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Introduzione allo Humanistic management Marco Minghetti Lezione 14 Pavia Ottobre 2007. La paranoia del program manager.
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Introduzione alloHumanistic managementMarco Minghetti Lezione 14PaviaOttobre 2007
La paranoia del program manager Valène impiegò degli anni per capire cosa cercasse esattamente Bartlebooth. La prima volta che andò a trovarlo, nel gennaio millenovecentocinque, Bartlebooth gli disse solo che voleva imparare a fondo l’arte dell’acquarello e che desiderava prendere una lezione al giorno per dieci anni. La frequenza e la durata di quei corsi privati fecero sussultare Valène che si trovava al settimo cielo quando aveva racimolato diciotto lezioni in un trimestre. Ma Bartlebooth pareva deciso a dedicare a quell’apprendistato il tempo che ci voleva e non aveva preoccupazioni finanziarie. Del resto, cinquant’anni dopo, Valène si diceva a volte che in fin dei conti questi dieci anni non erano stati così superflui, vista la completa mancanza di disposizioni naturali di cui Bartlebooth aveva subito dato prova.
Bartlebooth e Valène non parlavano quasi mai. Anche se avevano esattamente la stessa età, Bartlebooth non sembrava assolutamente curioso di Valène, e Valène, pur se incuriosito dell’eccentricità del personaggio, stentava parecchio a interrogarlo direttamente. Pure, a più riprese, gli domandò perché si ostinasse tanto a voler imparare l’arte dell’acquarello. “E perché no?” rispondeva in genere Bartlebooth. “Perché” replicò un giorno Valène “al posto suo, la maggior parte dei miei allievi si sarebbe scoraggiata da parecchio tempo.” “Sono poi così asino?” domandò Bartlebooth. “In dieci anni, s’impara qualsiasi cosa, e lei lo farà, ma perché mai vuole impadronirsi a fondo di un’arte che, spontaneamente, le è totalmente indifferente?” “Non sono gli acquarelli che mi interessano, ma quello che voglio farne.” “E cosa vuole farne?” “Dei puzzle, naturalmente”, rispose Bartlebooth senza la minima esitazione.
Quel giorno, Valène cominciò a farsi un’idea più precisa di quanto aveva in animo Bartlebooth. Ma fu solo più tardi che fu in grado di valutare quella che era l’ambizione dell’inglese in tutta la sua estensione. Immaginiamo un uomo la cui fortuna fosse pari solo all’indifferenza verso quello che generalmente la fortuna permette, e il cui desiderio fosse, con molto più orgoglio, cogliere, descrivere, esaurire, non la totalità del mondo – progetto che il suo stesso enunciato è sufficiente a mandare in rovina – ma un frammento costituito di quest’ultimo: di fronte all’inestricabile incoerenza del mondo, si tratterà allora di portare fino in fondo un programma, ristretto, sì, ma intero, intatto, irriducibile. Bartlebooth, in altre parole, decise un giorno di organizzare tutta sua vita intorno ad un progetto unico la cui necessità arbitraria non avrebbe avuto uno scopo diverso da sé.
L’idea gli venne quando aveva vent’anni. Fu sulle prime un’idea vaga, una domanda che si poneva: cosa fare?, una risposta che si abbozzava: niente. Il denaro, il potere, l’arte, le donne, non interessavano Bartlebooth. Come neanche la scienza, né il gioco. Tutt’al più le cravatte e i cavalli o, se preferite, imprecisa ma palpitante sotto queste futili apparenze (anche se migliaia di persone ordinano efficacemente la loro vita intorno alle cravatte e in un numero ancora superiore intorno ai cavalli della domenica), una certa idea di perfezione. Che si sviluppò nei mesi, negli anni a seguire, articolandosi intorno a tre principi direttivi: Il primo fu di ordine morale: non si sarebbe trattato di un’impresa o di un record, né di una cima da scalare o di un abisso marino da raggiungere. Quello che Bartlebooth avrebbe fatto non sarebbe stato né spettacolare né eroico; sarebbe stato semplicemente, discretamente, un progetto, difficile certo, ma non irrealizzabile, controllato da cima a fondo e che, in compenso, avrebbe dominato, in ogni suo particolare, la vita di colui che vi si sarebbe dedicato.
