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Elementi di linguistica sarda. Giovanni Lupinu Facoltà di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Sassari Lezione n. 15. Lu bizzinnu moru
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Elementi di linguistica sarda Giovanni Lupinu Facoltà di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Sassari Lezione n. 15
Lu bizzinnu moru Una bostha a Ssàssari b’érani marídd’ e mmuglieri ghi si buríani assai be. La mugliér’ er’ assai bona, ma una dí s’era lliaradda d’un pizzinnu nieddu, mentri ghi ru mariddu era biancu e ttandu ru mariddu abia suipittaddu ghi ra muglieri si ra ’ntendissi gun d’un sivviddori nieddu g’abia a ru so seivvízziu. Il bambino moro Una volta a Sassari c’erano un marito e una moglie che si volevano molto bene. La moglie era molto buona, ma un giorno aveva partorito un bambino nero, mentre il marito era bianco, e allora il marito aveva sospettato che la moglie se la intendesse con un servitore nero che aveva al suo servizio. Un testo in sassarese
Lu mariddu buria va mmazzà ra muglieri baschí r’abia gridudda una tradiddora, ma primma d’ammazzalla abia binsaddu di dí ra rasgioni a ffraddi Guglièimmu Ippiruncaddu gh’ era un santu e cchi r’a dittu: «Istheddi dranquillu ghi ra bosthra muglieri b’è ffideri e bbona; dumani beniddi gu ru bizzinnu e ccu ru sivvidori a ra brédica gh’ eu vozzu ’n postha d’Ùzzari». L’indumani ru babbu gu ru bizzinnu e ru sivvidori so andaddi a ppostha d’Ùzzari e vv’era bur un be di ienti. Il marito voleva fare ammazzare la moglie perché l’aveva creduta una traditrice, ma prima di ammazzarla aveva pensato di dire la ragione a fra Guglielmo Speluncato che era un santo e che gli ha detto: «State tranquillo che vostra moglie vi è fedele e buona; domani venite col bambino e col servitore alla predica che faccio a porta Utzeri». L’indomani il babbo col bambino e il servitore sono andati a porta Utzeri e c’era pure un sacco di gente.
Lu vraddi dabboi ghi tutta ra ienti era inghíb’ affaccu, a ppigliaddu ru bizzinnu e ll’a ddittu: «In mezz’ a ttutta ghistha ienti zesch’ a bbabbu dóiu». Lu bizzinnu g’abia un mesi soru a ttuccaddu ri brazzi di ru signori biancu e a ddittu: «Chisth’ è bbabbu meu». Tutti bigníani a rródduru e ppiú di dutti bigníani ru babbu e ra mamma di ru bizzinnu ghi si so abbrazzaddi guntenti e cchi binidizíani ru vraddi g’abia vattu ru miràccuru. (Fonte: G. Bottiglioni) Il frate, dopo che tutta le gente era lì vicino, ha preso il bambino e gli ha detto: «In mezzo a tutta questa gente, cerca tuo padre». Il bambino, che aveva solo un mese, ha toccato le braccia del signore bianco e ha detto: «Questo è mio padre». Tutti piangevano a dirotto e più di tutti piangevano il padre e la madre del bambino che si sono abbracciati contenti e che benedicevano il frate che aveva fatto il miracolo.
Lu pundàcchju di li setti barretti Una notti unu, dapoi d’un pàgghju d’ori chi s’era drummitu, intendi come un affannu ’llu pettu, come un pesu chi no lu lacaa rispirà, una suffratta chi no lu lacaa arrigghj’. Si sciuta e dachí s’avvidi c’a lu pundàcchju di li setti barretti ’nnantu, lampa la mani, li pidd’ una barretta e la coa lestru lestru inn’ una pinghjatta zinziiddosa. Il folletto dai sette berretti Una notte uno, dopo un paio d’ore che si era addormentato, sente come un affanno nel petto, come un peso che non lo lasciava respirare, un’oppressione che non lo lasciava quietare. Si sveglia e come si accorge che ha il folletto dai sette berretti sopra, stende la mano, gli prende un berretto e lo nasconde lesto lesto in una pentola fuligginosa. Un testo in gallurese (da Tempio)
Lu pundàcchju c’aia una mani bianca com’è la nii, pa lu timori d’imbruttassilla, no cilca nemmancu di piddalli la barretta e cussí lu suiddatu è filmatu a chiddu, palchí cussí era statu distinatu da lu moltu che l’aia cuatu. (Fonte: G. Bottiglioni) Il folletto che aveva una mano bianca come la neve, per la paura d’imbrattarsela, non cerca nemmeno di pigliargli il berretto e così il tesoro è rimasto a quello, perché così era stato destinato dal morto che l’aveva nascosto.
