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Proclamando il testo biblico nel contesto comunitario di un’assemblea liturgica, la chiesa consegna ai credenti la Scrittura riordinata a partire dalla sua logica di costruzione interna: il mistero di Cristo, il mistero pasquale di Cristo, vero criterio ermeneutico dell’intera Scrittura. .
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Proclamando il testo biblico nel contesto comunitario di un’assemblea liturgica, la chiesa consegna ai credenti la Scrittura riordinata a partire dalla sua logica di costruzione interna: il mistero di Cristo, il mistero pasquale di Cristo, vero criterio ermeneutico dell’intera Scrittura.
La Parola di Dio emergerà allora dalla relazione tra le letture bibliche; dalla sinergia tra letture bibliche e contesto liturgico celebrativo; dall’accostamento delle letture scelte per una data festività; dall’assegnazione di una certa pericope a una festa particolare o a un preciso contesto celebrativo: tutti questi elementi concorrono a quella «manifestazione della verità» (2Cor4,2) che consiste nella presenza di Cristo, vero cuore delle Scritture e della liturgia.
Si comprende dunque l’apoftegma di Gerolamo secondo cui «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo»8 e anche che la celebrazione del mistero di Cristo è celebrazione della Scrittura. 8. citato in DV 25 e OLM 5, nota 14
L’omelia Momento particolarmente importante nel passaggio del testo a parola vivente è l’omelia. La sua struttura fondamentale è sintetizzata nelle parole di Gesù nella sinagoga di Cafarnao: «Oggi si è compiuta questa Scrittura nei vostri orecchi» (Lc 4,21, letteralmente). La Scrittura proclamata nell’oggi a un destinatario preciso: l’assemblea radunata (l’omelia è sempre parola «rivolta a»). «Parte dell’azione liturgica»9, 9. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., n. 52.
l’omelia adempie i compiti apostolico, catechetico e mistagogico che conducono i fedeli a passare dall’ascolto della Parola alla contemplazione della presenza di Cristo nella storia della salvezza e nell’oggi dell’assemblea.
Un’omelia adeguata, salda, Scrittura e sacramento nell’unico atto di culto10che si pone a servizio del passaggio del Signore in mezzo al suo popolo. La presenza di una vera omelia «significa che si verifica un po’ di pentecoste, poiché degli uomini si comprendono a vicenda, trovano che la parola dell’altro è diretta a loro stessi, sentono la Parola di Dio nella parola dell’uomo»(Joseph Ratzinger). 10. Cfr. idem, n. 56.
La comunità dell’ascolto La comunità radunata per l’ascolto della Parola di Dio fornisce alla parola scritturistica il contesto ideale nel quale essa può venire attualizzata e vivificata: la comunità convocata dalla parola diviene grembo che, fecondato dallo Spirito, accoglie e rigenera la parola della Scrittura e diviene luogo per eccellenza di comprensione della Scrittura:
«Molte cose nella S. Scrittura che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli (coram fratibus meis positus)... Mi sono reso conto che l’intelligenza mi era concessa per merito loro»11. 11. GREGORIO MAGNO, Moralia, II, n.1 (Gregorio si riferisce al contesto comunitario liturgico).
L’unità della comunità radunata attesta già l’efficacia della Parola che chiama e ha il potere di riunire oggi uomini e donne per l’incontro con il Signore. Collocata nell’alveo comunitario e liturgico, la Scrittura proclamata, interpretata nell’omelia, che ispira l’eucologia12, rende la comunità ecclesia nudiens: il primato dell’ascolto rende il gruppo dei credenti ekklesía. 12. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., nn. 7.33.
«Nell’ascolto della Parola di Dio si edifica e cresce la chiesa ... Ogni volta che la chiesa, riunita dallo Spirito santo, annunzia e proclama la Parola di Dio, sa di essere il nuovo popolo di Dio, nel quale l’alleanza, sancita negli antichi tempi, diventa piena e completa»13. 13. ORDO LECTIONUM MISSAE, 9
Il passaggio dal testo alla parola richiede come atteggiamento basilare l’ascolto: • ascolto del lettore, • ascolto del predicatore, «per non essere vano predicatore della Parola di Dio all’esterno colui che non l’ascolta di dentro»14, • ascolto dell’assemblea. 14. AGOSTINO, Sermone 179, 1 (citato in DV 25).