Il secondo fu di ordine logico: senza alcun ricorso al caso, l’iniziativa avrebbe fatto funzionare tempo e spazio come coordinate astratte in cui si sarebbero iscritti con una ricorrenza ineluttabile degli avvenimenti identici inesorabilmente prodotti in una certa data, in un certo luogo. Il terzo, infine, fu di ordine estetico: inutile, essendo proprio la gratuità l’unica garanzia del rigore, il progetto si sarebbe distrutto da solo nel corso stesso del suo divenire; la sua perfezione sarebbe stata circolare: una successione di avvenimenti che, concatenandosi, si sarebbe annullata: partito da zero, Bartlebooth allo zero sarebbe tornato, attraverso trasformazioni precise di oggetti finiti.
Così si organizzò in concreto un programma che possiamo in succinto enunciare così: Per dieci anni, dal 1925 al 1935, Bartlebooth si sarebbe iniziato all’arte dell’acquarello. Per vent’anni, dal 1935 al 1955, avrebbe viaggiato in lungo e in largo, dipingendo, in ragione di un acquarello ogni quindici giorni, cinquecento marine dello stesso formato (65x50, o 50x64 standard) raffiguranti porti di mare. Appena finita, ciascuna di queste marine sarebbe stata spedita a un artigiano specializzato (Gaspard Winckler) che incollandola su un foglio di legno sottile l’avrebbe tagliata in un puzzle di settecentocinquanta pezzi.
Per vent’anni, dal 1955 al 1975, Bartlebooth, tornato in Francia, avrebbe ricomposto, nell’ordine, i puzzle così preparati, in ragione, di nuovo, di un puzzle ogni quindici giorni. Via via che i puzzle sarebbero stati ricostruiti, le marine sarebbero state ristrutturate in modo da poterle scollare dal loro supporto, trasportate nel luogo stesso in cui – vent’anni prima – erano state dipinte, e immerse in una soluzione solvente da cui non sarebbe riemerso che un foglio di carta Whatman, vergine e intatto. Così, non sarebbe rimasta traccia alcuna di quella operazione che, per cinquant’anni, aveva completamente mobilitato il suo autore. (da Georges Perec, La vita istruzioni per l’uso, BUR, pp. 126-129)
Platone nel Politico così descrive lo iato esistente fra la “realtà” e la sua rappresentazione simbolica: “E’ impossibile, per ciò che è del tutto semplice, adattarsi a ciò che non è mai semplice”. E qui cadono gli attuali epigoni del taylorismo: essi non sanno sciogliere paradossi e ambiguità derivanti dall’incertezza, dal cambiamento continuo, dallo spazio esistente fra legge astratta e realtà concreta di quel “mondo vitale” che è l’azienda. Aggrappati ai manuali organizzativi, alle procedure, agli ordini di servizio, finiscono per cadere preda della mania di Bartlebooth, che sceglie “di fronte all’inestricabile incoerenza del mondo [...], di portare fino in fondo un programma, ristretto, sì, ma intero, intatto, irriducibile [...], di organizzare tutta la sua vita intorno a un progetto unico la cui necessità arbitraria non avrebbe avuto uno scopo diverso da sé”.
Come accade a molti manager, il delirio di onnipotenza legato all’illusione di potere controllare tutto, o anche una parte del tutto – un progetto, un programma, un insieme di attività magari finalizzate al perseguimento di obiettivi assolutamente inessenziali, come quelli di Bartlebooth - si dimostra tale. L’ultimo capitolo del libro ce lo mostra morto: tra le mani ha la sagoma di un pezzo a forma di W, mentre il vuoto dell’unico pezzo mancante del suo quattrocentotrentanovesimo puzzle (che “raffigura un piccolo porto dei Dardanelli vicino alla foce di quel fiume che gli antichi chiamavano Maiandros, Meandro”) disegna la forma di una X, segno di un’impossibile perfezione.
Ma Bartlebooth è sconfitto non solo perché muore prima di ricomporre l'ultimo puzzle: il suo proposito è incrinato dall'irruzione della realtà, sotto forma di mille imprevisti che impediscono il compimento del suo programma. Il disegno astratto della regola viene corrotto dal contatto con le dinamiche del reale, evidenziando l’inconciliabilità, conclude Perec, “tra la vita e le istruzioni per l'uso, tra la regola del gioco che ci fissiamo e il parossismo della vita reale che sommerge, che distrugge continuamente questo lavoro di riordinamento”.
Tutto Tutto – una parola sfrontata e gonfia di boria. Andrebbe scritta tra virgolette. Finge di non tralasciare nulla, di concentrare, includere, contenere e avere. E invece è soltanto un brandello di bufera
Gli scientific manager sono incapaci di andare oltre la gestione, spesso poco efficiente, dell’emergenza. La ragione di questo fallimento è semplice. Va ricercata nel difetto d’origine dello scientific management: la persistente ricerca di una formula in grado di dominare integralmente la complessità della vita e quindi delle imprese, mentre la realtà non consente più di essere regolata da un paradigma ordinatore dalla validità assoluta.