Dialetti del sardo (1) Tradizionalmente, all’interno del sardo si distinguono due dialetti principali: il logudorese (parlato nella regione centro-settentrionale) e il campidanese (nella regione centro-meridionale). Ognuno di essi ha al suo interno dei sub-dialetti dotati di una certa individualità. Questa marcata frammentazione dialettale è dovuta al fatto che il sardo, da diversi secoli, non è lingua dell’ufficialità (dell’amministrazione, della scuola etc.), ma è legato soprattutto all’oralità: fatto che ha impedito la formazione di una lingua standard, che fungesse da tetto ai diversi dialetti e, al tempo stesso, fosse un forte fattore unificante.
Dialetti del sardo (2) In ogni caso, si sono venute formando, anche (o soprattutto) a livello scritto, due varietà di riferimento (“illustri”), che possiamo definire sub-standard: il primo è un logudorese che ha come base il dialetto settentrionale; il secondo è un campidanese che ha come base la parlata di Cagliari. Questi sub-standard sono stati utilizzati, e in parte lo sono ancora, per una serie di funzioni colte, per es. nella poesia; in passato, inoltre, anche la Chiesa li impiegò abbondantemente per attuare forme di comunicazione rivolte alla popolazione, in maggioranza sardofona.
Dialetti del sardo (3) Riepiloghiamo giusto alcuni dei tratti principali, già incontrati in precedenza, che differenziano il logudorese dal campidanese: mentre in log. l’articolo det. pl. è sos al maschile, sas al femminile, in camp. si ha is per entrambi i generi grammaticali; in camp. si ha la palatalizzazione delle occlusive velari, ciò che non avviene in log. (ad es., in log. la forma per “cento” è kéntu, in camp. čéntu); in camp. le vocali finali -e ed -o passano a -i ed -u (log. káne “cane”, ma camp. káni; al pl. log. kánes, camp. kánis; log. dòmo “casa”, ma camp. dòmu; al pl. log. dòmos, camp. dòmus);
Dialetti del sardo (4) in log. si ha la prostesi di i- davanti alle parole che iniziano con s- + cons., mentre in camp. questo sviluppo è assente (ad es., log. iskòla “scuola”, camp. skòla); in camp. si ha la prostesi di a- davanti alle parole che iniziano con r-, sviluppo che manca in log. (ad es., log. rána “rana”, camp. arrána); in log. le consonanti labiovelari del latino hanno esito labiale, mentre in camp. si hanno esiti di tipo italiano (ad es., log. ábba “acqua”, camp. ákwa; log. límba “lingua”, camp. língwa).
Dialetti del sardo (5) Come si è già avuto modo di osservare, inoltre, una posizione particolare occupano, per il loro carattere conservativo, i dialetti del Nuorese, talora classificati come un gruppo autonomo rispetto al logudorese. Abbiamo visto, ad es., come nel Bittese e nella Baronia (nuorese settentrionale) le occlusive sorde intervocaliche siano per lo più conservate: qui abbiamo infatti ápe “ape”, lóku “luogo”, ròta “ruota”. Infine, ricordiamo che alcuni linguisti considerano una varietà autonoma anche il cosiddetto arborense, nella fascia centro-occidentale della Sardegna: qui, in particolare, si osserva la sovrapposizione di caratteristiche tipicamente logudoresi con altre tipicamente campidanesi.