L’ascolto deve avvenire nella fede, cioè nella disponibilità a realizzare, a vivere la parola: grazie ad esso la parola scritturistica potrà avvenire come evento sempre nuovo e attuale nei destinatari futuri della Parola di Dio. Ascoltare nella fede significa infatti aprirsi alla convinzione che attraverso il testo biblico Dio parla a noi oggi. Il contesto liturgico attua la sacramentalità della Scrittura per cui «nella liturgia Dio parla al suo popolo; Cristo annunzia ancora il vangelo»15; «Nei libri sacri il Padre che è nei cieli viene con sovrabbondanza di amore incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro»16. 15. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., n. 33. 16. CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum, o. c., n. 21.
Ma soprattutto vanno sottolineate, come condizioni che favoriscono il discernimento e l’accoglienza della Parola di Dio contenuta nella Scrittura, la dimensione della contemporaneità (oggi, hodie) e del coinvolgimento diretto del destinatario («per me», «per noi»: cfr. l Cor 10,11: gli eventi dell’esodo (Furono scritti per ammonimento nostro, di noi per cui sono arrivati gli ultimi tempi»).
Regola ermeneutica basilare è l’hodie in Christo et in ecclesia. Questa accoglienza del libro nell’oggi fa sì che esso non appaia nella liturgia come libro di studio ed i istruzione, come documento letterario del passato, ma come memoriale della storia di salvezza compiuta nell’evento pasquale di Cristo che è appunto ciò che celebra la comunità riunita.
Il coinvolgimento dei membri dell’assemblea attiene al carattere di alleanza della liturgia che chiede non solo di sentire rivolte a sé le parole del Signore, ma di metterle in pratica. Ovviamente è perfino inutile ricordare che la parola scritturistica può diventare vivente e vivificante grazie alla sempre maggiore familiarità dei fedeli (e tanto più del presidente dell’assemblea e di chi ha l’incarico della predicazione) con la Scrittura e la loro sempre più assidua pratica della lectio divina. Scriveva Giovanni Crisostomo:
«Ecco ciò che vi chiedo: che un giorno alla settimana o la domenica, ciascuno di voi prenda in mano il passo del vangelo che vi verrà letto nella liturgia, per leggerlo e rileggerlo in anticipo; che ne facciate in casa uno studio attento e ponderato, notando ciò che vi è di chiaro e di oscuro, ciò che sembra contraddittorio senza esserlo in realtà. Dovreste venire ad ascoltare la parola sacra soltanto dopo una tale preparazione, diligente e completa. Questo lavoro sarebbe di grande utilità per me: io non troverei grande difficoltà a farvi comprendere il senso di ogni testo, essendo la vostra intelligenza già familiarizzata con i testi; voi sareste più chiaroveggenti e perspicaci, non solamente per ascoltare e apprendere meglio, ma anche per insegnare agli altri quanto avrete appreso»17. 17. GIOVANNI CRISOSTOMO, Il vangelo di Giovanni XI, 1.
L’ascolto poi della Parola da parte della comunità deve essere orante. «La lettura della Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo; poiché “gli parliamo quando preghiamo e lo ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini”»18. 18. CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum, o. c., n. 25.
La liturgia è il contesto orante per eccellenza che consente questo atteggiamento per cui la parola ascoltata viene recepita «quale veramente è, quale Parola di Dio» (1Ts 2,13), non su Dio, e ad essa si risponde parlando a Dio, non di Dio. Si compie così l’itinerario dalla parola scritta alla presenza: Cristo «è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura»19. 19. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., n. 7.
