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USCIRE DALL’EURO? C’E’ MODO E MODO. Luglio 2013. Indice. Il conflitto tra capitali in Europa La mezzogiornificazione dell’Europa 4 vane ipotesi di risposta al conflitto interno agli assetti del capitalismo europeo La deflazione salariale come unica risposta
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USCIRE DALL’EURO? C’E’ MODO E MODO Luglio 2013
Indice • Il conflitto tra capitali in Europa • La mezzogiornificazione dell’Europa • 4 vane ipotesi di risposta al conflitto interno agli assetti del capitalismo europeo • La deflazione salariale come unica risposta • L’ordine di grandezza che implica tale ricetta • L’inefficacia di tale ricetta • La svalutazione: unica carta per rimettere in equilibrio i conti con l’estero • I ritardi della sinistra su una exitstrategy dall’euro • Modi di destra e modi di sinistra per uscire dall’euro • Gli effetti sui salari dell’uscita dall’euro da sinistra o da destra • Gli effetti dell’uscita dall’euro sui rapporti sociali non è determinabile univocamente • Conclusioni
Il conflitto tra capitali in Europa • La crisi dell’Europa è spiegabile con il conflitto in corso tra i capitali delle nazioni che ne fanno parte: • tra capitali solvibili situati nei paesi centrali e del nord e capitali insolventi situati nei paesi periferici dell’Unione. • Indicatore di questo conflitto è l’accentuazione delle divergenze tra tassi d’insolvenza • In Germania il tasso d’insolvenza delle imprese è del 5,8% e in Olanda del 2,9%. In Italia, Portogallo, Spagna e Grecia è rispettivamente di 17,18, 19 e 27%. • Al divario sulle insolvenze segue ovviamente una accelerazione dei processi di acquisizione dei capitali deboli ad opera dei più forti.
La mezzogiornificazione dell’Europa • Il dualismo economico caratterizza oggi le relazioni tra paesi centrali e paesi periferici dell’Unione Europea. • I paesi periferici rischiano di essere ridotti a rango di fornitori di manodopera a buon mercato o al più di meri azionisti di minoranza di capitali la cui testa pensante tenderà sempre di più a situarsi al centro del continente.
4 vane ipotesi di risposta al conflitto interno agli assetti del capitalismo europeo • Riforma degli assetti istituzionali europei che riequilibri i rapporti tra i paesi membri o che consenta di mitigare gli effetti della mezzogiornificazione delle periferie. Fino ad oggi vano auspicio. • Aprire un confronto sugli squilibri strutturali generati dall’attuale regime di accumulazione trainato dalla finanza privata per sostituirlo con una moderna visione di piano che conferisse ai poteri pubblici il ruolo di creatori in prima istanza di nuova occupazione. Tema che non ha minimamente attecchito nel dibattito europeo nemmeno a sinistra. • La speranza di rinsaldare l’unità europea tramite l’adozione di standard salariali e del lavoro. Speranza naufragata di fronte all’opportunismo dei socialdemocratici tedeschi ostili a qualsiasi ipotesi di coordinamento europeo della contrattazione. • Mitigare la crisi finanziaria attraverso un unione bancaria e una connessa assicurazione dei depositi. Soluzione venuta meno di fronte all’opposizione dei tedeschi intenzionati a favorire in campo bancario processi di centralizzazione dei capitali di tipo darwiniano.
La deflazione salariale come unica risposta • L’unica ricetta con cui si cerca di affrontare il conflitto tra capitali europei e la mezzogiornificazione dei paesi periferici è l’abbattimento dei costi del lavoro per unità di prodotto. • Riducendo il costo unitario del lavoro i paesi periferici potrebbero recuperare competitività e quindi in grado di ridurre il loro disavanzo con l’estero ricorrendo in modo limitato alle politiche di austerità: • proposta che incontra molti sostenitori (es. Lorenzo Bini Smaghi) e che almeno ha il merito di chiarire che i problemi riguardano i conti con l’estero dei paesi membri e non i conti pubblici.
L’ordine di grandezza che tale ricetta implica • L’abbattimento del costo del lavoro necessario per rimettere in equilibrio i conti con l’estero dei paesi periferici dovrebbe aggirarsi tra il 20 e il 30% dei salari nominali. • Un operaio che oggi è pagato 1000 € domani dovrebbe prendere 700 €. • Soluzione impraticabile? Ma la crisi può rendere possibili anche soluzioni più ardite e violente.
L’inefficacia di tale ricetta • Il feroce tentativo di salvare l’Unione e di ricomporre lo scontro capitalistico in atto a colpi di deflazione salariale potrebbe non funzionare. • Es. la Grecia: • tra il 2008 e il 2012 si ha un calo medio dei salari monetari di tre punti percentuali, il crollo dei salari reali di 18 punti e una caduta della quota salari di 4 punti. Il salario minimo fissato dalla legge scende del 44% (da 877 a 490 €). • Nonostante tale depressione dei redditi senza precedenti storici la Grecia ha chiuso il 2012 con un disavanzo con l’estero di 3 punti percentuali in rapporto al PIL. Il paese continua ad importare più di quanto esporti.