Sal fadal de Monteòe Monteòe oe es tott’ a bbinza, ma una olta issu dempus antigu b’aiad unu balattu mannu e mmeda bellu ghi bi vin sal fadas chi barian ànghelos, puitte aian sas alas e ppodian passare da ogni logu. Dogni notte valain assa idda e andain a ggirare; de gando in cando intrain issal domos dae su vrilc’ e sa gianna, dae sas abbeltural de su braccone e ccand’ idian una bessone g’ a issas piaghíada, andàini Le fate di Monteoe Monteoe oggi è tutto vigna, ma una volta, nel tempo antico, c’era un palazzo grande e molto bello in cui c’erano le fate che sembravano angeli, perché avevano le ali e potevano passare da ogni luogo. Ogni notte scendevano al paese e andavano a girare; di quando in quando entravano nelle case dalla toppa della porta, dalle aperture della finestra e quando vedevano una persona che a loro piaceva, andavano Un testo in sardo logudorese(da Pozzomaggiore)
vicín’ assu lettu e ’nde l’ischidain giammèndela trel boltas, a dda boi la giughian a Mmonteòe gun issas chi mandàini lughe meda. Da boi ghi sun arrivvadas a igustu monte, ammustrain a igusta bessone unu ben’ e gàscias pienal de oru, de diamantel de berlas e dde inari. A igusta bessone benia ssúbitu su desizzu de s’inde leare gustu siddadu: ma gustu no llu bodia lleare a ddenànt’ e sal fadas e ssi lu doccai ddivventai ssúbitu nieddu e ddiventai ccalvone. (Fonte: G. Bottiglioni) vicino al letto e la svegliavano chiamandola tre volte e poi la conducevano a Monteoe con loro che mandavano molta luce. Dopo che sono arrivate a questo monte, mostravano a questa persona un sacco di casse piene d’oro, di diamanti, di perle e di denaro. A questa persona veniva subito il desiderio di prendere questo tesoro: ma questo non lo poteva prendere davanti alle fate e, se lo toccava, diventava subito nero e diventava carbone.
Su voss’ e sos isposos Duos isposos prim’ e sa vin’ e s’ann’ e s’isposalíssiu, fin andànd’ a ccabaddu a Ssantu Vranzísch’ e Lula, pro sa vest’ e màiu, e commente si costuma dde vàchere, zuchian issa bértula sa cannistedda, su pannítt’ e sa posada chi deppian offèrrere assu Santu. Sa cumpanní’ e sor festaiolor fi mmanna; bi vin finzas sos piores, su cappellanu e mmeda nnobenantes. Il fosso degli sposi Due sposi, prima della fine dell’anno dello sposalizio, stavano andando a cavallo a San Francesco di Lula, per la festa di maggio, e come si costuma fare, portavano nella bisaccia la canestrina, il tovagliolo e la posata che dovevano offrire al Santo. La compagnia dei festaioli era grande; c’erano anche i priori, il cappellano e molti novenanti. Un testo in sardo nuorese (da Nuoro)
Arribbaus assa ruche, a mmesu caminu dae Santu Vranziscu, si virman tottu e iscabaddan pro pràndere. Sa piore, bocadar dae sar bértulas tottu cantas sas provvistas, cando tottu sa cumpannia vi ppronta pro manicare, colat in ziru chi ssu villindeu beneittu, chi nemmo ssi pode rrifiuttàr’ assu mancu de l’assazare. Tottu cantor fini, azzettan e mmànican chim piachere su villindeu, solu sos isposos cando sa piore lis porri ssu prattu chi ssa minestra beneitta, s’inde rídene e nno lla tàstana nemmancu. Arrivati alla croce, a metà strada da San Francesco, si fermano tutti e scendono da cavallo per pranzare. La priora, levate dalle bisacce tutte quante le provviste, quando tutta la compagnia era pronta per mangiare, va in giro col filindeu benedetto, che nessuno si può rifiutare per lo meno di assaggiarlo. Tutti quanti vi erano accettano e mangiano con piacere il filindeu; solo gli sposi, quando la priora porge loro il piatto con la minestra benedetta, se ne ridono e non la gustano nemmeno.