Il silenzio Una condizione non molto sottolineata che consente il dispiegarsi dell’efficacia della Parola di Dio e il suo ascolto è il silenzio. «Si osservi, a tempo debito, il sacro silenzio»20; «Il dialogo tra Dio e gli uomini sotto l’azione dello Spirito santo richiede brevi momenti di silenzio, adatti all’assemblea in atto, perché la Parola di Dio penetri nei cuori e provochi in essi una risposta orante»21. 20. Idem, n. 30. 21. ORDO, 21.
Ogni dialogo è fatto di parole e silenzi: il silenzio è essenziale al senso del discorso e alla possibilità dell’ascolto, quindi della comunicazione. «Il silenzio nella liturgia non è una cerimonia; è piuttosto una sospensione di ogni gesto, parola, rito. Non è però una sosta dal celebrare, quanto invece un entrare nel cuore della celebrazione» (Achille Maria Triacca), del mistero celebrato. «La Parola uscita dal silenzio»22, il Figlio di Dio, abbisogna di silenzio per giungere a compimento nel cuore dell’uomo e portare frutto. 22. IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ad Magnesios 8, 2.
Il silenzio liturgico fa ascoltare la «voce dello Spirito» («Chi ha orecchio ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese»: Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22).
«Riempirsi di silenzio è aprirsi allo Spirito santo: per sentirlo, ascoltarlo, essergli docili e docibili. Il silenzio di adorazione e di contemplazione è la migliore apertura per accogliere la Parola di Dio. Il silenzio è primo gradino per vivere la Parola del Signore. Il silenzio dopo l’annuncio della Parola di Dio è via all’interiorizzazione e all’adeguazione della Parola di Dio a noi e di noi alla Parola di Dio» (Achille Maria Triacca).
Il silenzio scava nel cuore del credente uno spazio per la ricezione dello Spirito che è l’ermeneuta della Parola e del non-detto di Cristo (cfr. Gv12ss.). Il Dio biblico si rivela anche nella («voce di un silenzio sottile» (1 Re 19,12) e il silenzio liturgico è spazio di incontro con il linguaggio «ineffabile» (cfr. Rm 8,26) dello Spirito.
Il silenzio liturgico va perciò compreso non come passività, ma come azione, azione comune: la qualità del silenzio rivela la qualità dell’ascoltodell’assemblea, ma anche la sua stessa qualità di assemblea.
Infatti, se la comunità nella liturgia è chiamata a «rendere gloria a Dio con un solo animo e una sola voce» (Rm 15,6), essa è anche chiamata a mostrare il suo essere corpo con un silenzio che sia linguaggio dell’insieme dei membri dell’assemblea, di ciascuno e di tutti. Lettura della Parola e omelia sono pertanto finalizzate a costruire il silenzio comune della comunità riunita, cioè il solido fondamento di una comunità sottomessa all’autorità della Parola di Dio.
Che cosa avviene quando la Parola di Dio, scaturita dal testo biblico, raggiunge l’ascoltatore? Un’esperienza non infrequente che al credente è dato di fare è quella di sentirsi «radiografato», «messo a nudo» o durante la proclamazione liturgica della Parola o durante la lettura di un testo biblico nella lectio divina, oppure all’ascolto di una omelia o di un commento di un testo biblico.
La fede e l’ascolto che il credente predispone divengono sorprendentemente accoglienza di una Parola che già lo conosce e così lo mette in crisi. È l’esperienza di David che reagisce con veemenza alle parole del profeta Natan, ma poi deve riconoscere che ciò che ha detto il profeta non riguarda altri, ma concerne direttamente e personalmente lui: «Sei tu quell’uomo!» (cfr. 2Sam 12,1-14); è la sorpresa della donna di Samaria di fronte a Gesù che le parla (Gv 4,26): «Mi ha detto tutto quello che ho fatto» (Gv 4,29).
Nella Parola di Dio, in ogni pagina della Scrittura che contiene la Parola di Dio, è sempre presente la domanda di Dio rivolta ad Adamo e ad ogni uomo: «Dove sei?» (Gen 3,9), dove ti situi? Domanda che coglie Adamo e ogni uomo che accetti di ascoltarla, nella nudità, nella fragilità: non che questa Parola crei tale nudità, ma la fa emergere, ponendo l’uomo davanti a una Presenza altra (cfr. Gen 3,10).