Elenchi “Era seduto al tavolo intento a guardare le etichette degli alberghi: Hotel Hilo Honolulu, Villa Carmona Granada, Hotel Theba Algesiras, Hotel Peninsula Gibilterra, Hotel Nazaret Galilea, Hotel Cosmo Londra, Transatlantico Ile-de-France, Hotel Regis, Hotel Canada Mexico DF, Hotel Astor New York, Town House Los Angeles, Transatlantico Pennsylvania, Hotel Mirador Acapulco, la Campana Mexicana de Aviacion, eccetera. Aveva voglia, spiegava, di classificare quelle etichette, ma era molto difficile: ovviamente, c’era l’ordine cronologico, ma lo trovava misero, ancor più misero dell’ordine alfabetico. Aveva tentato per continenti, poi per nazioni, ma la cosa non lo soddisfaceva.
Elenchi Quello che avrebbe voluto era che ogni etichetta fosse collegata alla successiva, ma ogni volta per un motivo diverso: per esempio, avrebbero potuto avere un particolare comune, una montagna o un vulcano, una baia illuminata, un certo fiore particolare, una stessa orlatura rossa e oro, la faccia sorridente di un groom, oppure lo stesso formato, la stessa grafia, due slogan simili (“La perla dell’Oceano”, “Il diamante della costa”), oppure una relazione basata non su una somiglianza ma su un contrasto, o su un’associazione fragile, quasi arbitraria: un paesino sulle sponde di un lago italiano seguito dai grattacieli di Manhattan, degli sciatori che precedono dei nuotatori, fuochi artificiali e un pranzo a lume di candela, ferrovia e aereo, tavolo da baccarà e chemin de fer, eccetera.“ Geoges Perec, La vita istruzioni per l’uso
Elenchi 5 “Ogni testo, talvolta, può costituire l’argomento centrale, talaltra solamente il pretesto per abbandonarsi a fuggevoli associazioni di idee”. Wisława Szymborska, Letture facoltative, Prefazione “Alcuni mi hanno detto che non avevano voluto seguire né il primo né il secondo modo di lettura, e con procedimenti a volte quasi magici – tirando i dadi, per esempio, o estraendo numeri da un cappello – avevano letto il libro seguendo un ordine totalmente diverso”. Julio Cortazar, Il gioco del mondo, Postfazione
Alla ricerca della propria singolarità Da millenni la poesia accompagna e sostiene l’evoluzione dell’uomo, grazie alla sua capacità di dare senso ad ogni momento dell’esistenza. “La poesia”, ha affermato Szymborska, “come del resto tutta la letteratura, trae le sue forze vitali dal mondo in cui viviamo, da vicissitudini davvero vissute, da esperienze davvero sofferte e pensieri autonomamente pensati. Il mondo deve di continuo essere descritto daccapo, perché dopotutto non è mai lo stesso di una volta, non foss’altro perché un tempo noi non c’eravamo”.
Il modello del manager liquido di successo è, secondo Bauman, il Bill Gates descritto da Richard Sennett: una persona che si trova “a proprio agio nel disordine” e sa muoversi “all’interno di una rete di possibilità”. Perciò il manager oggi più che mai deve sapere innanzitutto “conoscere sé stesso”, il proprio io fatto di “chiaroscuri e semitoni/…capricci, ornamenti e dettagli,/ stupide eccezioni,/ segni dimenticati,/ innumerevoli varianti del grigio,/ gioco per il gioco/ e tu, lacrima del riso” (Nell’arca): le proprie specifiche, uniche ed irripetibili possibilità, appunto.
POSSIBILITA’ Preferisco il cinema. Preferisco i gatti. Preferisco le querce sul fiume Warta. Preferisco Dickens a Dostoevskij. Preferisco me che vuol bene alla gente a me che ama l'umanità. Preferisco avere sottomano ago e filo. Preferisco il colore verde. Preferisco non affermare che l’intelletto ha colpa di tutto. Preferisco le eccezioni. Preferisco uscire prima. Preferisco parlare d'altro coi medici. Preferisco le vecchie illustrazioni a tratteggio. Preferisco il ridicolo di scrivere poesie al ridicolo di non scriverne. Preferisco in amore gli anniversari non tondi, da festeggiare ogni giorno. .
