, della sofferenza che incontra, della malattia e della morte, in tutte le circostanze del suo lavoro. Scriveva il grande filosofo e teologo Romano Guardini: "Quel che ferisce è ciò che nella vita vi è di ineluttabile: la sofferenza diffusa ovunque, la sofferenza degli inermi e dei deboli; la sofferenza degli animali, della creatura muta…il fatto che non vi si può cambiare nulla, che non si può toglierla di mezzo. Così è e così sarà. E qui sta la gravità della cosa". (R. Guardini, Ritratto della malinconia)
Il compito del curare ha ogni giorno a che fare con il singolo segnato dalla malattia nel suo corpo e nel suo spirito. Attraverso il ricorso a tutte le scienze e le tecniche di cui- con genialità- la moderna medicina ha saputo appropriarsi, il lavoro quotidiano in questo ambito mette, anzitutto, in campo il rapporto di un io con un tu. Poche professioni si trovano al centro della realtà e al cuore dell'io, come quelle legate al mondo della medicina, e la sua ragion d'essere è dunque il paziente, con la sua domanda di salute. Cosa c'è al cuore di questa domanda, come interpretarla? Senza raccogliere per intero la domanda del paziente non si può porre un atto terapeutico adeguato, e ciò con tutte le conseguenze relative; ciò era ben noto nella tradizione in cui nacque e si sviluppò l'Hospitale cristiano, dove la pratica terapeutica era il risultato di una fusione di scienza e saggezza.
E’ lecito chiedersi se questo valga anche oggi, se sia cioè possibile curare con una simile prospettiva, e la risposta è un importante elemento di riflessione, specialmente alla luce di recenti episodi in cui la medicina sperimentale sembra arrogarsi diritti e pretese assoluti sulla vita e sulla morte, che si vorrebbe definitivamente sconfitta, e che è sentita come un incidente di percorso che si può e si deve correggere. Questa deriva utopica è nello stesso tempo madre e figlia dell'ideologia salutista oggi dominante, e che trova la sua antitesi nel ruolo del medico, un ruolo importante, fondamentale, come descritto dal grande scrittore Camus:
" Al medico spetta il compito più difficile di tutti: riordinare ogni cosa dalla sua origine, così da plasmare una società vivente all'interno di una società morente".