La svalutazione: unica carta per rimettere in equilibrio i conti con l’estero • La svalutazione potrebbe quindi diventare l’unica carta da giocare da parte dei paesi periferici. • L’eventuale deflagrazione della moneta unica e al limite la messa in discussione del mercato unico europeo dipenderanno degli esiti di una partita tutta interna agli assetti proprietari del capitale europeo, rispetto al quale il lavoro e le sue rappresentanze appaiono del tutto subalterne. • Nonostante gli impegni assunti dalla BCE nell’erogazione di liquidità, considerata l’evanescenza in sede europea di decisioni per l’avvio di un programma di investimenti pubblici nelle aree più in difficoltà, a lungo andare questa situazione può rendere insostenibile l’unione europea.
I ritardi della sinistra su una exitstrategy dall’euro • La riduttiva litania “fuori dall’euro sarebbe l’inferno” vanifica ogni sforzo di comprensione delle reali dinamiche in corso e accentua l’emarginazione politica del movimento operaio. • L’irriducibile fedeltà della sinistra nella moneta unica è una eco del tempo andato, quando la globalizzazione avanzava senza apparenti ostacoli. • Con lo sguardo ancora rivolto a quella fase la sinistra sembra fuori dal tempo e il suo posizionamento conta poco o nulla nell’evoluzione della crisi europea. • L’assurdo rifiuto ad aprire una discussione seria sulle decisioni da assumere in caso di precipitazione dell’Unione comporta la mancanza di una strategia per tutelare gli interessi del lavoro subordinato. • Le modalità di abbandono di una zona a cambi fissi come l’eurozona sono molteplici e ognuna può ricadere in modi diversi su diversi gruppi sociali.
Modi di destra e modi di sinistra per uscire dall’euro • Il nodo non è quale regime valutario ( cambio irrevocabile oppure libera fluttuazione della moneta): dal punto di vista dei rapporti sociali di produzione il problema e ben più complesso. • Es. i “firesales” (Krugman): la possibilità che lo sganciamento dall’euro e la svalutazione della moneta possa determinare una caduta del valore dei capitali nazionali. Le alternative che i governi hanno di fronte sono quelle di favorire eventuali acquisizioni estere oppure contrastarle: • per le implicazioni dal punto di vista dei rapporti di produzione la prima soluzione può essere definita di destra, la seconda di sinistra. • Quest’ultima soluzione però comporterebbe anche la messa in discussione del mercato unico, non della sola moneta, con buona pace dei liberoscambisti di sinistra.
Gli effetti sui salari dell’uscita dall’€ da sinistra o da destra • Vari studi ci dicono che l’abbandono del cambio fisso e la svalutazione risultano spesso correlati a una riduzione dei salari reali (perdita di potere di acquisto delle retribuzioni). • Studi più recenti ci consentono una lettura più articolata dei dati: • nell’ultimo ventennio abbiamo 9 casi di sganciamento dal cambio fisso: Finlandia, Gran Bretagna, Italia e Svezia nel 1992, Repubblica Ceca e Sud Corea nel 1997 e Argentina e Turchia nel 2001. • L’entità del calo può essere modesta come in Italia ( meno di un punto in percentuale) o molto forte (come in Argentina (meno trenta punti). Negli anni successivi gli andamenti sono diversificati (in alcuni casi il declino perdura in altri la ripresa è immediata). In tutti casi comunque dopo 5 anni dalla svalutazione i salari reali tornano ai livelli precedenti e talvolta li superano. • Per quanto riguarda la quota salari ( quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori) l’andamento è più univoco e meno rassicurante. In tutti i casi dopo un anno dalla svalutazione la quota salari si riduce e dopo cinque la caduta quota salari si fa più consistente e il nesso con lo sganciamento dal cambio fisso è evidente.
Gli effetti dell’uscita dall’€ sui rapporti tra le classi sociali non è univocamente determinabile. • E’ risibile l’idea diffusa a sinistra che l’abbandono dell’€ comporterebbe una svalutazione di tale portata da generare un crollo verticale dei salari reali, così come risulta infondata la tesi di chi esclude l’eventualità di un impatto negativo sui salari e sulla distribuzione del reddito. • Di sicuro c’è che l’abbandono di un regime a cambi fissi può avere un impatto negativo o meno sui redditi dei lavoratori e sulla redistribuzione del reddito nazionale a seconda che esistano o meno meccanismi istituzionali ( scala mobile, contratti nazionali, prezzi amministrati, ecc.) in grado di agganciare i salari alla dinamica dei prezzi e della produttività. • Escludere tali meccanismo implica un uscita dall’euro da destra, contemplarli significa predisporre un uscita da sinistra.
Conclusioni • La questione salariale e distributiva è solo uno dei tasselli degli enormi problemi che derivano dall’insostenibilità dell’attuale assetto europeo. • Occorre uscire da una lettura estremista e manichea della fase. • I dati ci dicono che fuori dall’euro non è affatto detto che vi sia un inferno peggiore di quello che già ci circonda, ma non è neppure scontato che si possa intravede il sole di un nuovo avvenire. • Il processo storico è in rapido movimento: il peggio che i rappresentanti del movimento operaio possono fare è restare passivamente a guardare.