Preferisco i moralisti, che non mi promettono nulla. Preferisco una bontà avveduta a una credulona Preferisco una terra in borghese. Preferisco i paesi conquistati a quelli conquistatori. Preferisco avere delle riserve. Preferisco l’inferno del caos all’inferno dell’ordine. Preferisco le pagine dei Grimm alle prime pagine. Preferisco foglie senza fiori che fiori senza foglie. Preferisco i cani con la coda non tagliata. Preferisco gli occhi chiari perché io li ho scuri. Preferisco molte cose che qui non ho menzionato a molte pure qui non menzionate. Preferisco gli zeri alla rinfusa che non allineati in una cifra. Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale. Preferisco toccar ferro. Preferisco non chiedere per quanto ancora e quando. Preferisco considerare persino la possibilità che l'essere abbia una sua ragione.
Paura Paura di vedere la macchina della polizia fermarsi davanti a casa. Paura di addormentarsi la notte. Paura di non addormentarsi. Paura del ritorno del passato. Paura del presente che fugge. Paura del telefono che squilla nel cuore della notte. Paura delle tempeste elettriche. Paura della signora delle pulizie con un neo sul viso! Paura dei cani che mi hanno detto che non mordono. Paura dell’ansia! Paura di dover identificare il cadavere di un amico. Paura di finire i soldi. Paura di averne troppi, anche se a questo non ci crederanno mai. Paura dei risultati dei test psicologici. Paura di essere in ritardo e paura di arrivare prima degli altri.
Paura della calligrafia dei miei figli sulle buste. Paura che muoiano prima di me e che mi sentirò in colpa. Paura di dover vivere con mia madre anziana, anziano anch’io. Paura della confusione. Paura che questo giorno finisca su una brutta nota. Paura di svegliarmi e scoprire che te ne sei andata. Paura di non amare e paura di non amare abbastanza. Paura che quel che amo risulterà letale per quelli che amo. Paura della morte. Paura di vivere troppo. Paura della morte. L’ho già detta. Raymond Carver (vedi anche La mia macchina)
Elenchi 1 • “Quando leggiamo e commentiamo l’Iliade – spiega Alessandro Baricco in Balene e sogni – ci accorgiamo che la descrizione dello scudo di Achille serve anche a tramandare di padre in figlio alcune informazioni certe, di cui si è avuta esperienza. Quale è la pelle migliore che si deve scegliere per costruire uno scudo robusto, per esempio”. Vedi Iliade, Divina Commedia e Moby Dick. • Ma se, originariamente, l’elenco era un modo di catalogare la realtà con l’obiettivo di dominarla e di trasmetterne le “istruzioni per l’uso”, quelli di molti scrittori contemporanei denunciano l’impossibilità di questa operazione.
Elenchi 2 • Altri esempi: basta pensare all’“elencazione elittica” di Montale, che ha un precedente ironico-crepuscolare in Gozzano, ma anche agli irresistibili anticlimax di Campanile o, se si preferisce qualcosa di più “serio”, all’accumulo caotico frequente nelle poesie di Whitman e nei monologhi interiori di Joyce (“Cos’è che vola? Rondine? Pipistrello probabilmente. Mi piglia per un albero, è così cieco. Gli uccelli non hanno odorato? Metempsicosi. Si credeva che uno potesse trasformarsi in albero per il dolore. Salice piangente. Pip. Eccola là. Bestiolina buffa. Chissà dove vive. Lassù sul campanile”, Ulisse). ne le “istruzioni per l’uso”, quelli di molti scrittori contemporanei denunciano l’impossibilità di questa operazione.
Italo Calvino ha combattuto contro l’idea di un romanzo-enciclopedia che cerchi di chiudere lo scibile in un ordine esauriente e totalizzante come la Divina Commedia, dove «convergono una multiforme ricchezza linguistica e l’applicazione d’un pensiero sistematico e unitario». Al contrario, egli sperimenta diverse variazioni letterarie (da Il castello dei destini incrociati a Se una notte d’inverno un viaggiatore) basate sull’«idea d’una enciclopedia aperta, aggettivo che certamente contraddice il sostantivo enciclopedia, nato etimologicamente dalla pretesa di esaurire la conoscenza del mondo rinchiudendola in un circolo. Oggi – sostiene – non è più pensabile una totalità che non sia potenziale, congetturale, plurima». Il modello del romanzo-enciclopedia di Calvino si ispira così, da un lato, al concetto della biblioteca infinita e pluricentrica, che Borges rappresenta ne La Biblioteca di Babele, nonché alla “rete dei possibili” del racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano, dall’altro alla letteratura combinatoria di Raymond Queneau e Georges Perec.