Quando si ascolta la Parola di Dio nella convinzione di fede che essa ci riguarda (vorrei sottolineare: ci ri-guarda, ci scruta e ci vede nel profondo), che parla a noi e di noi (res nostra agitur), allora noi la accogliamo quale veramente è: non come parola «su» Dio, non come parola solamente umana, ma «quale Parola di Dio che esercita la sua efficacia in coloro che credono» (cfr. 1Ts 2,13).
Questa efficacia della Parola, che implica anche una sua valenza giudiziale, è parallela a quella dell’Eucaristia attestata con forza da Paolo. È quanto emerge dal passo di 1Cor 11,17-34 in cui i versetti 26-32 testimoniano la valenza giudiziale dell’Eucaristia:
«Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga. Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme con il mondo» (1 Cor 11,26-32).
Come l’Eucaristia è un «annunciare» la presenza del Signore crocifisso, risorto e veniente (1 Cor 11,26; verbo katanghéllein), così annunciare l’Evangelo (1 Cor 9,14; verbo katanghéllein) è un manifestare la presenza del Cristo vivente (cfr. 2 Cor 4,2): «Cristo è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura»23; 23. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., n. 7.
tramite le Scritture «Dio parla al suo popolo, Cristo annuncia ancora l’Evangelo»24; nelle Scritture Dio viene con sovrabbondanza di amore incontro al suo popolo, cerca l’incontro e la relazione con ogni credente25. 24. Idem, n. 33. 25. CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum, o. c., n. 21.
Sì, se nell’annuncio della Parola di Dio avviene la phanérosistésaletheías (2 Cor 4,2), la «manifestazione della verità» che è Cristo, questa diviene anche svelamento della verità che è in ciascuno: ma svelamento è anche spogliazione, abbattimento delle difese, delle corazze, delle maschere, perché emerga la verità interiore.
E questo svelarsi a noi della nostra verità intima si accompagna sempre a un grande dolore: il dolore della morte delle nostre idealizzazioni, dello spezzamento delle immagini di noi che tanto amiamo ma che null’altro sono se non idoli. Come le folle di Gerusalemme, così anche il credente di sempre sente la trafittura del cuore all’ascolto della Parola di Dio (cfr. At 2,37).
Questo dolore della Parola che mette a nudo, giudica e mette a morte è però tollerabile perché nasce da uno sguardo di amore, esattamente come lo sguardo di Gesù sull’uomo ricco, uno sguardo che trasmette amore («Gesù, fissato lo sguardo su di lui, lo amò»: Mc 10,21), quell’amore al cui interno può avvenire la rivelazione della povertà, della mancanza profonda, forse anche della contraddizione che abita quell’uomo («Una cosa ti manca»: Mc 10,21), senza che questa lo schiacci, lo umilii, ma sia invece il primo gradino della sequela dietro a Gesù nella libertà e nella verità («Vieni e seguimi»: Mc 10,21).
Sì, la valenza giudiziale della Parola, il fatto che essa tenda a convincere di peccato, a svelare all’uomo la debolezza e la povertà che lo abitano, è parte costitutiva del cammino di salvezza che la Parola di Dio indica e fa percorrere all’uomo. È Una Parola che fa emergere la situazione reale dell’uomo davanti a Dio, gli pone un’esigenza che indirizza il suo cammino e concede anche, a chi la accoglie, la forza di mutare la propria condizione.
In questo mi pare di ravvisare le tre grandi «forme» della Parola di Dio nell’Antico Testamento: • la sapienza, • la legge, • la profezia.
Se laparola sapienziale «dice» il reale, se la parola del comando (la legge) «orienta» il reale e se la parola profetica «interviene» nel reale e lo «cambia», sempre questa parola cerca relazione con l’uomo e la trova in pienezza nella Parola fatta carne, Gesù Cristo, che è la via (livello della Legge -Torah), la verità (livello profetico) e la vita (livello sapienziale).