Finiu su pranzu e ppasaos sos cabaddos, sa cumpannia si ponnet torra in caminu. Dae sa ruche i ssusu su caminu er meda malu e ccando si deppe ccolare iss’orichédd’ e su vossu, chi commo si na dde sos isposos, sos cabaddor de sa cumpannia colan chiettos, su e sos isposos imbezze s’umbra ssenz’ ischire nemmancu proitta e cche ghetta ssos isposos assu trèmene. Sos isposor morin irfracassaus e sas concas issoro sun galu cullias issa cresi’ e Santu Micheli ch’est accùrziu a ssa e Santu Vranziscu. Dae sa die, su trèmene si na ssu voss’ e sos isposos. (Fonte: G. Bottiglioni) Finito il pranzo e riposati i cavalli, la compagnia si mette di nuovo in cammino. Dalla croce in su la strada è molto cattiva, e quando si deve passare vicino al fosso, che adesso si dice degli sposi, i cavalli della compagnia passano quieti, quello degli sposi invece si ombra senza nemmeno sapere perché e getta gli sposi nel precipizio. Gli sposi muoiono fracassati e le loro teste sono ancora conservate nella chiesa di San Michele che è vicina a quella di San Francesco. Da quel giorno, il burrone si dice il fosso degli sposi.
Su maurreddinu Candu Deus iar accabbau de vormai su mundu, Santu Berdu gun Gesú Gristu víanta bóffius andai ’n giru bo biri itt’ effettu via ttottu su gh’ iss’ ia ccriau. Arribant a Nnusgis e Ssantu Berdu narar a Ggesú Gristu: «Maistru, dottu as pózziu griai: molentis, crabas, ómminis, però di ses iscarésciu de griai sa gosa brusu ’mportanti». Gesú Gristu arrispóndiri: «Ma itt’ es su ghi deppu griai ancora?». Il maureddino Quando Dio aveva finito di formare il mondo, San Pietro con Gesù Cristo erano voluti andare in giro per vedere quale effetto faceva tutto ciò che Egli aveva creato. Arrivano a Nuxis e San Pietro dice a Gesù: «Maestro, tutto hai potuto creare: asini, capre, uomini, però ti sei dimenticato di creare la cosa più importante». Gesù Cristo risponde: «Ma cos’è ciò che devo creare ancora?» Un testo in sardo campidanese(da Cagliari)
E Ssantu Berdu: «Fai mmemmória, là ghi es sa gosa brus importanti ghi ci bozzar essi!». E Ggesusu: «Ma! Appu benzau ranti e mmi bari cchi non ci ammanchi nnudda. Naramiddu rui mmoi, ma in zu sériu, itt’ es su ghi ci ammàncara». E Ssantu Berdu: «E ssu maurreddinu gand’ e cchi benzas de ddu griai?». E Ggesú Gristu dd’arrispúndiri: «Penzammu ’tta via ssa gosa! Ci boli mmer’ a ffai ’nu maurreddinu!». E San Pietro: «Ricorda, dai che è la cosa più importante che ci possa essere!». E Gesù: «Ma! Ho pensato tanto e mi pare che non ci manchi niente. Dimmelo tu ora, ma sul serio, cos’è ciò che ci manca». E San Pietro: «E il maureddino quand’è che pensi di crearlo?». E Gesù Cristo gli risponde: «Non sapevo cos’era! Ci vuole molto a fare un maureddino!».
Anti sighiu a ccamminai e Ssantu Berdu benzara: «Immoi gi app’ a bolli biri gommènt’ ad a ffai a ccriai su maurreddinu, già gh’ est una gos’ e nudda!». Mentris chi víanta ghistionendi, Gesú Gristu galar is ogus a tterra e bbir unu bagh’ e bibísci’ e boi, ddi onar una bunt’ e bei e ’ndi bessir a fforas súbitu su maurreddinu. (Fonte: G. Bottiglioni) Hanno continuato a camminare e San Pietro pensava: «Ora vorrò vedere come farà a creare il maureddino, visto che è una cosa da niente!». Mentre stavano discutendo, Gesù Cristo abbassa gli occhi a terra e vede un po’ di piscia di bue, le dà una pedata e ne esce fuori subito il maureddino.
Breve bibliografia G. Bottiglioni, Vita sarda, Milano 1925. G. Bottiglioni, Leggende e tradizioni di Sardegna, Nuoro 2003 (disponibile anche nel sito www.sardegnadigitallibrary.it). M. Virdis, Aree linguistiche, in G. Holtus, M. Metzeltin, Ch. Schmitt (a cura di), Lexikon der Romanistischen Linguistik, Tübingen 1988, pp. 897-913. M. L. Wagner, Fonetica storica del sardo, Cagliari 1984.