Elenchi 3 • I due “usi” della tecnica dell’enumerazione, “caotica” vs. “ordinata”, si collegano alla diatriba fra Parmenide ed Eraclito, ieri, e fra l’Enciclopedia Britannica e Wikipedia, oggi: due modi opposti di catalogare la realtà, di descriverla, che si fondano su due antitetiche visioni “metafisiche” della sua più intima essenza - che a loro volta determinano due modalità differenti di gestire politicamente la società: quella scientifica e quella umanistica
Elenchi 4 • Elenco: L’elenco delle domande è lungo tocca questioni più o meno importanti … Cos’era reale e cosa sembrava esserlo appena ….. Di cosa scriveranno l’indomani i giornali … Perché ho preso per buone cose cattive e cosa mi occorre per non sbagliarmi più?
Come Amleto (e ancora prima Platone) Szymborska talvolta sembra inclinare all’idea che il mondo sia una prigione, fatta di celle, segrete e cunicoli. Che la libertà consista in fondo nello scegliere in quale carcere accomodarsi. Per sopramercato, non l’abbandona mai, sia pure senza esagerare, il pensiero della morte come passaggio verso il Nulla. Anche se non rinuncia a considerare la possibilità/ che l’essere abbia una sua ragione”, è difficile capire quale è la giustificazione o il senso dell’esistenza individuale.
Just be yourself, è la allegra soluzione dei Morcheeba. Mica facile. Anche perché definire la propria identità è una operazione ulteriormente complicata dall’eccesso della figura contemporanea dell’ego, ormai divenuta straripante, abnorme, incontenibile. Una dimensione dell’Io introdotta nella cultura occidentale, secondo Claudio Magris, da Il Sosia di Dostoevskij: fino ad allora, con Chamisso, Stevenson, Poe e altri si era intuita la dimensione del “doppio”, che qui per la prima volta diventa plurimo. “È quell’uomo del sottosuolo in cui Nietzsche vedeva la controfigura del suo «oltre-uomo», di un soggetto plurale, più folla che individuo, una «anarchia di atomi», una pluralità di persone in una” e a cui Musil darà definitivamente patente di cittadinanza nel mondo, intuendo l’avvento di un tipo umano che, desiderando sperimentare simultaneamente tutte le possibili “qualità” dell’esistenza, finisce per non averne nessuna.
Oggi più che mai, infatti, le persone vorrebbero vivere non più una sola vita, ma tante vite insieme. Si vive in una condizione di endemica instabilità: l’identità è frammentata in appartenenze diverse, spesso sovrapposte, talvolta contraddittorie, dalla consistenza sempre più onirica (We are such staff the dreams are made off, intuiva Shakespeare). L’identità è come un labirinto in cui bisogna orientarsi: o, meglio, che occorre continuamente ri-costruire scegliendo tra diverse alternative (tra Dickens e Dostoevskij, tra foglie senza fiori e fiori senza foglie, tra compleanni e non-compleanni…: la vita è questione di scelte fra possibilità diverse o antitetiche, opina Szymborska), che però meriterebbero tutte di essere perseguite, senza che l’una escluda l’altra.
Per uscire dal dilemma non resta che porsi incessantemente il problema della propria originalità costitutiva: Perché mai a tal punto singolare?/Questa e non quella? E qui che ci sto a fare? Di martedì? In una casa e non in un nido? (Stupore: altro esempio di come Szymborska fa propria la tecnica dell’enumerazione).
Discorso all’ufficio oggetti smarriti: Ho perso qualche dea per via dal Sud al Nord,e anche molti dèi per via dall'Est all'Ovest. Mi si è spenta per sempre qualche stella, svanita. Mi è sprofondata nel mare qualche isola, e un'altra. Non so neanche dove mai ho lasciato gli artigli,chi gira nella mia pelliccia, chi abita il mio guscio. Mi morirono i fratelli quando strisciai a riva e solo un ossicino festeggia in me la ricorrenza. Non stavo nella pelle, sprecavo vertebre e gambe, me ne uscivo di senno più e più volte.Da tempo ho chiuso su tutto ciò il mio terzo occhio,ci ho messo una pinna sopra, ho scrollato le fronde….. Mi stupisco io stessa del poco di me che è restato: una persona singola, per ora di genere umano, che ha perso solo l’ombrello ieri sul treno.