Gesù Cristo è la Parola, e in quanto tale è anche il Giudizio, è colui che sa ciò che vi è in ogni uomo (Gv 2,25), che scruta il cuore e i reni, cioè la vita conscia e l’inconscio degli uomini. Egli è la Parola di Dio i cui occhi sono fiammeggianti (Ap 19,12-13).
Insomma, la Parola di Dio ci giudica quando e perché da essa noi ci sentiamo posti di fronte alla Presenza del Signore! E questo giudizio tende a suscitare la responsabilità dell’uomo: «Davanti alla Parola di Dio (lógos toù theoú) non c’è creatura che possa nascondersi, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi (cioè, della Parola) e noi ad essa dobbiamo rendere conto (ho lógos)» (Eb 4,13).
Alla Parola (di Dio) deve rispondere la nostra parola, cioè l’intera nostra vita con tutte le dimensioni psicologiche e affettive, somatiche e spirituali che sono interpellate, toccate, messe in crisi, ferite dalla Parola. È l’opera di purificazione che la Parola, abitata dallo Spirito di Dio, opera nell’uomo. È la morte attraverso cui la Parola fa passare il credente per guidarlo alla pienezza della vita.
Perché anche l’ascolto della Parola avviene all’interno della logica pasquale, cioè nel quadro di una morte e di una resurrezione. Accogliere la Parola dell’Evangelo comporta sempre questa dinamica pasquale. E questo ci dice come sia difficile l’ascolto della Parola di Dio: noi poniamo resistenze a tale ascolto, temiamo il giudizio della Parola su di noi, cerchiamo di evitare la purificazione e lo spogliamento prodotti in noi dall’accoglienza del seme della Parola, così come i terreni non profondi, sassosi, o infestati dai rovi (Mc 4,1-9.13-20) non accolgono la semente perché per farlo dovrebbero lasciarsi dissodare dai sassi, ripulire dai rovi, arare e sarchiare come fa il padrone della vigna nella parabola narrata in Is 5. Ma, per quanto temibile, questo giudizio è vitale. Come è vitale l’evento della morte di croce che si apre alla resurrezione.
Affrontare il problema della trasmissione della fede oggi richiederebbe un’analisi di quella che è stata definita «la prima società post-tradizionale»(Danièle Nervieu-Léger), così come della «cultura dell’amnesia» (Johann Baptist Metz) dominante oggi in Europa. Fenomeni che pongono problemi gravi alla chiesa che vive di paràdosis e di memoria, in quanto essa si fonda sulla narrazione di generazione in generazione della memoriapassionisJesuChristi.
Fenomeni che chiedono ai cristiani di fondare nell’oggi e di rimotivare ogni parola e ogni gesto della fede, non più supportati dall’autorità di una tradizione che li renda eloquenti, credibili e ne favorisca il passaggio tra le generazioni. E più in radice ancora, occorrerebbe affrontare il problema della trasmissibilità della fede stessa: se la fede è dono teologale ed è suscitata dallo Spirito, può essere oggetto di trasmissione? Se sì, in che limiti e in che senso?
Una comunità generante L’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) è emblematico della possibilità di un annuncio di Cristo fallimentare perché incapace di trasmettere vita. I due di Emmaus annunciano un morto (Lc 24,21-24), narrano la loro frustrazione e la loro perdita di speranza.
Essi dicono la possibilità, per la chiesa di sempre, di un annuncio che non dà vita, ma tiene chiusi nella morte il Cristo annunciato, gli annunciatori e i destinatari dell’annuncio. La domanda circa il trasmettere la fede, che non è impresa individualistica e solitaria, ma evento comunitario, ecclesiale, non deve indirizzare le risposte nel senso della ricerca di strategie comunicative efficaci (il livello del: come?) e neppure incentrarsi analiticamente e settorialmente sui destinatari, per esempio i giovani (il livello del: a chi?), ma deve essere declinata come domanda che riguarda il soggetto incaricato di questa operazione spirituale (il livello del: chi?).
Deve divenire una domanda della chiesa su di sé. Questo consente di impostare il problema in maniera non estrinseca, ma corretta, perché pone in causa la chiesa tutta nel suo essere e nel suo vivere.